Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Offerta speciale
Offerta speciale
Offerta speciale
Ebook518 pages7 hours

Offerta speciale

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Marcello è un inviato televisivo sessantenne che, dopo una lunga pausa dovuta a seri problemi di salute, sta per essere rispedito in giro per il mondo come un pacco postale, nella speranza che “l’ospite indesiderato”, come lo chiama lui, non si faccia vivo un’altra volta. Ed è in questa delicata situazione, tra una trasferta a Stoccolma e un’altra in Niger, che gli giungono notizie di Miguel, un suo vecchio amico fin dai bizzarri anni ’70 e che, ultimamente, aveva perso di vista. Miguel è sempre stato un personaggio stralunato, ingenuo, propenso all’alcool e sognatore, uno che ha sempre vissuto come voleva, tra alti e bassi (più bassi che alti, per la verità), ma ora sta sprofondando lentamente verso l’abisso della perdita della memoria, proprio mentre si trova coinvolto in alcuni guai giudiziari. Marcello gli ha sempre voluto bene e vorrebbe fare qualcosa per lui, così Miguel chiede all’amico di aiutarlo a realizzare il suo ultimo desiderio, rivedere Eleonora, il suo amore di gioventù. Impresa tutt’altro che facile essendo Eleonora diventata monaca di clausura da quando era poco più che ventenne. I due amici iniziano una strana ricerca on the road della donna, tra l’Umbria e la Romagna, durante la quale hanno la sensazione di inseguire un fantasma. Marcello, inoltre, non ha mai capito come facciano un miliardo e trecento milioni di cattolici a credere in quello che lui definisce “L’amico immaginario”, e che nemmeno risponde a quanti si rivolgono a lui. Molto strano, sì, ma che fine ha fatto Eleonora? In un paio di occasioni sembrano ad un passo dal poterla incontrare, ma poi accade sempre qualcosa che lo impedisce. È un caso, oppure è lei che continua a fuggire?

LanguageItaliano
Release dateDec 7, 2016
ISBN9788856780567
Offerta speciale

Related to Offerta speciale

Related ebooks

Action & Adventure Fiction For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Offerta speciale

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Offerta speciale - Franco De Chiara

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8056-7

    I edizione elettronica ottobre 2016

    A Francisco, personaggio meraviglioso e irripetibile,

    amato da chiunque abbia avuto il privilegio di conoscerlo

    «Se i popoli si conoscessero meglio

    si odierebbero di più».

    (Ennio Flaiano, 1910-1972)

    «Il nostro mondo diverrà un giorno tanto raffinato

    che sarà ridicolo credere in Dio

    come oggi è ridicolo credere agli spettri».

    (Georg Cristoph Lichtenberg, 1742-1799)

    Capitolo I

    Erano da poco passate le otto del mattino, e mentre stava entrando con lo scooter nel parcheggio dell’ospedale Marcello non riusciva a decidersi tra il pianista di fama internazionale e il pilota di linea. Oppure tutti e due, la soluzione più semplice, certo, ma in tal caso temeva che avrebbe preso il sopravvento quella che lui chiamava La sindrome della papera, nel senso che il simpatico animale, come è noto, è in grado di camminare, di nuotare e di volare. Solo che ognuna di queste cose le fa malissimo, da dilettante: il suo incedere sulla terraferma si commenta da solo, il più incapace degli scorfani avrebbe molto da insegnarle, e il volo della papera non è quello di un’aquila reale. E allora meglio concentrarsi su un unico obiettivo, anzi, sarebbe stato meglio, dato che i dubbi di Marcello erano del tutto teorici e potevano riassumersi nella constatazione che la sua vita era andata avanti ad una velocità scandalosa, avendo superato da un pezzo i cinquanta anni, che una volta solo a immaginarsi a quell’età gli sembrava un traguardo lontano quanto raggiungere i confini del sistema solare in monopattino. Dal che ne deriva che era arrivato a un punto sufficientemente avanzato da fare risultare ridicolo decidere di impiegare gli anni che gli restavano da vivere, pochi o tanti che fossero, per imparare a suonare il pianoforte a livelli sublimi o per riuscire a far decollare un aereo, svolazzare qua e là e poi riportarlo a terra. Tutte cose che, a pensarci bene, non sono difficili come sembrano, a parte la postilla che per essere in grado di farle bisogna investire un bel po’ di tempo, appunto, quello è il problema.

    Guardò l’orologio, mancava un quarto d’ora all’appuntamento su in Radiologia. Si mise a leggere il giornale in quella specie di piazza di paese delimitata dai vari edifici delle cliniche mediche all’interno del Policlinico Umberto I di Roma. Dopo una fastidiosa settimana di pioggia, di vento e di nuvole che rincorrevano altre nuvole, adesso a fine aprile il cielo sembrava arrendersi a una piacevole primavera.

    Al suono di un sms appena arrivato se ne aggiunse subito un altro uguale. Prese il cellulare dalla tasca dei jeans e mentre si domandava chi poteva essere a inviargli messaggi a quell’ora, si accorse che erano due mittenti diversi. Curiosamente lo avevano raggiunto quasi in contemporanea, il primo era targato Stella, sua figlia, che si raccomandava di farle sapere subito come era andata la visita. Benissimo, e poi che altro c’era? Un numero di cellulare sconosciuto, e poche parole di qualcuno che asseriva di aver bisogno di parlare con lui quanto prima. Questo qualcuno non spiegava per quale motivo possedesse il suo numero di cellulare, tantomeno perché, possedendolo, non lo avesse adoperato per dirgli a voce quello che gli doveva dire. Alla fine del messaggio lesse anche il nome del mittente, Margarita Holgado. Marcello ci pensò su qualche secondo, poi collegò quel nome ad una ragazza venezuelana che non vedeva da quasi trent’anni, una connazionale di Miguel. Quest’ultimo, pur essendo uno dei suoi più cari amici, negli ultimi tempi lo aveva perso di vista. Qualcosa lasciava pensare che non si trattasse di buone notizie, ma quella mattina Marcello doveva occuparsi di se stesso. Rimise il cellulare in tasca, l’avrebbe richiamata nel pomeriggio.

    Si sedette su una panchina accanto ad un’anziana in vestaglia e ad una donna più giovane, forse la figlia, che stava tirando fuori da una borsa parole crociate e rotocalchi, tesori particolarmente graditi alla maggior parte delle persone costrette a soggiornare in un ospedale. Marcello non ricordava più quante volte, negli ultimi due anni, fosse entrato in quel luogo, al quale aveva finito per affezionarsi. Gli piaceva persino l’architettura di quella città nella città, con i padiglioni in stile umbertino fermi agli anni ’20 con qualche palma asfittica davanti all’ingresso, e che si alternano a moderne costruzioni in vetro, cemento e acciaio. Ogni volta che veniva lì non poteva fare a meno di alzare lo sguardo verso il vecchio inceneritore, un’incredibile torre di mattoni a pianta ottagonale alta settanta metri che incombe sull’intero Policlinico, con la cima ricoperta da un enorme cappuccio di ferro a quadrati bianchi e rossi.

    Diede un’occhiata distratta alla prima pagina del giornale, mentre combatteva con la tentazione di aprire la cartellina che aveva con sé e leggere ancora una volta i risultati della Tac. Sembrava tutto a posto, ma soltanto dopo l’approvazione della primaria di Radiologia si sarebbe tranquillizzato, in attesa di ripetere quello e altri esami dopo tre mesi. Intanto continuava a chiedersi come sarebbe stata la sua vita se, invece di passarla tra telecamere e sale di montaggio, avesse deciso di dedicarsi alle attività che gli suscitavano invidia sincera da parte di chi le pratica abitualmente, come il pianista e il pilota. Non che gli dispiacesse essere un giornalista televisivo, aveva avuto la possibilità di vedere gli angoli più nascosti del pianeta e di essere anche pagato per farlo, però negli ultimi tempi, soprattutto quando aveva dovuto affrontare dei momenti in cui le cose non andavano per niente bene e la possibilità di essere arrivato a fine corsa appariva piuttosto concreta, rifletteva spesso su quelle due professioni, peraltro così diverse l’una dall’altra. Insomma, avrebbe voluto essere lui a dare del tu alla tastiera di un pianoforte o alla cloche di un Boeing 747, ma la faccenda non finiva qui, perché Marcello, un giorno, aveva compilato una lista di professioni che da sempre lo incuriosivano, seppur secondarie rispetto alle prime due. In questo elenco figuravano, tra gli altri, prestigiatori, saltatori con l’asta e scultori, e spesso non si era limitato ad immaginarsele le sue ipotetiche vite alternative.

    Una ventina di anni prima, per esempio, si era imposto di cominciare a prendere lezioni di pianoforte, ben sapendo che lui e la musica non erano mai andati d’accordo, per motivi che gli sfuggivano. Ai tempi del liceo faceva del suo meglio per imitare i coetanei capaci di padroneggiare la minima quantità sindacale di accordi con la chitarra necessari per esibirsi davanti all’inevitabile falò sulla spiaggia. Però non ci riusciva e, di conseguenza, collezionava una quantità di frustrazioni non molto diverse da chi, non avendo imparato ad andare in bicicletta da bambino, adesso nell’età matura rischiava di cadere e di farsi male.

    Nonostante queste premesse, poche settimane dopo il quarantesimo compleanno, decise di osare l’inosabile e un giorno suonò il campanello dell’appartamento di un palazzo dietro piazza Cavour, non lontano da casa sua. Anziana signora, diplomata al conservatorio, impartisce lezioni di pianoforte, così recitava l’annuncio letto su Porta Portese, non molto diverso dagli altri dello stesso genere, ma la possibilità di arrivarci in pochi minuti di cammino risultò decisiva nella scelta. E così, inseguito per le scale da avvincenti zaffate di spezzatino in lavorazione a base di carote, sedano e cipolle, che in certi giorni si alternavano ad impietose esalazioni di cavolfiore bollito, Marcello prese a frequentare l’anziana signora diplomata al conservatorio. La cosa, tuttavia, doveva essere avvenuta in anni lontanissimi, e anche l’atmosfera della sua casa sembrava ferma ad una data imprecisata. Quelle stanze dagli alti soffitti davano asilo a imponenti mobili di noce in stile Rinascimento con le zampe di leone, oppure ad altri mobili laccati in nero, con le vetrinette rallegrate dalla presenza di servizi da tè di fattura orientale, forse cinese o forse giapponese, ma di sicuro raramente toccati da mano umana, oppure ancora una consolle liberty, con relativa specchiera. Sul pianale di marmo si ergeva la fotografia incorniciata e ingiallita di un uomo a mezzobusto dalla fisionomia sofferta, in giacca, cravatta e cappello scuri. Questo personaggio da film neorealista doveva essere il defunto marito della signora, che lei, in un sussulto di eterna devozione coniugale, aveva pensato bene di non lasciare lì da solo e, infatti, gli aveva messo ai lati due campane di vetro ognuna delle quali proteggeva dalla polvere la statuetta in ceramica di un santo. Davanti alle finestre un sipario di pesanti tende di velluto verde, oltre a dimezzare senza pietà e senza motivo la luce esterna, permetteva al vecchio gatto della donna di farsi le unghie. Un pomeriggio la lezione venne interrotta dai miagolii disperati della bestiola, un simpatico tigrato piuttosto sovrappeso, che si era arrampicato su per una tenda, restando aggrappato a due metri da terra. Aveva fatto appello a tutto il suo coraggio per salire lassù e non gliene restava più per scendere. Marcello, in piedi su una sedia, disincagliò il felino, lo depositò con delicatezza nelle braccia della padrona e presero di nuovo posto al pianoforte, sopra il quale una ventina di portafotografie di argento riassumevano i settanta e più anni di vita della signora: una gita a Venezia vestita da ragazza di buona famiglia, all’altare con il marito e, a giudicare dall’aspetto, non dovevano essere trascorsi molti anni prima che venisse parcheggiato definitivamente sulla consolle insieme ai due santi. Alcune foto a colori che avevano perso quasi tutti i colori la ritraevano seduta al piano in una sala da concerto. Marcello non seppe mai per quale motivo la sua carriera di pianista si fosse interrotta, così come non aveva idea se da qualche parte esistessero figli e nipoti, nonostante la deformazione professionale del giornalista lo spingesse a scoprire il mistero che aleggiava su quella casa fuori dal tempo e sulla sua inquilina. Ma forse non c’era nessun mistero, soltanto una esistenza andata così così, come ce ne sono tante, e che adesso mancava il tempo per cambiarla (alla fine il problema è sempre quello), con i concerti e i sogni di una volta che avevano ceduto il posto all’insegnamento.

    E proprio per questo Marcello si trovava lì, nella speranza di poter sfatare il suo personale tabù relativo all’inimicizia con qualsivoglia strumento musicale, e ce la stava mettendo tutta. All’inizio, dopo un paio di lezioni molto più noiose di quanto potesse immaginare, era stato tentato di chiedere all’anziana donna di saltare tutti i preliminari e di provare a insegnargli direttamente un brano di Debussy o di Chopin. Secondo lui bastava soltanto imparare a ripetere con precisione un movimento alla volta. Nella realtà sarebbe stato come prendere la patente di guida in pista al volante di una macchina di Formula 1, partecipando anche alle prove libere, e così giunse alla conclusione che non era sufficiente lasciarsi ammaestrare come un animale da circo. Alla quinta o sesta lezione non ce la faceva più a ripetere i solfeggi, le scale elementari e gli esercizi da vera e propria fisioterapia necessari per sciogliere i movimenti delle mani affinché il tocco di ogni singolo tasto risultasse corretto. Le mani, gli spiegò la sua insegnante, prima o poi avrebbero dovuto dedicarsi una all’esecuzione della melodia, e l’altra agli accordi. Fu allora che Marcello cominciò a subodorare che anche quell’antico e nobile strumento non faceva per lui, fino a quando decretò ufficialmente che per riuscire a fare due cose diverse nello stesso tempo ci voleva un cervello diviso in due parti separate e autonome. Gli sembrava di ricordare che un cervello del genere, escludendo qualche decina di migliaia di esseri umani in grado di eseguire un Clair de Lune decente, fosse in dotazione soltanto ai delfini, tanto è vero che sono in grado di nuotare e di dormire nello stesso tempo. O invece erano gli squali? A Marcello non rimase altro da fare che prendere commiato dalla signora, scusandosi per la propria resa e rinunciando con sufficiente eleganza al rimborso delle lezioni pagate in anticipo. Discese per l’ultima volta le scale di quel palazzo, colonizzate da inediti effluvi di un piatto molto speziato a base di curry, coriandolo e peperoni che si dipartivano dalla portineria, saldamente in mano ad una famiglia di cingalesi che, come da copione, aveva preso il posto del vecchio portiere abruzzese andato in pensione.

    E così si era chiusa definitivamente la sua carriera di aspirante pianista, mentre per quanto riguarda il volo, la situazione si presentava più complessa.

    Nella vita di tutti i giorni, infatti, Marcello non aveva a che fare con nessun pianista, e non rimpiangeva più di tanto non aver insistito in quella direzione, anche se poi gli bastava vedere in televisione uno come Stefano Bollani per sentirsi rodere il fegato a livelli preoccupanti. Con il volo, però, aveva sempre dovuto mantenere una frequentazione continua, dato che un inviato televisivo non può essere stanziale. Di tutti gli aeroporti italiani, della metà di quelli europei e di una ragguardevole percentuale di quelli mondiali, Marcello conosceva a memoria l’ubicazione delle toilette, degli autonoleggi, dei bar e dei giornalai. Senza contare che sarebbe stato in grado di riferire con precisione, se interrogato, quali sono le ultime visioni che ha un passeggero dal finestrino un attimo prima dell’atterraggio: il vecchio DC 3 posizionato su un piedistallo a Torino, il Ponte della Libertà a Venezia, il cubo giallo e blu dell’Ikea a Newark, il parco eolico a Trapani, le serre illuminate giorno e notte ad Amsterdam, la pista di go-kart ad Alghero, il porticciolo di Glifada ad Atene, la Lanterna a Genova, la tonnara abbandonata a Palermo e, naturalmente, lo splendido casolare rosso della tenuta di Maccarese a pochi metri dalla pista 16/L di Fiumicino. Nonostante sapesse tutte queste cose e molte altre ancora, salire a bordo di un aereo lo terrorizzava sempre e comunque, ma gli sembrava tardi per cambiare lavoro e prendere in considerazione l’ipotesi di aprire una cartoleria. Non riusciva a rilassarsi nemmeno durante i cinquanta minuti di volo che separano Roma da Milano, anche se in certi giorni invernali non era l’unico, quando la nebbia in atterraggio a Linate impediva di vedere l’estremità dell’ala. Questo, però, così come alcune tempeste da montagne russe incontrate in pieno Atlantico o in Estremo Oriente, non era niente in confronto a quanto gli era capitato molti anni prima in Mozambico, perché il destino prova un raffinato godimento nell’accanirsi contro la persona sbagliata. E Marcello, quella volta, oltre ad essere la persona sbagliata, si trovava anche nel posto sbagliato nel momento che più sbagliato non si può.

    Il Mozambico, dopo una feroce guerra civile, sembrava finalmente un Paese pacificato, per quanto possa valere un trattato di pace a quelle latitudini. Il caporedattore di Marcello decise che era il caso di occuparsene e lo spedì laggiù, con l’operatore e un assistente. A quell’epoca Marcello aveva già realizzato servizi e documentari in mezzo mondo, imparando da subito e sulla propria pelle che il planisfero, con tutte le nazioni dei cinque continenti colorate in maniera diversa l’una dall’altra, è solo un campionario di trappole. Escludendo le zone di guerra, che aveva sufficientemente percorso – Iraq, Kosovo, Afghanistan e Libia – di posti a dir poco scomodi – come la Colombia, lo Yemen o il Madagascar – gliene erano capitati a decine, arrivando alla conclusione che era preferibile andare a girare a New York o a Parigi. Ovviamente non poteva scegliere lui dove andare, almeno non sempre, e così un giorno si ritrovò a bordo di un vecchio Antonov 24 in volo tra Beira e Cuamba.

    Il piccolo bimotore russo, risalente ai primi anni ’60, meritava il posto d’onore in un museo dell’aeronautica, ma nel frattempo era ancora pieno zeppo di passeggeri e di bagagli stivati alla meno peggio, compresa una gabbia contenente una decina di polli indemoniati e piazzata davanti all’unica toilette dell’aereo. Tutto intorno a Marcello e alla sua troupe c’erano una quarantina di persone, militari, contadini, funzionari governativi, tre ragazzotte bionde in minigonna che passavano con disinvoltura dal russo al portoghese, e nessuno di loro appariva preoccupato dallo stato infelice in cui versava l’Antonov. La tappezzeria dei sedili, strappata in più punti, doveva essere stata testimone di un combattimento a colpi di machete, lo spazio tra un finestrino e l’altro era maculato da zone scure e la moquette del pavimento offriva ampi tratti scollati quanto basta per fare inciampare una persona per il semplice motivo che a nessuno era mai venuto in mente di riattaccarla. L’atmosfera era questa, mentre molti passeggeri, ridendo sguaiatamente e parlando ad alta voce, si passavano tra loro varie bottiglie di superalcolici. A completare il quadro c’era un tempo infame, scossoni e vuoti d’aria a ripetizione, con l’ululato straziante dei motori che facevano del loro meglio per mantenere l’aereo in volo, in un continuo slalom in mezzo a nuvole grigie e dense, con la luce del sole che andava e veniva attraverso i finestrini sporchi come quelli di una macchina abbandonata da parecchi mesi per strada.

    Marcello e i suoi due collaboratori non sapevano più se fosse o meno il caso di preoccuparsi, anche perché non sarebbe servito a nulla, e mentre contavano mentalmente i minuti mancanti all’atterraggio, una certezza la possedevano: la prossima persona che avrebbe rivolto loro la solita stupida frase beati voi che girate il mondo, si sarebbe presa un vaffanculo di rara sincerità. Tra una nuvola e l’altra contemplava il paesaggio montuoso che scorreva là sotto, vieppiù convinto che arrivare a Cuamba via terra sarebbe stato persino peggio di quel volo di un’ora e mezza, a giudicare da quanto aveva potuto vedere circa lo stato delle strade del Mozambico.

    Ormai non doveva mancare molto all’atterraggio, e stava calcolando chissà quanti altri voli come quello aveva effettuato regolarmente il pur decrepito aeroplano sul quale si trovava. Centinaia, forse migliaia...

    Fu proprio allora che la cosa accadde.

    Dal motore di destra, a pochi metri dal finestrino dove Marcello teneva il naso incollato, arrivarono senza farsi preannunciare un botto da fuoco d’artificio finale e una lunga fiammata arancione che si trasformò in una scia di fumo nero. L’elica a quattro pale si fermò e un freddo antartico avvolse una per una tutte le cellule del suo corpo. I fotogrammi di quelle immagini gli sarebbero rimasti scolpiti per sempre nella mente, diventando uno dei suoi peggiori incubi ricorrenti. Marcello realizzò che il problema vero non era tanto la possibilità concreta di morire, ma essere costretto a farlo in un modo così stupido, sapendolo prima e senza poterci fare niente.

    «Tu che dici, è finita?» gli domandò l’operatore, con voce orribilmente calma.

    «Ma no, dai, mi ricordo benissimo che quando siamo decollati i motori erano due, li ho contati» tentò di scherzare Marcello con la forza della disperazione «E se guardi a sinistra potrai notare che l’altro motore gira ancora, questa è tecnologia sovietica, roba indistruttibile».

    «Non direi proprio...» obiettò l’operatore, che intanto aveva fatto la cosa peggiore di tutte. Tentando a fatica di non piangere, restava imbambolato a guardare la fotografia della sua bambina tirata fuori dal portafoglio.

    L’assistente, piegato in avanti con la testa tra le mani, sembrava indeciso se mettersi a piangere anche lui o a vomitare. Oppure arrendersi a entrambe le opzioni, perché adesso il bimotore sbandava paurosamente a destra facendo perno sul motore spento che offriva resistenza all’aria, un movimento in più da aggiungere a quelli già violentissimi causati dal maltempo.

    I passeggeri erano in preda a un panico totale. Quei pochi che riuscivano a controllarsi strinsero le cinture di sicurezza, tentando di afferrare le mascherine per l’ossigeno fuoriuscite dagli alloggiamenti, anche se non c’era nessuna depressurizzazione in atto, e che sbattevano da tutte le parti. Marcello, tanto per fare qualcosa, si alzò dal suo posto e, con il cuore che lo stava martellando dentro il torace, si trascinò fino alla cabina di pilotaggio, aggrappandosi dove e come poteva. Lo steward e la hostess, seduti e saldamente legati in attesa degli eventi, lo guardarono incuriositi, preoccupati solo che non gli cadesse addosso. Mancavano molti mesi all’11 settembre, e i piloti non erano ancora stati separati dai passeggeri con una porta blindata. Il comandante gli rivolse appena uno sguardo e con un movimento deciso del braccio fece scattare lo strapuntino lì dietro, come a dire che se proprio desiderava sedersi in prima fila per godersi uno spettacolo dal finale quanto mai incerto, si accomodasse pure. E lui si accomodò. Davanti ai suoi occhi le matasse delle nuvole nere che venivano incontro all’aereo come le onde del mare tormentato dal maestrale non finivano mai. Due o tre fulmini si manifestarono non troppo lontani, illuminando tutto lo scenario come una lampada al neon difettosa, mentre ora poteva immaginare che cosa prova uno spicchio di mela dentro un frullatore.

    «Do you like Moçambique?» gli chiese sorridendo il secondo pilota. Prima che potesse reperire una risposta decente si accorse che il tizio stava canticchiando tra sé e sé, senza però smettere di eseguire le procedure del caso riportate dal manuale che stava consultando con fatica tra uno scossone e l’altro: chiudere l’alimentazione carburante del motore fuori uso, azionare gli estintori e trimmare l’aeroplano, cioè correggere al meglio l’assetto agendo sulle parti mobili di ali e deriva.

    «Nice place!» riuscì a rispondere Marcello, con assoluta incoscienza.

    In tutto questo il comandante non staccava lo sguardo da una cartina che teneva dispiegata sulle ginocchia, totalmente disinteressato di dover fronteggiare la tempesta in atto con un solo motore. Di tanto in tanto, con voce tranquilla, scambiava poche parole in portoghese con qualcuno che stava bevendo un caffè dentro una torre di controllo da qualche parte là sotto. Marcello non ci voleva credere, ma anche il comandante fischiettava qualcosa, un samba o un altro motivo conosciuto. Più che altro dava l’idea di un condannato a morte che si avvia verso il patibolo cantando un inno patriottico. Senza che glielo avesse chiesto Marcello venne informato che era originario di Porto Alegre, lo conosceva, per caso? Ma sì, certo che conosceva quella città, cosicché quando gli nominò la Lagoa dos Patos e il Palacio Piratini il comandante si voltò raggiante verso di lui, ridendo come un matto. E come se avesse letto nel pensiero di Marcello, il cui volto pallido e teso rifletteva a caratteri cubitali l’interrogativo primordiale dell’uomo che si domanda se potrà vedere ancora una volta la luce del giorno seguente, gli spiegò che, probabilmente, non c’era niente di cui preoccuparsi. Eh sì, perché nonostante tutti credano il contrario, il lavoro del pilota è spesso noioso, così ogni tanto ci vuole una emozione forte come adesso, no? E poi, mentre maltrattava cloche e pedali per correggere un violento sbandamento, si sentì in dovere di tranquillizzarlo a modo suo, spiegandogli che Deus è brasileiro!

    «But I’m Greek, creep!» obiettò il copilota, anche lui molto divertito chissà da che cosa, come se quella conversazione stesse avendo luogo in un bar di Macerata, e non a bordo di un aereo in difficoltà. A volerlo tradurre letteralmente il gioco di parole suonava così: «Ma io sono greco, stronzo!». E c’era anche da chiedersi, oltre al fatto squisitamente teorico quanto inutile relativo al dettaglio che Deus, in virtù della sua presunta nazionalità brasiliana, dovrebbe dare una mano soltanto ai compatrioti, che cosa ci facesse un attempato pilota greco in un malridotto aeroplano di una linea aerea interna del Mozambico. Non doveva trattarsi di una brillante carriera, ma a parte questo i due piloti avevano anche sbevazzato prima di sedersi ai comandi? Difficile dirlo, mentre la vita di più di quaranta persone si trovava incautamente parcheggiata nelle loro mani. Poi il comandante, che sembrava molto più giovane del suo collega, si girò verso Marcello esclamando la parola magica: GURUÈ. Indicò un punto infinitesimale sulla carta, precisando che sarebbero atterrati in quel posto, Guruè, a cento chilometri da Cuamba, la destinazione originaria del volo, dove non erano in grado di arrivare.

    «No problem, my friend!» aggiunse ancora il comandante, con l’unico risultato di ricordare a Marcello la famosa frase sulla sicurezza degli aerei con due motori: se uno dei motori ti pianta, l’altro è quello che ti porta sul luogo dell’incidente.

    Lo sdlang secco dell’uscita del carrello annunciò la fase finale del volo, nonostante la visibilità rimanesse un concetto vago tra le pareti dei nuvoloni grigio azzurri. In mezzo ad un diluvio violentissimo si materializzò una vasta spianata di terra rossastra identica alla superficie di Marte fotografata dal Pathfinder. I piloti ridussero la potenza dell’unico motore in funzione, giù i flaps, una perdita rapidissima di quota al limite dello svenimento, e poi di nuovo motore. Marcello ormai non capiva più dove si trovassero, e poi, dopo il terzo o quarto sobbalzo sulla pista, l’aereo rallentò, per fermarsi poco lontano da un gruppo di alberi dai rami orizzontali. Quei due buontemponi ci sapevano fare sul serio, pensò, mentre l’Antonov trotterellava verso un capannone di legno e lamiera con su scritto alla meno peggio Aeroporto de Guruè.

    «Something to drink?» gli chiese senza ombra di vergogna il copilota greco, allungandogli una bottiglia. A Marcello sembrava di rivivere l’incontro di Alberto Sordi con il camionista italiano squinternato in Riusciranno i nostri eroi dopo l’assalto dei rinoceronti. L’unica differenza è che non se la sentì di domandargli se ce l’aveva una mamma.

    Oltre a rallegrarsi di essere ancora tutto intero, quando rimise i piedi per terra, si rese conto di avere solo due possibilità: non salire mai più su un aereo in vita sua, oppure considerare quanto gli era appena capitato come una vaccinazione definitiva nei riguardi del volo, perché, almeno statisticamente, sembrava difficile che alla stessa persona potesse capitare ancora una situazione del genere. Decise di optare per la seconda, non senza patimenti, e nel pomeriggio era di nuovo a bordo di un Antonov uguale a quello indimenticabile della mattina. L’aereo era stato spedito apposta lì a Guruè per portare finalmente i passeggeri a Cuamba, tranne un paio che per quella giornata ne avevano avuto abbastanza. Un ultimo balzo di venti minuti, però sufficiente affinché lo stato d’animo di Marcello transitasse da una sensazione di invulnerabilità dovuta ai motivi sopraindicati a un oceano di dubbi quando, chissà perché, si ricordò di Tsutomu Yamaguchi. Questo signore, il 6 agosto 1945, si trovava a Hiroshima ed era scampato all’inimmaginabile. Il giorno dopo, anche se molto malconcio, riuscì a tornare a casa sua, ma poiché abitava a Nagasaki divenne l’unico uomo al mondo sopravvissuto a due esplosioni nucleari. Marcello se lo ricordava bene Yamaguchi, che poi morì a novantatré anni, nel 2010, perché quando era stato a girare un servizio al Museo della Pace di Hiroshima aveva provato a contattarlo per un’intervista, cosicché quando ormai stava per atterrare a Cuamba tutti i suoi ragionamenti sul non può capitare un’altra volta erano crollati miseramente.

    Dopo l’avventura in Mozambico continuò a viaggiare in aereo, intrattenendo un complicato rapporto fatto in ugual misura di amore e di odio con questo mezzo di trasporto. Poi un giorno, mentre si trovava in Sardegna per un servizio sugli incendi che stavano devastando l’isola, conobbe Filippo, un comandante di Canadair. Marcello lo intervistò e poi, con l’operatore, salì a bordo di uno di quei fantastici aerei gialli e rossi che, oltre a ricordargli la squadra del cuore, rappresentano l’unico mezzo efficace per combattere un incendio boschivo.

    Filippo effettuò un paio di ammaraggi e decolli davanti all’isola di Tavolara ad uso esclusivo della telecamera, e da allora divenne un buon amico di Marcello. Tutti e due conducevano un’esistenza simile, randagia e faticosa, sempre pronti a venire spediti con un preavviso minimo sopra i boschi in fiamme della Liguria o a documentare l’alluvione di New Orleans, ma oltre a questo condividevano lo stesso amore per il proprio lavoro. Filippo sapeva bene di rischiare la vita ogni volta che spingeva in avanti la cloche per sganciare sei tonnellate di acqua e liquido ritardante a trenta metri esatti sopra un incendio. A vedere in azione un Canadair sembra tutto facile, basta non pensare che il calore delle fiamme altera in modo imprevedibile la densità dell’aria per cui non c’è sempre la portanza necessaria per volare in sicurezza, ma quel lavoro Filippo se lo era scelto e non lo avrebbe cambiato con nessun altro. Stesso discorso per Marcello a proposito della televisione, soprattutto per la voglia che aveva di raccontare le cose. E le raccontava così bene che una signora, anni addietro, lo aveva fermato per strada non solo per fargli i complimenti sul servizio andato in onda la sera prima sui veterani dello sbarco di Anzio, ma anche per dirgli che «Sembrava proprio di esserci». Molti suoi colleghi, invece, non vedevano l’ora di rintanarsi in noiose e ben pagate regie di studio... camera uno, camera due, vai con il contributo filmato, attenti che rientriamo con la cinque. La televisione è fatta in larghissima parte di regie di studio, sono fondamentali, però Marcello le considerava un’attività impiegatizia e le lasciava volentieri agli altri. Gli veniva in mente il paragone con i poliziotti che fanno vita di scrivania nei commissariati e quelli che escono tutti i giorni sulle volanti. Si meravigliava, pur non essendo più di primo pelo, quanto lo emozionasse ancora partire con una troupe per inventarsi dal nulla un filmato. Anche lui non avrebbe cambiato il suo lavoro con nessun altro, dato che continuava ad apparirgli come il più bello in assoluto.

    A parte, come già detto, il pianista e il pilota.

    E, a questo proposito, l’amicizia con Filippo gli consentì di mettere in pratica due cose importanti. Anzitutto vedere da vicino come è fatto un pilota di aeroplani, per scoprire che non si trattava di quella specie di supereroe che Marcello si era sempre immaginato. Restava il fatto che Filippo come tutti i piloti (e i pianisti) intratteneva una dimestichezza con qualcosa che agli occhi di Marcello confinava con la stregoneria. Inoltre Filippo possedeva un piccolo aereo monomotore in società con altri piloti, e una sera propose a Marcello di raggiungerlo l’indomani mattina all’aeroporto dell’Urbe, sulla Salaria, per fare un giro insieme a lui.

    «Guarda Filippo, non mi sembra il caso, solo a pensarci...».

    «Ma piantala, dai. Hai detto che sei stato pure sull’elicottero, no?».

    «Sì, parecchie volte. Ero costretto a farlo, per lavoro, altrimenti...».

    «Molto bene, allora ti dico una cosa. Per quanto riguarda il volo, l’elicottero è il mezzo più pericoloso in assoluto. Anzi, a rigor di logica, non dovrebbe nemmeno stare in aria. È un po’come la storia del calabrone, la conosci?».

    «Sì, il calabrone ha un corpo tozzo, pesante e sproporzionato alle sue piccole ali, e secondo i trattati di fisica non può volare. Però lui questi trattati non li ha letti, se ne frega e vola lo stesso».

    «Bravissimo. Un piccolo aereo, invece, somiglia a un foglio di carta. Se lo lasci cadere dall’alto è come se galleggiasse per aria, non ti sembra?».

    «Beh, insomma... galleggia, dici?».

    Quella notte Marcello non chiuse occhio. Poi, senza nemmeno aver capito bene perché, la mattina dopo stava seduto a destra di Filippo a bordo di un Cessna 172, mentre il Tevere scorreva sotto di loro nella campagna romana.

    «Allora, che ne dici?».

    Marcello non lo aveva nemmeno sentito, un po’ per il rumore del motore, e un po’ perché nel giro di cinque minuti il suo comportamento era passato da quello di un gatto che punta le zampe per non farsi rinchiudere nella gabbietta a qualcosa di molto vicino al piacere puro. Soltanto gli imbecilli non cambiano mai idea, d’accordo, però si sentiva come se lo avessero colpito a tradimento: come è possibile che sia così bello volare, pensava, proprio io che ogni volta che il taxi mi lascia a Fiumicino divento più nervoso di uno che sta per essere torturato? Eppure...

    «Filippo, accidenti a te, è stupendo!».

    «Lo so» gli rispose sorridendo, mentre virava sopra il paese di Monterotondo, così basso da poter contare una per una le persone giù in strada.

    E tutto intorno, a perdita d’occhio, una distesa di verde intenso veniva esaltata dalla giornata limpida e luminosa, con le macchie più scure dei boschi qua e là, i riflessi del sole sul Tevere che accompagnavano il volo, mentre all’estremo limite dell’orizzonte davanti a loro i monti della Tolfa tratteggiavano una striscia di azzurro evanescente.

    «Stiamo volando a 1.500 piedi, cioè 500 metri, e dobbiamo rispettare questa quota perché qui stiamo proprio in mezzo all’avvicinamento finale di Ciampino».

    Filippo gli indicò un 737 che procedeva in senso opposto, poche centinaia di metri più in alto e con il nome della compagnia perfettamente leggibile. Poco dopo, sorvolando il lago di Bracciano, Marcello continuava a stupirsi di non avere nessuna paura. Pensò che questo dipendesse anche dal fatto che Filippo, essendo suo amico, non aveva alcun motivo per ucciderlo, dopodiché si rilassò per godersi il volo come poche altre cose che gli erano capitate. Le migliaia di ore che aveva trascorso seduto sugli aerei di linea, sorseggiando caffè buoni soltanto per combattere la stitichezza o tentando di leggere un libro, adesso non avevano più senso. Quella lì era un’altra cosa, la stessa differenza tra il percorrere un tratto di strada a bordo di una macchina veloce oppure in sella a una bicicletta, con il paesaggio che cambia poco alla volta.

    «Eccolo là, il gobbo» gli comunicò Filippo, mentre si avvicinavano a quella specie di cammello solitario abbandonato in mezzo alla campagna romana, da tutti conosciuto come monte Soratte. «Ci giriamo intorno come una boa e poi rientriamo».

    Marcello non solo trovò normale la virata strettissima a coltello poche decine di metri sopra il vecchio convento sulla cima del Soratte, con successivo sorvolo a bassa quota di Sant’Oreste, ma da quel giorno divenne un assiduo frequentatore del piccolo Cessna 172. Quando Filippo era libero dai turni sul Canadair conosceva un solo modo per riposarsi, cioè continuare a volare, e così ogni volta che anche Marcello aveva qualche ora libera, se il meteo lo consentiva, decollavano dall’Urbe per Rieti, l’isola d’Elba, Sabaudia, Terni. Luoghi non sempre favolosi, ma che lo diventavano durante il volo per raggiungerli. Non appena guadagnata la quota di sicurezza Filippo gli cedeva i comandi, e Marcello, sorpreso dalla docilità con la quale l’aereo gli obbediva, provava un senso di onnipotenza, di controllo assoluto dello spazio e del tempo. Una sensazione simile l’aveva provata solo durante i trekking in montagna o bordeggiando con una piccola barca a vela, quando si diventa un tutt’uno con l’elemento in cui ci si muove. Ben altra cosa da un volo di linea, che lo faceva sentire come uno che sta in ascensore e che, presumibilmente, dovrebbe arrivare al piano corrispondente al pulsante premuto, ma senza rendersene conto e senza metterci niente di suo.

    Marcello sapeva che pilotare un aereo contempla ben altro di quanto Filippo gli lasciava fare, e le difficoltà del decollo, dell’atterraggio e del volo strumentale per lui restavano parenti strette dell’esecuzione di un brano al pianoforte, con le mani che vanno ognuna per conto proprio. E a proposito di atterraggi, nel suo pedigree di passeggero poteva annoverarne uno che persino i suoi colleghi più duri e puri gli invidiavano, quando nel febbraio del 1991, in piena Guerra del Golfo, mise piede su una portaerei americana scendendo da un bimotore Grumman adibito al trasporto della posta e di materiali vari, compresi i giornalisti. Dall’alto, più che impossibile, gli sembrava che i piloti stessero scherzando se davvero volevano atterrare su un francobollo che, nell’immensità del mare, a stento si vedeva. E invece due ragazzi che non facevano cinquanta anni in due posarono regolarmente svariate tonnellate di aeroplano sul ponte di volo come se avessero parcheggiato una Panda in garage, con l’unico inconveniente per Marcello di sentirsi arrivare il duodeno in bocca dopo l’aggancio del cavo di arresto.

    Ma intanto, mentre le divagazioni circa il suo passato di mancato pianista e di mancato pilota avevano traslocato la sua mente da tutt’altra parte, ci pensò il suono di un sms in arrivo a riposizionarlo esattamente dove si trovava, nella piazzetta interna del Policlinico Umberto I. Un altro messaggio di Margarita.

    «Ma insomma che vuole? Non la sento da trent’anni e adesso mi manda due messaggi nel giro di un quarto d’ora...» mugugnò Marcello dentro di sé, che di tutto aveva bisogno quella mattina meno che di agitarsi. E infatti. non si agitò.

    Lesse il messaggio, che conteneva un indirizzo e-mail e il rinnovato invito a contattarla. Margarita Holgado... una bella ragazza in minigonna che ballava la salsa in un locale o a casa di qualcuno quando il calendario navigava intorno alla metà degli anni ’70. Cose accadute un secolo fa. Chissà che aspetto aveva oggi quella fanciulla venezuelana che tra la folla di corteggiatori annoverava anche Marcello, con il quale ci furono alcuni incontri molto ravvicinati.

    «E poi che è successo? Mi ha piantato, mi sembra. E adesso sarà diventata nonna, del resto un nipote lo posseggo persino io» pensava, riflettendo sulla smania di sentirsi chiamare nonna da parte di molte sue coetanee. Una pessima abitudine, che poi alla nascita del mostriciattolo si concretizza nell’assunzione del ruolo di nonna-sitter, rincoglionendole fino alla nausea di un entusiasmo isterico che le porta a sfornare orrendi dolci copiati frettolosamente dai programmi televisivi. Forse non erano proprio questi i famosi dolci della nonna, ma così stavano le cose, sorrideva Marcello. Si sentiva indeciso se chiamarla subito, non tanto per scoprire se avrebbe risposto una nonna, quanto piuttosto per sapere se era successo qualcosa a Miguel. Da molto tempo non sentiva il suo amico, ma con Miguel questi silenzi capitavano spesso, era una cosa abbastanza normale tra loro.

    Adesso però doveva andare. Salì ancora una volta le scale di Radiologia e si ritrovò a camminare nel solito corridoio del primo piano, sovraffollato di medici e infermieri che viaggiano veloci e di alcune decine di esseri umani accomunati dall’impossibilità di fare programmi da lì a un anno.

    Vite sospese. In attesa di.

    Marcello era stato uno di loro. Per lungo tempo aveva dovuto contemplare il mondo con lo stesso sguardo di quelle persone, con le quali si sentiva un fratello, soltanto più fortunato. E provava un rispetto immenso, perché anche se si sentiva benissimo e gli ultimi esami sembravano buoni, sapeva che la sorpresa stava sempre lì, pronta a saltar fuori in uno dei prossimi controlli trimestrali.

    Il che significa che avrebbe dovuto ricominciare tutto daccapo...

    Capitolo II

    Ma da quando in qua i flipper fanno bip-bip? Eppure, mentre la pallina di acciaio veniva sballottata senza pace in mezzo all’arcipelago dei pilastrini luminosi e il punteggio aumentava vertiginosamente, il suono che ne scaturiva era proprio quello, bip-bip-bip, non potevano esserci dubbi. Strano, anche perché Marcello aveva la certezza di trovarsi a tu per tu con un vero flipper, di quelli elettromeccanici di una volta, e non con una replica qualunque installata nella memoria di un computer. Di tanto in tanto la pallina impazzita sbatteva persino sul vetro sovrastante, con un rumore secco. A giudicare dal punteggio stratosferico mai raggiunto prima, stavolta le cinquanta lire della partita rappresentavano uno dei suoi migliori investimenti dal giorno in cui aveva cominciato a sfidare quella macchina infernale.

    ... bip-bip-bip-bip...

    No, c’era sicuramente qualcosa che non andava, ma intanto l’ultima delle cinque palline a disposizione era scomparsa nelle viscere del flipper. Poco male, aveva polverizzato il suo record personale e adesso poteva concedersi un’altra partita, un meritato giro d’onore. Marcello si portò la mano sul petto per prendere una moneta da cinquanta lire dal taschino della camicia, ma si accorse che non indossava nessuna camicia, e che le sue dita non stavano sfiorando delle monetine, ma qualcos’altro.

    ... bip-bip-bip-bip-bip...

    Il groviglio di fili che si dipartiva dal suo torace come una parete di edera rampicante lo richiamò alla realtà. Quando riuscì a mettere a fuoco lo sguardo sul monitor alla sinistra del letto, vide che qualcosa stava lampeggiando, in perfetta sincronia con quei suoni. Numeri, non erano altro che dei numeri... 158... 170... 181... 173, e nello stesso istante in cui fu in grado di associarli ai battiti del suo cuore, Marcello riconobbe la voce dell’infermiera del turno di notte.

    «Non è niente, stai tranquillo. Solo un po’ di tachicardia, ma sta già passando».

    ...bip-bip-bip-bip...

    «Un brutto sogno, probabilmente» aggiunse la donna, mentre spegneva gli allarmi del monitor.

    ... 150... 130... 97...

    «Al contrario» le sorrise Marcello, vedendo che i numeri assumevano valori più rassicuranti «Stavo vincendo e andavo fortissimo».

    «Come dici?».

    «No, niente. Hai avvertito il medico di guardia?».

    «Non mi sembra necessario, vedo che anche la pressione va bene, però se ti senti più sicuro lo faccio chiamare».

    «Lascia stare, è passata. Grazie».

    Mentre la donna si

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1