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La congiura del silenzio - Lettere di Michele Rinaldi e dei suoi corrispondenti (1960-1985)
La congiura del silenzio - Lettere di Michele Rinaldi e dei suoi corrispondenti (1960-1985)
La congiura del silenzio - Lettere di Michele Rinaldi e dei suoi corrispondenti (1960-1985)
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La congiura del silenzio - Lettere di Michele Rinaldi e dei suoi corrispondenti (1960-1985)

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…e nel 1960, Michele Rinaldi, medico ormai affermato e docente universitario, ricominciò a scrivere di poesia e letteratura con la stessa passione e lo stesso entusiasmo degli anni giovanili in cui aveva frequentato la casa di Benedetto Croce. La sua intensa militanza intellettuale – che si pose in netta controtendenza rispetto allo sperimentalismo ad oltranza, al plurilinguismo ed alla contestazione ideologica, tipici di altre esperienze come la “Neoavanguardia” o il “Gruppo 63” – fu accompagnata da una vasta rete di scambi epistolari, che costituiscono una testimonianza non marginale per ricostruire la storia culturale italiana del secondo dopoguerra. Il movimento letterario del Rinaldi e dei tanti suoi sodali, tra cui Alfredo Galletti, Carlo Saggio, Francesco Perri, Lionello Fiumi, Salvator Gotta, Ettore Cozzani, Dino Provenzal, Alessandro Cutolo, Pitigrilli, Giuseppe Morabito, fu di fatto contrastato in piccola parte con gli strumenti della critica e del tutto soffocato mediante la totale restrizione delle opportunità di accedere ad un più vasto pubblico. E tutti parlarono di una “congiura del silenzio”.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 7, 2016
ISBN9788892639799
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    La congiura del silenzio - Lettere di Michele Rinaldi e dei suoi corrispondenti (1960-1985) - Bruno Rinaldi

    Claudia

    Premessa

    "Mio carissimo ed amatissimo Bruno,

    Grazie: perché durante tutta la vita vissuta in comune non mi hai dato mai dolore.

    Grazie: perché quando da qui a dieci, quindici anni, libero dal peso enorme della tua professione, prenderai fra le mani i miei scritti, li studierai e cercherai di farli conoscere. I figli della mente sono cari quasi quanto quelli dell’amore. Ti abbraccia con immenso affetto per sempre papà"

    Questa lettera, rinvenuta tra le disposizioni testamentarie di mio Padre, se da un lato mi riempie ancora oggi il cuore di un profondo sentimento di amore e riconoscenza, dall’altro chiarisce il motivo per cui una persona come me, che ha avuto nella vita tutt’altra attività professionale, alle soglie della vecchiaia, si è impegnata a pubblicare questo libro, che avrebbe dovuto presupporre una vasta ed articolata conoscenza della letteratura italiana.

    Chiedo, pertanto, scusa subito agli studiosi della materia che avranno vaghezza di leggere queste pagine che, comunque, a prescindere dalle mie annotazioni, costituiscono una importante testimonianza per ricostruire la storia culturale italiana del secondo dopoguerra.

    Ma aldilà della spinta sentimentale, questo libro vuole rendere onore ad un Uomo – Michele Rinaldi – che ha improntato tutta la sua vita ai valori dell’onestà, della verità, della coerenza e dell’amore, valori che ritengo di avere pienamente assorbito.

    Ho riordinato e catalogato oltre cinquemila documenti che sono a disposizione di chi avesse interesse alla consultazione. Le richieste potranno essere inoltrate all’indirizzo mail: fondoletterariorinaldi@gmail.com.

    Se avrò forza fisica e capacità cercherò di aprire una pagina web su cui trascrivere via via molte altre lettere e parte dei numerosi testi letterari di mio Padre.

    Bruno Rinaldi

    Presentazione

    All'inizio del 1964, con il brio e la grazia propri di tante sue indimenticabili narrazioni, l'autore di molte delle lettere qui raccolte ricordava così il suo ultimo incontro con Giuseppe Marotta:

    una domenica, e fu l'ultima, venne più tardi. Potevano essere le undici. Era preoccupatissimo. «Professo' − mi disse entrando − ho un tumore»; sorrisi e gli risposi: «non ne avete la faccia!»; si trattava di un foruncoletto incistato [...] (M. Rinaldi, La crisi della poesia e della critica italiana del Novecento e altri saggi, Napoli, Ed. Anima-Pensiero, 1969, p. 296).

    È una pagina che, a distanza di tanti anni, non ha perso la sua freschezza, e che restituisce un ritratto assai vivo di quello che, per me, è stato mio nonno: una persona schietta, diretta e arguta, e soprattutto dotata di una grande umanità. Di pagine come questa, nelle lettere che seguono, se ne trovano parecchie: notevoli, in particolare, la descrizione dell'incontro con Riccardo Ricciardi (/315/), lo scambio di biglietti polemici con Prezzolini (/299bis/), i timori senili di Marino Moretti (/189-91/), l'insospettabile plauso di un Govoni (/19-20/) ... e di tanti altri, che negli anni hanno visitato il grande studio e le terrazze di via Port'Alba 30.

    Sullo sfondo sta, naturalmente, quel movimento letterario che, dalla seconda metà degli anni Sessanta, con la rivista «Anima-Pensiero», mio nonno venne pugnacemente (e coraggiosamente) animando, con l'intento di «rivendicare quanto di più alto e nobile la poesia italiana ha prodotto in sette secoli di letteratura» (in Anima-Pensiero, Anno I – N.1, Gennaio 1965).. . Come si vedrà, l'orientamento della rivista si poneva in netta controtendenza rispetto allo sperimentalismo ad oltranza, al plurilinguismo ed alla contestazione ideologica tipici di altre esperienze intellettuali − come la 'Neoavanguardia' o il 'Gruppo 63' − che, in quegli stessi anni prendevano le distanze dalla produzione letteraria del secondo Dopoguerra. «Anima-Pensiero» ebbe durata quasi ventennale, uscendo con cadenza bimestrale dal 1965 al 1983; oltre ad un considerevole numero di saggi, note e discussioni, essa ospitò regolarmente la pubblicazione di un gran numero di liriche e di prose narrative.

    Non è questa la sede per tentare un bilancio di tale complessa vicenda intellettuale: l'Introduzione (e la puntuale annotazione) che accompagna questo volume costituisce già un prezioso viatico. Quello che mi preme sottolineare, però, è che la tensione che anima questo movimento, almeno nelle sue istanze più pure − di stampo fondamentalmente classicistico − non può essere liquidata come espressione di una sostanziale estraneità alle poetiche del secondo Novecento o, peggio, come una forma di provocazione nata dal gusto − anch'esso un po' retró − di andare controcorrente. In alcuni di questi intellettuali, infatti, c'è una sorta di consapevole rifiuto della 'fine del mandato', della marginalizzazione della parola poetica e della conseguente minaccia del silenzio che insidia tanta produzione (non solo ermetica) di quegli anni. Di qui, per contrasto, deriva il rapporto vitale che essi istituiscono con la tradizione (e con le sue molteplici fratture) nonché la fondamentale esigenza di chiarezza, e di onestà intellettuale, che essi rivendicano per la parola poetica. Assai indicativa, da questo punto di vista, mi pare una lettera di Giuseppe Morabito, insigne latinista, che è anch'egli uno dei protagonisti di questo carteggio: «voglio vedere chiaro quando leggo − scriveva il 7 giugno del 1966 − [...]. Ho letto quel che ha scritto di Ungaretti e Quasimodo; sono perfettamente del suo parere. Quel che pensavo e penso di questi luminari l'ho espresso chiaramente, ma in latino. [...] Del resto io insegno latino e greco, son quaranta anni che scrivo, in versi, solo in latino e tutta questa roba la detesto» (/183/).

    Oggi scelte di questo tipo potranno forse apparire 'di retroguardia', inattuali o addirittura inadeguate rispetto alla crisi aperta dalla Modernità; e invece è proprio nel rapporto con il passato che affonda la passione e la militanza intellettuale di questi scrittori. C'è stato un tempo, infatti, in cui era questa la strada maestra battuta dal classicismo europeo «e questo terreno, un tempo zona privilegiata in cui si rifletteva e misurava l'orgoglio di una nazione, è ora terra nullius» (V. Fera, La formazione di Morabito, in V. Fera-E. Morabito, Esiliato nell'inumano Novecento. Testimonianze per Giuseppe Morabito, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, 2000, pp. 7-25 a p. 7).

    Michele Rinaldi jr

    Introduzione

    Michele Rinaldi ed il suo movimento letterario

    Medico, libero docente di patologia speciale medica e metodologia clinica presso l’Università di Napoli, autore di vari trattati¹ di medicina, Michele Rinaldi dedicò gran parte della sua vita alla letteratura ed in particolare alla critica ed alla poesia.

    Nato il 23 marzo 1906 a Rutino nel Cilento², dalla nobildonna Michela de Augustinis e da Ernesto, possidente, sin dalla giovane età - funestata dall’improvviso tracollo finanziario della famiglia - si era immerso nelle letture foscoliane, dantesche e leopardiane per approdare, poi, alla critica del De Sanctis. Trasferitosi a Napoli quando aveva appena compiuto tredici anni, iniziò la sua vita di lavoro e di studio.

    Così, nel 1927, da studente dell’ultimo anno di liceo, decise di inviare a Benedetto Croce due saggi, uno su I sepolcri e l’altro sul Leopardi, accompagnati da questa lettera:

    Ill.mo Signore,

    la temerità, è pur vero, è dei pazzi e degli insensati. Ma come tutto in natura è relativo, credo bene di non considerare questa massima come assoluta, bensì corredarla di certe eccezioni. Dico: non è temerità, nemmeno audacia, la mia; è invece una confortante fiducia che ho in Lei, fiducia che mi viene dallo studio continuo dei Suoi Scritti. Confesso: il mio primo maestro fu il De Sanctis. La continuità di una immortale potenza di vita che regna in tutto il pensiero di questo Sommo, mi rapì fino al punto da farmi credere un giorno che il De Sanctis fosse vivo. Continuatore della sua opera seppi essere il Croce: allora giù con i suoi scritti a schematizzare, a imparare a memoria, ad appuntare tutte quelle nozioni di estetica che più mi sembravano degne di rilievo. Sorse così quel profondo amore, misto ad una nobile venerazione, che nascono nel cuore di chi ben comprende la grandezza ed il pensiero di un Sommo. Ed ho avuto così l’ardimento di scriverLe e di presentarLe questo mio lavoretto che vorrebbe avere la pretesa di ispirarsi allo stesso metodo di critica creato dal De Sanctis. Creda pure: la vita solitaria di uno studioso conduce spesso ad una spiacevole antitesi. Dopo che ho letto Dante, mi sento insoddisfatto, ché, o vorrei trovarmi nell’Inferno fra i tormenti dei dannati, oppure accanto al poeta divino per venerarlo ed onorarlo. Niente di tutto ciò all’infuori di libri, silenzio continuo e pareti che mi guardano sempre allo stesso modo. Mi perdoni, o Signore: giorni fa ebbi la grande ventura di incontrarLa in una libreria di via Mezzocannone: il cuore mi si strinse, La guardai a lungo, ma non seppi fare altro. Pensai: se ci fosse il De Sanctis? Avrei fatto lo stesso. Ed allora addio castelli e palagi incantati nella mia fantasia bambina. Non voglio più infastidirLa; sarei veramente felice se volesse leggere il lavoro che Le accludo. La sua parola demolirà il silenzio che orribilmente grava sul mio animo. E sono pur giovane. Mi conforta il pensiero che anche la nostra Patria è sonnolenta. Voglia ritenermi con umiltà suo devotissimo servitore Michele Rinaldi

    L’attesa fu brevissima. Il grande filosofo rispose subito con questo laconico biglietto:

    Preg.mo Signore,

    ho letto volentieri il suo scritto che è sulla buona via del discernimento critico. Certo, la forma è alquanto da componimento di scuola; ma ella è giovane. Mi abbia con saluti suo

    Benedetto Croce

    Questa risposta produsse nel giovane Rinaldi impressioni contrastanti; una grande felicità per il fatto di essere sulla buona strada del discernimento critico, ed un vero disappunto ed amarezza per il riferimento al componimento di scuola. Comunque così rispose, non senza qualche superflua adulazione:

    Ill.mo Signore,

    quando sulla cima ventosa dell’Horeb un pruno ardente annunziava la presenza del Dio d’Israele, il Cantore di Jetro si domandava: Mi son io uno che star possa alla presenza del mio Signore?.

    Così, confusamente, io dico a me stesso quando leggo le Sue alte quanto per me lusinghiere parole. E frugo tutta quanta la mia anima, la scuoto, la interrogo, per rassicurarmi se può dilatarsi fino ad abbracciare quei mondi illimitati che sovrastano il pensiero di un Bruno o di un Vico.

    Certo, nei miei venti anni, sento di possedere un’anima piuttosto matura ed un carattere (ciò che mi rende orgoglioso) niente affatto incline per ciò che vuol essere nobiltà e grandezza di animo laddove non è se non bassezza e sorda sagacia.

    Ogni secolo ha visto qualche cosa di nuovo e son nate delle correnti che, bene o male, hanno caratterizzato quel che comunemente va col nome di periodo. Questo nostro secolo è pieno di novità ma, cosa strana, v’è una sola corrente, non certo desiderata, bensì imposta. Certo quelle mie parole sono la continuazione del lungo dialogo che io vo tenendo con Lei attraverso lo studio dei Suoi scritti. Voglia scusarmi ancora e mi consideri, con infinito rispetto, il suo devotissimo servitore

    Michele Rinaldi

    All’esito positivo dell’esame di stato, libero da ogni fardello scolastico, ma gravato dalle necessità stringenti della sua famiglia di cui, senza saperlo, era divenuto il capo ed il responsabile, scrisse all’illustre critico questa lunga lettera:

    Ill.mo Signore,

    questo plico e questa lettera non so quali cose Le faranno pensare: è giovane, è tutto idealità, vagheggia cose irraggiungibili, lontane? E’ ambizioso, superbo, infervorato fino alla temerità? Nulla di tutto questo. La guazza dei campi scintillanti al sole di primavera riempie l’animo di chi la mira di un gaudio insolito quanto delicato; ma chi spinge lo sguardo sotto l’umido terreno e vi scorge il misero vermiciattolo accattare, strisciando, gli umori della terra, sente che una profonda tristezza prende il posto di quella gioia ed avverte nuova e spaventosa la conclusione di questa nostra esistenza.

    Ebbene, io sono giovane, tal che la mia età ben può paragonarsi alla guazza fredda e lucente, ma, Signore, sotto v’è ben altra cosa, v’è quel che mi propongo di rivelarle.

    Comincio con una sentenza del De Sanctis che ho fitta in mente fin dall’età di quindici anni:l’uomo sano e forte non si propone mai un al di là irraggiungibile, una certa idea, un non so che, una qualche cosa, un obiettivo indistinto e confuso, decorato col nome d’ideale. Egli ha in vista uno scopo chiaro, ben circoscritto, quello che si sente la forza di ottenere.

    Questo ho sentito sempre e se ora Lei rivede i miei scritti, saprà in seguito quale ne è la ragione, punto ricercata nei coloriti miraggi della giovinezza, bensì nella realtà, e, forse, per quel che Le dirò, in una ben crudele realtà. Orbene non voglio infastidirla più di quello che m’è necessario; in breve Le farò due dichiarazioni: la prima è che io sento, intimamente sento, di portare la mia pietra all’edificio; la seconda è che ho assoluto bisogno di lavorare, non per studiare ( chè per tanto sarei felice), ma per vivere. La mia famiglia è composta da genitori deboli e vecchi e di due fratelli più piccoli di me e disoccupati. Io soltanto concorro alle esigenze della vita e, conseguita la licenza liceale, mi impiegai nella Società dell’Acquedotto di Napoli in qualità di disegnatore con lo stipendio medio mensile di lire 700. Ho detto medi perché mi viene dato saltuariamente sotto forma di compenso. Col primo denaro feci in tempo ad iscrivermi all’università e scelsi medicina per consiglio del mio carissimo professore di liceo, Pasquale Leonetti, il quale, ad ogni mio lavoretto letterario, mentre non mi ha taciuto lodi, non si è mai stancato di ripetermi la frase latina carmina non dant panem. Mio Padre insistè ed io volli accontentare la canizie. Rimasi avvolto, quasi senza accorgermene, in questa nuova vita e le lettere continuarono a rapirmi ed a sottrarmi quei ritagli di tempo che mi rimangono dopo le ore di ufficio, le faccende domestiche e lo studio della medicina.

    Non ho fatto mai cenno ad altri di questo mio ardente trasporto perché, col parlarne, mi è sembrato di guastare questa luce purissima che rischiara i penetrali del mio animo e tutte le volte che ho presentato o fatto leggere qualche mio lavoro al Prof. Leonetti, ho provato una certa ansia prima, poi, noia, scontento e non ho potuto leggere né scrivere per vari giorni. L’insieme dei sentimenti che mi hanno indotto ad aprirmi a Lei è lungo e complesso. Vi sono anime che non possono accontentarsi di certi modi di vivere assolutamente estranei al loro modo di sentire e, crudele antitesi, tanto più vi sono spinte dal volere ineluttabile del fato. Con sette ore di ufficio, in mezzo a gente che di tutto s’intende fuorchè di bello e di arte, con la preoccupazione del mio avvenire e di quello della mia famiglia, le attività del mio spirito rimangono per nulla spoltrite, sì che mi riduco a studiare di notte. Ma la vasta mole della conoscenza, il desiderio che spinge il mio pensiero a far dire qualcosa di questo e di quello e le continue strette a cui il mio cuore va incontro per non so quali ricordi, quali entusiasmi, quali speranze, mi hanno mostrato quel che è e quel che sarà la mia situazione: dolore, disinganno, tristezza. Tutto questo mi ha spinto ad una decisione: alla presente ho accompagnato alcuni miei lavori di critica e di poesia. Quando li ho scritti, non so, chè il tempo ed il mio stato d’animo non mi hanno mai permesso di scrivere una pagina tutta di un fiato o un componimento tutto una volta.

    Questa lettera è stata scritta in più riprese e Lei stesso lo noterà dal modo con cui sono variati i sentimenti da un giorno all’altro. Più su Le accennavo la mia decisione: vorrei che leggesse questi miei scritti; dopo, vorrei che mi dicesse schietto e con la coscienza dei grandi uomini come Lei, se debbo smorzare o debbo ravvivare questo fuoco e, se debbo ravvivarlo, Ella dovrebbe fornirmi parte dell’ossigeno.

    O signore, quando torno a casa e riapro i miei libri, un altro dolore mi attende: l’urto tra la vastità della materia ed il tempo brevissimo che ho a disposizione. A ciò bisogna aggiungere un po’ di indisciplinatezza del mio modo di studiare, chè, accade spesso: da Metastasio e Paolo Rolli giungo in breve tempo ad Ossian ed Omero. Ma ciò si verifica quando l’entusiasmo è in lotta col tempo che malefico si comporta con chi gode o è felice. Come vede, ho avuto ancora l’ardimento di scriverle e questa volta davvero credo non debba trattarsi di ardimento, ma di temerità, ma a Lei son dovuto ricorrere, a Lei che, col De Sanctis, ha dato al mio pensiero una nuova tempra ed al mio carattere una più spiccata robustezza e, quando penso a Luigi La Vista, tutto m’entusiasmo e m’infervoro ma una potente eslamazione di Virgilio mi rattrista, mi addolora sommamente: quantum mutatus ab illo! Signore, mi perdoni ancora, scrivendoLe ho creduto di far cosa buona; se non l’ho fatta mi punisca pure chè a me nobile ed alta mi giunge la Sua parola; ma mi creda pur sempre suo umilissimo servitore

    Michele Rinaldi

    Ci è sembrato opportuno trascrivere questa, per certi versi, strana missiva perché in essa si delinea quello che sarà l’uomo: appassionato, sincero, generoso, orgoglioso, testardo, ma soprattutto innamorato della buona critica e della buona poesia. E fu l’ultima lettera perché il Croce, con questo stringato biglietto, lo invitò a casa sua:

    Preg.mo Signore,

    ho ricevuto i suoi scritti e se Ella favorisse una sera da me (tra le venti e mezzo e le ventuno mi si trova quasi sempre) gliene dirò le mie impressioni. Mi creda cordialmente suo

    Benedetto Croce

    Il filosofo lo ricevette con affabilità ed in un’ampia sala, le cui pareti erano come imbottite di libri, gli disse che seguiva il Momigliano, che doveva continuare gli studi letterari, che le poesie ed i saggi erano una sicura promessa per un domani florido, che gli avrebbe fatto conoscere il suo editore e che poteva frequentare la sua casa. E così fu perché da allora si incontrarono più volte ed il giovane accompagnò il vecchio nelle lunghe passeggiate per le stradine del centro storico di Napoli. Racconta³ il Rinaldi: Era un tormento affiancare il caro ed illustre uomo perché camminava sempre spingendosi verso sinistra di modo che, quando si percorrevano vie strette, come San Biagio dei Librai o San Sebastiano, c’era pericolo di essere investiti da qualche carrozza o da qualche automobile. Aggiungerò pure che non mancava mai un agente della polizia fascista che ci scortava a cinquanta o cento metri di distanza. E poi, a dire il vero, la passeggiata diveniva spesso monotona perché il filosofo parlava poco ed era sempre assorto nei suoi pensieri. Ricordo una frase molto significativa. Nel lontano 1928 discorrevo con lui di politica e, naturalmente, di fascismo. Ad un certo punto mi interruppe con queste parole: ‘Caro Rinaldi il fascismo poggia sul vuoto ed avrà una fine ignominiosa’. Poi tacque e per un bel pezzo non disse più nulla. Quando attentarono Mussolini a Milano, i fascisti napoletani invasero la sua casa e la bellissima e ricca biblioteca corse il grave pericolo di essere incendiata. Io continuai a frequentare l’ambiente crociano anche quando mi accorsi che la polizia fascista mi teneva d’occhio. Il matrimonio e la nascita dei primi figli, i lunghi e tragici anni della guerra che colpì, con particolare crudeltà, la città di Napoli e, successivamente, la avvertita necessità di affermarsi nel campo clinico, anche attraverso la frequentazione delle aule universitarie, che videro un’assidua e plaudente partecipazione di studenti, non riuscirono a distrarre il Rinaldi dagli studi letterari, che si erano fermati al D’Annunzio. Mentre si era aggiornato con scrupolo sulle novità scientifiche, aveva, solo, notato, attraverso la lettura di qualche rivista letteraria e di alcuni cataloghi inviatigli dalle case editrici, l’esistenza di nomi e titoli di autori e di opere nuove che, però, non aveva considerato perché quei titoli gli erano sembrati astrusi, inattuali, diversi dal mondo culturale nel quale era vissuto. Insomma Pascoli e D’Annunzio, a quel tempo, erano stati per il Nostro, quello che oggi i moderni chiamano poeti d’avanguardia.

    Ma che cosa si era affermato in Italia dai primi del novecento agli anni ’60? In estrema sintesi: questo secolo si aprì con il Manifesto del futurismo, redatto da Filippo Tommaso Marinetti nel febbraio del 1909. Per comprenderne la portata e la direzione sono sufficienti le stesse parole del Marinetti: Io vi insegno ad odiare le biblioteche ed i musei per prepararvi ad odiare l’intelligenza. Contro ogni ordine, orchestrate le immagini secondo un maximo disordine. Facciamo il brutto in letteratura. Rifiuto, quindi, dei linguaggi tradizionali, esaltazione dell’intuizione, del gesto, dell’energia giovanile, dell’irrazionalità, del verso libero attraverso l’abolizione di ogni separazione tra poesia e prosa.

    Da questo seme scaturirà una nuova dimensione della poesia: i poeti abbandoneranno la tradizione classica e romantica ed il repertorio consueto delle immagini e dei temi culturali e storici, creando rapporti liberi tra le immagini stesse e nuove possibilità metriche e ritmiche. Le liriche rappresenteranno, in un linguaggio spesso oscuro e difficile, l’uomo nel suo viaggio solitario nella civiltà moderna ed il suo tentativo, difficile, di riconoscere se stesso e le cose.

    Il trionfo dell’idealismo hegeliano prima, del crociano poi, spianarono la via a quella che i critici chiamarono nuova sensibilità artistica che, nel campo della poesia, pose come base la malia del proprio io profondo, liberato da ogni fardello di cultura, per esprimerlo senza scelta e senza coordinazione così come affiorava dalla vita incosciente.

    Suono e sensazione costituirono, alla fine, il tema fondamentale intorno a cui si intrecciarono simbolismo, surrealismo, ermetismo, purismo ed altre avanguardie attraverso noti e meno noti esponenti quali Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale.

    Il 1960 fu l’anno di svolta per il Rinaldi. Medico ormai affermato, colmate le sue lacune sulle nuove avanguardie letterarie, aveva ricominciato a scrivere con la stessa passione e lo stesso entusiasmo giovanile. Proprio in quell’anno si era recato a visitare il dottor Aurelio Lanza, ottantenne, anch’egli medico e letterato, che gli aveva manifestato l’intenzione di dar vita ad una rivista. Espose le sue perplessità e preoccupazioni non avendo alcuna idea di come si potesse e dovesse portare avanti una rivista, ma il Lanza diradò subito le sue nubi ed in poco tempo buttò giù il primo numero, incaricandosi di tutto, perfino della spedizione dei fascicoli. La rivista, che si chiamò Iride, ebbe una vita breve perché dopo appena un anno il Lanza morì e, con lui, la sua creatura. Fu proprio a casa del Lanza che si incontrarono Rinaldi e lo scrittore napoletano Giuseppe Marotta; tra loro nacque una profonda amicizia, che il critico descrive in un articolo dal titolo Dalle baruffe letterarie alla sincera e fraterna amicizia con Giuseppe Marotta, pubblicato dopo la morte del Marotta stesso⁴.

    Sulla rivista Iride il nostro aveva fatto in tempo a pubblicare due saggi critici: La retorica di Ungaretti e Alessandro Manzoni visto da Alberto Moravia. E come aveva fatto all’età di diciotto anni con il Croce, decise di inviare copie della rivista ed estratti di altri due saggi Il polimorfismo della poesia del Quasimodo e La genesi dell’ermetismo e la poesia di Eugenio Montale ad alcuni studiosi per conoscere il loro pensiero su quello che andava scrivendo.

    Il primo a rispondere, plaudendo toto corde, fu Alfredo Galletti, che aveva tenuto la cattedra di letteratura italiana nell’Università di Bologna dopo Carducci e Pascoli; seguirono poi i giudizi ampiamente favorevoli di Lionello Fiumi, che con Luigi Fiorentino, Aldo Capasso, Riccardo Marchi e qualche altro avevano creato un movimento di rivolta denominato Realismo lirico per opporsi alla poesia pura ed al famigerato ermetismo, di Dino Provenzal, Giorgio Umani, Marco Ramperti, Corrado Govoni, Carlo Saggio, Francesco Perri, Salvator Gotta, Lucilla Antonelli, Claudio Cesare Secchi, Ettore Cozzani e tanti altri ancora.

    I molteplici consensi ricevuti, l’esperienza fatta dal punto di vista tipografico ed editoriale, e l’incrollabile volontà di continuare la lotta già iniziata contro quella che chiamava la degenerazione della poesia ed in generale dell’arte, spinsero il Rinaldi a fondare, dirigere e finanziare una rivista tutta sua: nacque così, nel 1965, Anima – Pensiero, che continuerà ad essere pubblicata sino a due anni prima della sua morte, avvenuta in Napoli il 17 aprile 1985.

    Per avere un’idea chiara del movimento creato dal Rinaldi ed i suoi principi ispiratori, ci sembra opportuno riportare l’editoriale pubblicato sul primo numero (gennaio/febbraio 1965) della Rivista:

    "Questa rivista nasce all'inizio del sessantacinquesimo anno del nostro secolo. Sessantaquattro anni di attesa estenuante, durante la .quale, tra l'imperversare di teorie poetiche, di discussioni estetiche, di grandi propositi contrastanti con tanta povertà di energia creativa, tra la ridda di istrioni e spacciatori di specifici letterari, invano è giunto il Poeta. Da quel «futurismo » che nei primi anni del secolo sorse col deprecabile motto di: «facciamo il brutto in letteratura» e che sovvertì non solo l'arte italiana, ma quella europea, si fecero strada numerosi movimenti che presero nomi diversi ma che tutti ebbero come precipuo fine «la mania di condurre la ragione poetica a quattro strofe sgangherate o a un ciuffetto di versi claudicanti e di pessimo gusto» (Galletti). La risultante comunque di tutte queste correnti doveva produrre quella che fu detta « rottura »: si doveva rompere col passato perchè solo così si sarebbe avuto il grande poeta. Secolo dunque rivoluzionario, il nostro; ma, ahimè, la rivoluzione non fu nè sentita né sincera e perciò, al contrario delle vere rivoluzioni che infallibilmente sfociano nel progresso, questa della letteratura invece è sfociata nel regresso, nel fallimento e nella cabala. Quelle tante e complesse teorie, quella spasmodica ansia volta alla ricerca di sempre nuovi ismi, non ha fatto altro che imbrigliare nelle sue maglie la purezza della poesia, togliendole due delle sue doti precipue: la libertà e la sincerità. E mentre da un canto il Croce, all'inizio del secolo, accusava la triade «Pascoli, Fogazzaro, D'Annunzio» di insincerità e di non poesia, dall'altro gittava in pasto ai voraci ricercatori di teorie, la sua Estetica come Scienza dell' Espressione, nella quale appariva la parola maliosa, unica, insostituibile dell'arte: l'intuizione. Secondo il Croce non esiste il genio, non si nasce poeta, musicista, pittore, scultore, ma questo attributo lo si dà a chi possiede la facoltà di avere un maggior numero di intuizioni. Altrove abbiamo discusso e confutato questa teoria, qui vogliamo soltanto ricordare che, secondo noi, prima di tutto, poeta o musicista o pittore o scultore, si nasce. Per noi il poeta, ed in generale l'artista, è dotato da madre natura di un'anima e di un cervello perfetti, come perfette sono le corde vocali di un cantante o i muscoli e le ossa di un atleta. Quest'anima e questo cervello entrano in azione allorchè vengono sollecitati da stimoli che noi identifichiamo nell'amore, nel dolore, nell'odio, nel piacere, ecc. Ma nel processo della creazione artistica l'anima non è tutto: in essa è riposta allo stato informe l'opera da creare, vale a dire l'oro grezzo. Da essa partono correnti e vie tutte rivolte al pensiero che interviene a sbozzare, plasmare, cesellare, rendere vive le immagini fino a ricreare l'Universo. E noi allora chiamiamo artista colui che può rappresentarci vivo il suo mondo, o, per dirla con un termine attuale, il suo contenuto, piccolo o grande che sia. E quest'anima ricca, densa, perfetta, fusa armonicamente con la superba funzione del pensiero, può considerarsi il dono più prezioso che il mistero della creazione ha fatto all'essere umano. Sì che l'artista, nei suoi momenti di grazia, è per noi una creatura perfettissima se non soprannaturale. Ed a questo punto la nostra concezione s'incontra con quella del Croce quando, in uno dei suoi ultimi libri teoretici, ha affermato che la poesia «è uno stato di grazia », è «il Verbo che si fa carne », è «un colloquio con Dio ». Ma, mentre egli vi arriva, come dice il Galletti, « trasportando la sua Estetica dalla sfera tempestosa del senso nel fermo cielo della conoscenza», noi invece vi arriviamo attraverso il binomio «anima-pensiero». Secondo noi, l'equivoco e la confusione dei moderni consiste nell’essersi fermati alla prima parte del binomio, nell'aver voluto porre cioè l'essenza della poesia nell'atto involontario ed insindacabile dell'anima (da essi chiamato io profondo o mistico). Manca la seconda parte: il pensiero e la fantasia la cui altissima funzione è quella di rielaborare tutto ciò che vi giunge dal mondo esterno e da quello interno per ricrearlo e riesprimerlo attraverso una seconda vita che è poi la vita immortale dell'arte. Il cantante che ha avuto da madre natura le corde vocali perfette potrà emettere soltanto acuti più o meno squillanti e di tonalità giusta, ma se non educa la sua voce attraverso la conoscenza della musica, attraverso lo studio del canto e delle opere musicali, in una parola, del mondo della musica, non potrà mai commuoversi, non potrà mai diventare un artista. Ma noi crediamo di essere da un certo punto di vista più rivoluzionari dei moderni quando affermiamo che qualunque teoria o trattato di estetica, da chiunque e comunque scritto, rappresenta uno sciupìo del pensiero. L'Estetica, al pari della Retorica, è postuma alla poesia e come tale è superflua se non inutile. Non vogliamo con questo sopprimere o addirittura condannare quel bisogno che viene dall'anima del filosofo o del poeta di domandarsi e anche cercare di spiegarsi che cosa è l'arte, che cosa è la poesia. Da Dante a Leopardi, da Platone a Croce, poeti e filosofi hanno sentito questo bisogno di collocare l'arte in un certo punto del loro spirito e del loro pensiero. Noi rispettiamo questo sentimento e diciamo a chiunque: se vi alletta, se veramente ne sentite il bisogno, dissertate sull'arte e sulla sua essenza, assegnatele un posto qualsiasi nella vita del pensiero, innalzatela o abbassatela come meglio vi aggrada rispetto alla nobile Filosofia, ma badate che fate cosa vana, ma badate che potete addirittura nuocere alla poesia quando della vostra estetica volete imporre al poeta quei canoni, quelle norme, quei modi, quegli orientamenti che sono soltanto frutto della vostra personale concezione, di un vostro personale modo di vedere o di impostare il problema dell'arte. E non crediamo di sbagliare se affermiamo che il caos nel quale si dibatte la poesia dei nostri giorni, è proprio conseguenza di quanto abbiamo sopra accennato. I poeti cioè, una volta formulata la loro teoria, frutto di spasmodiche ricerche, hanno creduto di poter entrare a bandiere spiegate nel giardino incantato della poesia: errore gravissimo che ha partorito l'aborto della così detta lirica del Novecento. Il miglior dono che si può fare ad un'opera d'arte è quello di saperla criticare sì che fra l'esteta più raffinato e completo ed il critico vero, non v'è da scegliere se non quest'ultimo in quanto, al posto di generalizzare, di enunciare leggi, di dettare norme, precetti, ecc., egli si avvicina all'opera d'arte, la interroga, ne pone in rilievo ciò che è vivo da ciò che è luogo comune, o, come dice il De Sanctis, scoria. Pur troppo la vera critica non è cosa facile perchè richiede tale profondità di penetrazione nel mondo dell'artista, tale sensibilità, gusto, cultura, profonda serietà morale, da elevare il critico fino alle pure ed alte vette della poesia. Guardando con animo sereno e con tranquilla obiettività questi sessantaquattro anni del nostro sfortunato secolo, vien fatto di domandarci quali sono le opere di poesia con le quali, un critico che possegga i requisiti poc'anzi accennati, possa cimentarsi. Ad eccezione di poche, vere, sincere voci di poeti viventi che il signore del nuovo secolo: «la folla », la tirannia degli editori interessati, la turba dei letterati di mestiere e dei trombettieri ufficiali ha relegati nel silenzio, ignorandoli, nulla si è creato. Da notare che Giovanni Bertacchi, Giorgio Cicogna, Vittorio Lochi, Vittoria Aganor Pompili, Amalia Guglielminetti, Ada Negri, Sergio Corazzini, Guido Gozzano ed altri, poeti la cui vena scorre limpida e sicura, ahimè, secondo i pontefici delle nuove estetiche, sono già un vecchiume, non appartengono al secolo delle ricerche e della meraviglia, sono fuori dagli incanti e dagli inganni di quella fata morgana che è la modernità.

    D'Annunzio poi è il bersaglio sul quale si appuntano tutti i dardi della moderna musa sdegnata. È di ieri una valutazione del Moravia secondo la quale il poeta di Alcione è un « mediocre» ed un «istrione». Sono del 1928 queste amare parole del Borgese: « Anche in Francia, nella generazione di oggi che scrive sulle riviste e sui giornali, dicono che molti non sanno risalire al di là di Rimbaud, parecchi si spingono fino a Baudelaire, alcuni a Hugo. È cosa rara una conoscenza che prima del Parnaso e del Rinascimento, non brancoli in una specie di preistoria ...Ma che dire dei francesizzanti nostri? A voler calcare un connotato caratteristico della letteratura italiana degli ultimi decenni, si potrebbe dire che la mia generazione e la seguente, in generale, non sono state a scuola, non hanno imparato il latino, o l'hanno dimenticato di buon'ora; e non hanno nemmeno appreso ad usare altri strumenti di cultura: l'inglese o il tedesco; e tirano avanti con quel po' di francese. È un'aspra valutazione, una verità rinforzata, ma non è controverità. Forse non è avvenuto mai come in questo secolo ventesimo che la nostra letteratura militante si riducesse via via ad una dieta tanto esclusiva, cioè alla letteratura francese da Baudelaire in qua». Oggi che si è raggiunto il fondo più limaccioso e lutulento della bassezza, della volgarità, dell'improntitudine, della pazzia e del pessimo gusto, ci domandiamo cosa scriverebbe il Borgese se fosse vivo.

    Questa rivista vuol rivendicare quanto di più alto e nobile la poesia italiana ha prodotto in sette secoli di letteratura; vuol rivendicare la morale sviata e perduta nei bassi fondi della oscenità e della corruzione. La lotta sarà dura ma un Popolo come il nostro è fortunatamente dotato di incredibili poteri di recupero perchè questa nostra Italia rimane sempre il centro del Cristianesimo e la patria di Dante. Noi proclamiamo solennemente da queste pagine che bisogna ricominciare da capo, bisogna dimenticare e bandire la funesta moda dell'improvvisazione, della superficialità, del brivido fugace, dell'estasi lirica e bisogna riportare l'arte sulla via tracciata dai nostri Maggiori. Dante scrisse:

    Se mai continga che 'l poema sacro

    Al quale ha posto mano e cielo e terra,

    Sì che m'ha fatto per più anni macro.

    Leopardi scrisse: « Se l'ispirazione non mi nasce da sè, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco secco che un solo verso dal mio cervello ». Sofferenza, travaglio, profonda cultura, spontaneità, sincerità, furono le doti di questi due Grandi ed a queste doti i poeti moderni e futuri, se ce ne sono o ce ne saranno, dovranno ispirarsi. Poesia è libertà e sincerità. Se il poeta vero ritrova sé stesso nel verso tradizionale e nella rima, benedetti siano il verso tradizionale e la rima; se ritrova sè stesso nel verso libero, benedetto sia il verso libero. Sono questioni di forma. Un elegante vestito non potrà mai cambiare il ladro che lo indossa in un uomo dabbene e viceversa. Il poeta ed in generale l'artista è uomo superiore e come tale sente imperioso il bisogno della libertà. Togliamogli perciò le briglie di ogni teoria estetizzante, distogliamolo dall'idea della ricerca, diciamogli col Croce: continua il tuo colloquio con Dio.

    La rivista ebbe durata quasi ventennale, uscendo con cadenza bimestrale dal 1965 al 1983; oltre ad un considerevole numero di saggi, essa ospitò regolarmente la pubblicazione di liriche e prose narrative. Nello stesso periodo il Rinaldi pubblicò anche numerosi libri.

    Il primo, nel 1969, fu La crisi della poesia e della critica italiana del Novecento ed altri saggi, cui seguirono, nell’anno successivo, il Saggio sul problema della conoscenza ed in particolare sulla teoria dell’intuizione crociana, La poesia di Guido Gozzano vista da Eugenio Montale e Michele Rinaldi, ed il romanzo autobiografico Ricordo di una vita, che vide un’edizione aggiornata nel 1978.

    Negli anni giovanili il Rinaldi aveva scritto un poema drammatico mitologico Fàhofi ed un dramma L’Abate Druent, che inviati in lettura a molti dei suoi amici letterati, suscitarono non solo consensi, ma reiterati inviti alla pubblicazione, che avvenne nel 1971 per il primo, e nel 1972 per il secondo.

    E’ del 1974 l’uscita del volume Saggi critici – Letteratura italiana nel XIX e XX secolo, in cui si possono leggere, tra gli altri, approfondimenti quali Giacomo Leopardi visto da Benedetto Croce, Alessandro Manzoni visto da Benedetto Croce, La conversione dell’Innominato, La parola, La dissacrazione e lo sperimentalismo, Di una probabile genesi dell’opera d’arte.

    Dopo due anni, e cioè nel 1976, diede alle stampe altri due volumi: Psicoanalisi ed arte e La poesia di Giacomo Leopardi. Nel primo il Rinaldi scrive nella presentazione: In questo libro ritengo di aver rotto, per usare il linguaggio del Papini, la ‘corteccia delle credenze utili e comode’ date in pasto alla massa dei dotti e degli indotti dall’abile, sagace concettualismo di Sigmund Freud e di aver portato alla luce del sole l’offesa che il neurologo viennese, ateo, ha fatto alla religione: una nevrosi ossessiva universale; alla purezza del bambino e del fanciullo: un cumulo di impulsi bestiali; all’amore puro: una sensualità sublimata; all’arte: patrimonio di drogati, alcolizzati e nevrotici.

    Nel secondo Italo de Feo scrisse la prefazione, in cui tra l’altro, afferma: Se la poesia leopardiana potesse essere raffigurata nelle sembianze di una donna intensamente amata, Michele Rinaldi potrebbe applicare a sé il bel distico di Jacopo Sannazzaro: Tu puero teneris ignis primis ab annis / ultima tu tremulo flamma futura seni: chè un amore di tal fatta accompagnerà sicuramente il Rinaldi sino alla più lontana vecchiezza. Il libro ha il pregio di illustrare, con un commento critico-estetico, le più belle poesie di Leopardi, seguendo una traccia che si può chiamare d’ispirazione crociana, piuttosto che storico-positivistica. L’illustrazione è puntuale e diligente e s’avvale anche di utili riferimenti a studi di altri critici.

    La lettura del libro sul Leopardi spinse il Prof. Claudio Cesare Secchi, Presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani, con sede in Milano, a richiedere al Rinaldi una analoga pubblicazione sul Manzoni, che avrebbe avuto l’imprimatur del Centro stesso. Così, dopo tre anni, nel 1979, fu dato alle stampe L’arte di Alessandro Manzoni ne ‘I promessi sposi’, nella cui prefazione del Prof. Secchi si legge: Forse oggi può sembrare giù di moda il parlare di questo grande scrittore, perché il sugo di tutta quanta la storia, come egli la definisce, è che ‘i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore’, oppure il precetto è che bisognerebbe badare a fare del bene e forse si finirebbe con lo star meglio. Precetti e insegnamenti che la civiltà moderna non vorrebbe ascoltare, tutta tesa verso la conquista dei beni terreni che non la consolano e non la soddisfano. Le danno l’illusione di una gioia raggiunta, di un potere acquisito, effimera gioia, in quanto tutto ciò che è terreno è fugace e dura poco. E forse chi vede soffrire come un medico che vive la sua vita presso il letto dei sofferenti e nelle visite ai malati, è il più adatto a cogliere queste parole di beni duraturi, questi insegnamenti per cui è bello ed è nobile spendere la propria esistenza. Rinaldi ha sentito l’effimero della letteratura moderna, lo scarso valore di una poesia che rifugge dalle antiche norme e dai tradizionali schemi, che canta il futile piacere o la breve gioia terrena. Ha studiato seriamente la genesi della poesia e dell’arte prima del Leopardi e poi del Manzoni. Un Manzoni che è uomo, che vive nel suo tempo in sofferenze che sono simili alle nostre, in contrasti che trovano eco nei nuovi contrasti e ci dà questo studio seriamente intenso, nobilmente scritto, moralmente impegnato. In un impegno che è impegno di vita, che è impegno di arte.

    Nel 1984, un anno prima di morire, il Rinaldi riuscì a pubblicare l’ultimo suo libro: La poesia italiana di Giovanni Pascoli, concludendo così il volume: Tutto quanto ho commentato ritengo, con estrema umiltà, sia la vera poesia di Giovanni Pascoli. Se mi sarà sfuggito uno o più componimenti non privi di arte vera, chiedo vive scuse all’erudito lettore, e gli prometto che sul Pascoli ritornerò se avrò ancora vita. Ma ce n’è, ce n’è poesia autentica in questo volume. Il quale vuol dimostrare in maniera eloquente e sincera che Giovanni Pascoli può ormai considerarsi tra i grandi poeti che onorano l’Italia.

    Nell’arco della sua vita Michele Rinaldi scrisse anche alcune poesie, che egli chiamò versi, perché i versi li scrive chiunque, la poesia, solo il Poeta. E sulla prima pagina del libro intitolato appunto Versi, si legge: Questo libro si dona soltanto, mentre nella nota autocritica conclude: Non so in qual modo questi miei versi saranno giudicati. Sono convinto però che, se avranno il potere di commuovere almeno un cuore solo, non avrò fatto cosa vana. Anche un attimo di dolcezza ha il suo valore nel mistero doloroso della vita.

    Come era prevedibile, questa intensa militanza intellettuale – che si pose in netta controtendenza rispetto allo sperimentalismo ad oltranza, al plurilinguismo ed alla contestazione ideologica - fu accompagnata da una vasta rete di scambi epistolari che sicuramente costituiscono una testimonianza non marginale per ricostruire la storia culturale italiana del secondo dopoguerra.

    Il dato per cui – a cavallo degli anni cinquanta/sessanta – questa area culturale fu di fatto marginalizzata, appare il prodotto di un’azione non casuale. All’indomani, infatti, del secondo conflitto mondiale il nuovo impianto democratico, fondato sulla costituzione antifascista, rappresentò la base ideologica idonea a favorire una consapevole strategia di egemonia culturale di ispirazione gramsciana, da parte delle forze politiche che avevano incarnato la resistenza. In particolare, il partito comunista – il più forte del mondo occidentale – pianificò la propria penetrazione negli apparati culturali, all’interno dei quali riuscì ad orientare una nuova generazione di intellettuali, in linea con l’idea dell’intellettuale organico.

    Questo approccio politico può spiegare le ragioni per le quali ogni espressione culturale non affine o refrattaria al progetto di egemonia, non necessariamente perché reazionaria, ma anche perché semplicemente laica o autenticamente liberale, fu di fatto contrastata con gli strumenti della critica in piccola parte, o più semplicemente soffocata mediante la totale restrizione delle opportunità di accedere ad un più vasto pubblico. Il Rinaldi e gli altri animatori del movimento hanno spesso scritto della congiura del silenzio.

    Questa lotta culturale vasta e capillare, che portò tra le stesse fila del partito comunista a importanti defezioni o epurazioni di intellettuali non allineati, produsse successivamente vittime collaterali tra quanti, come Rinaldi ed i suoi sodali, cercarono di mantenere la propria autonoma capacità di produzione intellettuale.

    Così il pensiero del Rinaldi nell’editoriale del primo numero del 1974, decimo anno di pubblicazione della rivista Anima-Pensiero: [….] Siamo noi veramente liberi? Riteniamo di no se pensiamo che alcuni grossi partiti politici condizionano le attività di tutta la Nazione e conseguentemente di ogni singolo cittadino. E poiché ci occupiamo di Letteratura, possiamo affermare che lo scrittore libero in Italia non esiste o, se esiste, è sottoposto alla congiura del silenzio. V’è una massoneria invisibile, potente e venale che ogni anno, attraverso robuste leve, si appropria delle vistose somme che Stato, Enti, Istituti pubblici e privati mettono a disposizione della cultura nella speranza che, finalmente, balzi il poeta o il grande scrittore o pensatore. E’ un sogno vano! Le centinaia di milioni sono subito preda di quella massoneria esoterica, retriva e fraudolenta la quale, attraverso le immutabili giurie, li elargisce ai suoi affiliati. Ed invero si osserva un fenomeno quanto mai sconcertante che ancora una volta vogliamo denunziare: il componente della giuria di un anno è quasi sempre il premiato dell’anno precedente e viceversa. E’ una vergogna che disonora la Nazione! [….]

    Senza entrare nel merito e soprattutto senza alcuna volontà di schierarsi, vogliamo soltanto far rilevare che in una società evoluta e profondamente democratica – come vorremmo fosse la nostra – andrebbero lasciate pari opportunità a tutte le idee – escluse quelle eversive – e gli stessi spazi di conoscenza in ogni campo: politico, culturale, scientifico e sociale.

    Solo in questo modo l’individuo, cittadino o popolo, avrebbe la possibilità – specie in tempi come quelli attuali ove il degrado morale, intellettuale e politico sembra aver raggiunto i più alti livelli – di scegliere e di assumere conseguentemente le decisioni in piena libertà e coscienza.

    ____________________________

    ¹  Sindromi e segni clinici, Napoli, V.Idelson, 1941, pp.782; Sindromi e segni clinici(seconda edizione), Milano, Vallardi, 1950, pp. 974; L’endocardite lenta, Napoli, Pironti, 1945, pp.195; La semeiologia dei capillari sanguigni, Napoli, Ed. Calia, 1958, pp.224.

    ²  Così il Rinaldi descrive il Cilento nel suo libro autobiografico Ricordo di una vita: Il mio Cilento odora di selve e di mare ed il connubio dei suoi profumi si consuma sui picchi rocciosi coperti da sterminati tappeti di ginestre, di mortelle, di lentischi, di ginepri, mentre, lontano, sulle alte cime, estese foreste di castagni custodiscono gl’inni delle Oreadi cullate dai soffi leggeri della brezza marina. E v’è, infine, la festa degli uliveti, che dalle colline, degradando al mare, mandano nell’aria infiniti riflessi d’argento.

    ³  Da Ricordo di una vita, cit.

    ⁴  In La crisi della poesia e della critica italiana del Novecento, Edizioni Anima – Pensiero, 1969, pagg.291-96.

    Michele Rinaldi ed i suoi corrispondenti

    Il carteggio (lettere, cartoline postali, cartoline illustrate, biglietti intestati, appunti, etc.) di Michele Rinaldi è costituito, ad oggi, da 5256 documenti, di cui ne sono di seguito pubblicati in ordine cronologico 500. Di questi, 121 sono minute redatte dallo scrittore, e 379 quelli a lui inviati dai corrispondenti, che sono elencati con la sola indicazione delle città da cui vengono spedite le lettere.

    Tutto il materiale epistolare è conservato presso gli eredi.

    Atteso l’elevato numero di scritti si è reso necessario scegliere le lettere più significative, ma molte, molte altre sarebbe stato utile ed interessante pubblicare.

    Un primo gruppo di lettere (1960 – 1964) riguarda la collaborazione alla Rivista Iride e l’invio a vari letterati, tra cui Alfredo Galletti, Aldo Capasso, Riccardo Marchi, Lionello Fiumi, Dino Provenzal, Giorgio Umani, Corrado Govoni, dei saggi critici Alessandro Manzoni visto da Alberto Moravia, La retorica di Ungaretti, Il polimorfismo della poesia del Quasimodo, La genesi dell’ermetismo e la poesia di Eugenio Montale.

    Un secondo e consistente gruppo di lettere è connesso alla nascita ed alla vita della sua Rivista Anima – Pensiero. Si tratta in genere di lettere di e a collaboratori del periodico, letterati, uomini politici, giornalisti, editori. Tra i corrispondenti più assidui e significativi, oltre quelli già citati, segnaliamo Lucilla Antonelli, Carlo Saggio, Gemma Biroli, Claudio Cesare Secchi, Gino Bonola, Carlo Ravasio, Claudio Allori, Ettore Cozzani.

    Un terzo gruppo di lettere concerne, di volta in volta, la pubblicazione dei volumi su Freud, Leopardi, Manzoni, Pascoli ed il libro autobiografico Ricordo di una vita.

    I criteri utilizzati nella trascrizione e nell’ordinamento delle lettere per la stampa sono quelli comunemente adottati per l’edizione di raccolte epistolari dell’Ottocento e del Novecento. In particolare:

    - si è cercato di conservare il più possibile la lezione originale del manoscritto, limitandosi a sciogliere abbreviazioni o sigle, ad apportare correzioni di errori ortografici o costruzioni sintattiche che avrebbero costituito ostacolo alla comprensione dei testi;

    - si sono eliminati, segnalando il taglio con punti tra parentesi quadre, riferimenti strettamente personali, spesso relativi a malattie dei corrispondenti, con richieste di consigli al Rinaldi, noto medico patologo;

    - si è ritenuto di non appesantire il volume con descrizioni troppo analitiche dei documenti;

    - si è giudicato, invece, opportuno inserire:

    a) note di inquadramento cronachistico e storico, necessarie per precisare episodi, vicende e questioni di carattere politico o culturale;

    b) note di tipo biografico e bibliografico, così come riportate da enciclopedie e trattati di storia della letteratura italiana;

    c) note di carattere esplicativo, concernenti espressioni dialettali, citazioni di difficile comprensione, di collegamento tra singole lettere o di raccordo tra gruppi di esse.

    Va, comunque, segnalato che, nonostante ogni sforzo, non sempre è stato possibile individuare persone o fatti ai quali si fa riferimento nelle lettere.

    E’ necessario, infine, evidenziare che la presente raccolta, seppure mutilata per necessità di stampa di numerosissime ed interessanti lettere, costituisce fonte primaria ed indispensabile ai fini della conoscenza storica della vita e dell’opera di Michele Rinaldi e del movimento letterario da lui creato.

    1. Rinaldi a Marco Ramperti, Napoli, 17 febbraio 1961

    2. Marco Ramperti a Rinaldi, Roma, 20 febbraio 1961

    3. Alfredo Galletti a Rinaldi, Milano 30 aprile 1961

    4. Rinaldi ad Alfredo Galletti, Napoli, 12 maggio 1961

    5. Alfredo Galletti a Rinaldi, Milano,13 dicembre 1961

    6. Saverio Broussard a Rinaldi, Locri,18 dicembre 1961

    7. Rinaldi a Saverio Broussard, Napoli,29 dicembre 1961

    8. Pasquale Maffeo a Rinaldi, Minturno, 2 gennaio 1962

    9. Rinaldi a Pasquale Maffeo, Napoli, gennaio 1962

    10. Claudio Allori a Rinaldi,

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