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Quale patriottismo economico?
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Quale patriottismo economico?

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Il patriottismo economico fa discutere. Con un decreto del 2014 il governo francese ha ufficializzato una linea di tendenza già da tempo viva Oltrealpe, cioè far valere innanzitutto gli interessi del Paese per quello che riguarda la sua economia nazionale, specie in settori strategici quali: difesa, energia, acqua, trasporti, telecomunicazioni e sanità. Contrariamente alla credenza popolare, il patriottismo economico però non va confuso con il semplice protezionismo. Esso ha lo scopo di promuovere la sinergia pubblico/privato a favore della competitività e dell'occupazione. Mira inoltre a promuovere le reti di lavoro e l'innovazione, come anche lo spirito dei poli di competitività. Il messaggio qui è semplice: costruire lo Stato quale attore strategico e partner per lo sviluppo e la sicurezza economica. E se il dibattito sull’argomento in Francia è quanto mai vivo, appare ancor più urgente aprirlo in Italia, dove dal 2008 sono state cedute in mano straniera ben 830 aziende fiore all’occhiello del nostro Made in Italy. In tal senso questo libro può assurgere come un buon punto di riflessione per la nostra classe dirigente.

LanguageItaliano
Release dateDec 7, 2016
ISBN9781370428441
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    Book preview

    Quale patriottismo economico? - Éric Delbecque

    Introduzione

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    Chi, oggi, in Francia, se la sente di assumersi il rischio di qualificarsi come patriota? Soltanto pochi uomini politici o scrittori si azzardano a farlo, guidati da intenzioni pedagogiche o dimostrative, tentano in tal modo di attirare l’attenzione dei media su problematiche da loro giudicate importanti o strategiche. Nella loro stragrande maggioranza tuttavia i dirigenti pubblici e privati, gli intellettuali e i giornalisti rinunciano ad assumere etichette che sembrano oramai essere state messe in mora dalla storia.

    Questa diagnosi ha ancor maggior valore in campo economico. Evocare un patriottismo economico provoca ironia e persino indignazione. Per i pensatori di Destra sembra una formula provocatoria e contraria alle proprie convinzioni liberiste; per i sinistrorsi poi la prima parte dell’espressione, quella che fa riferimento al concetto di Patria, evoca un sistema di valori per loro inaccettabile. Per spiegare meglio la nostra proposta, partiamo dai due presupposti ideologici che ne provocano il disinteresse. Il primo è che la globalizzazione renderebbe vana la preservazione di un interesse industriale economico, commerciale e finanziario nazionale. Alcuni marchi globali, senza nazionalità, ci si dice, non devono divenire strumenti o simboli che incitino lo Stato a perturbare il funzionamento naturale delle leggi di mercato. Il secondo è che il sostantivo patriottismo dissimulerebbe quello di nazionalismo, di cui tutti i cittadini ricordano le catastrofi provocate nel corso del XX secolo. Per taluni è la stessa parola Nazione a essere ormai dequalificata. Qualunque dei due punti di vista sopraccitati si assuma, il patriottismo economico verrà equiparato al protezionismo e i suoi sostenitori qualificati come affetti da nauseabondo sciovinismo, nostalgici di un collettivismo fuori moda e nemici assoluti del mercato, insensibili all’evoluzione storica e legati a forme di soggettività politica antiquate e superate (in particolare dall’Unione europea). Questi due argomenti suscitano da parte dei nostri contemporanei adesioni pregiudiziali, sentimentali più che razionali. Occorre dunque analizzarne la sostanza per verificarne l'effettiva razionalità. Bisogna anche chiedersi se l’espressione patriottismo economico sia pertinente e se le parole che la formano siano scelte bene. La scelta di questa espressione non limita la diffusione del messaggio di cui essa è portatrice? La forma usata non nuoce al contenuto? È possibile che una pratica attiva del patriottismo nazionale sia maggiormente producente della sua rivendicazione pubblica. Il patriottismo economico potrebbe essere una formula cattiva, che tuttavia esprime una politica sana, basata sulla preservazione dell’interesse nazionale, il quale ha bisogno di una strategia che ne assicuri uno sviluppo economico durevole.

    Il patriottismo economico non avrebbe nessun senso, né beneficerebbe di alcuna credibilità se lo si confondesse con una sorta di linea di Maginot tanto inefficace dal punto di vista tecnico, quanto politicamente assurda (basti ricordare in questa sede che la globalizzazione permetterebbe a migliaia di persone di uscire dalla propria condizione di povertà, nei paesi in via di sviluppo). Diviene invece un tema cruciale se lo si interpreta come bisogno politico di regolare gli effetti sociali e culturali dell’evoluzione dell’attività commerciale, industriale e finanziaria. È evidente che l’evocazione (ma si dovrebbe parlare piuttosto di invocazione quasi fideistica da parte di ideologi ostinati) della mano invisibile, tanto cara a Adam Smith, non è sufficiente a mettere in mora un intervento legittimo e necessario dello Stato, nella sfera economica.

    I casi Enron, Worldcome, Tyco, Ahold, Vivendi Universal e Parmalat, oltre alla crisi dei sub prime che ha scosso gli hedge funds nell’estate del 2007 (secondo l’ufficio studi Dealogic, fra il 1° agosto e l’inizio di settembre, il complesso delle operazioni realizzate nel mondo dai fondi di investimento è crollato del 70% in rapporto a quanto registratosi nello stesso periodo nel 2006), testimoniano di questo bisogno di regolazione politica del mondo degli affari, che non vuole tradursi in compressione del dinamismo economico e della capacità di iniziativa delle imprese, ma in un inquadramento etico dell’universo degli affari, in modo tale che esso non sia una giungla, regolata dalla sola legge del più forte. È questo lo spirito attraverso cui bisogna costruire un patriottismo economico: il suo obiettivo deve essere quello di creare un meccanismo di regolazione e incoraggiamento dell’attività economica, che permetta di assicurare alla Nazione alcune ricadute positive dello sviluppo delle imprese in termini di crescita e di impiego, fare sì che i centri decisionali maggiori di tali aziende restino sul suolo nazionale e garantire il mantenimento in patria delle attività economiche strategiche, indispensabili a preservare la capacità decisionale dello Stato.

    L’insieme di queste ambizioni deve inserirsi all’interno di un progetto di un’Europa forte, la cui apertura allo scambio commerciale, in condizioni di reciprocità, con altri soggetti politici deve avvenire in maniera ponderata (sarebbe il caso ad esempio di riflettere, in maniera serena, sulla possibilità che una legge riveda la nostra politica doganale nei confronti delle aziende cinesi). È alla luce di queste esigenze che andrebbero analizzati alcuni casi, come la fusione GDF/Suez, l’equilibrio franco-tedesco all’interno della EADS/Airbus, l’assorbimento di Pachiney da parte di Alcan o gli affari Gemplus, Saft o Eutelsat (tutti e tre relativi alla protezione delle tecnologie sensibili e che investono la questione dell’indipendenza nazionale, determinando vincitori e vinti dal punto di vista commerciale). Offerte pubbliche di acquisto, delocalizzazioni (la cui logica è spesso molto complessa), acquisizione di controllo di alcune aziende da parte di altre sono il terreno su cui i poteri pubblici devono esercitare un rinnovato controllo, affinché possano realizzare effettivamente il bene pubblico. È tuttavia necessario sottolineare anche come un simile modello non possa articolarsi attraverso la sindrome della cittadella assediata. Ciò implica due condizioni, la prima è che le iniziative pubbliche non devono assumere la forma di misure di interdizione contro i flussi di merci e capitali, in quanto né il protezionismo, né la rigida limitazione degli investimenti possono costituire opzioni serie e credibili. Gli scambi di prodotti e gli investimenti devono invece seguire regole di condotta, basate sulla reciprocità, in modo tale che la lotta commerciale si svolga ad armi pari. In secondo luogo, bisogna sempre tenere a mente che la migliore difesa è l’attacco.

    Preservare la sicurezza del perimetro economico strategico, rispondere intelligentemente alle delocalizzazioni o alla deindustrializzazione di certe regioni, favorire la crescita e l’impiego (cioè la vitalità del territorio) significa innanzitutto applicare una cultura dell’innovazione, della competitività e porre in essere una cooperazione rafforzata fra pubblico e privato, in vista della conquista dei mercati internazionali. Nelle società caratterizzate dalla velocità e dal movimento ogni progresso non è che un’acquisizione temporanea e relativa. L’agente di quella distruzione creatrice, tanto cara a Schumpeter, è precisamente l’innovazione: farla nascere autorizza lo sviluppo di un modello capitalistico di tipo darwiniano, in cui sopravvive chi riesce a adattarsi. Qualunque sia il giudizio di valore che ne diamo, dobbiamo essere consapevoli che la rinuncia all’innovazione equivale alla propria scomparsa, in quanto il consumatore reclama cose sempre nuove e la vita commerciale dei prodotti, negli ultimi tre decenni, si è accorciata. Ai tempi delle Trenta Gloriose, l’innovazione era meno importante, in quanto gli operatori economici di ogni Paese erano esposti a una concorrenza limitata, stante l’isolamento del mondo comunista dal resto della comunità internazionale. Anche l’intensità della pressione di alcuni concorrenti nazionali era ridotta, poiché era possibile una coesistenza sul territorio nazionale, il tutto attraverso la realizzazione di profitti soddisfacenti, nel quadro di un sistema produttivo che non subiva ancora le costrizioni del capitalismo finanziario. Oggi, al contrario, la globalizzazione, cioè l’internazionalizzazione degli scambi e l’apertura delle frontiere, la deregolazione dei mercati finanziari e l’emersione di nuovi soggetti, all’interno del commercio mondiale, in particolare Cina e India, hanno dato alla concorrenza commerciale internazionale un ritmo frenetico. Non è più possibile stare sul mercato senza rinnovarsi. La collaborazione fra pubblico e privato deve avere ad oggetto l’intelligence economica, vale a dire la protezione delle informazioni strategiche utili agli operatori economici.

    La posta in gioco è cruciale e investe la crescita, i livelli occupazionali, la sicurezza nazionale ed europea. Impone una rivoluzione intellettuale e culturale che coinvolga tutte le élite.

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    Capitolo 1

    Cosa non è e non dovrebbe essere il patriottismo economico

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    Un patriottismo economico, a base nazionalista, che separi la Francia dal resto del Mondo, nell’epoca della globalizzazione e dell’apertura delle società agli scambi, sarebbe un suicidio collettivo. Non si vogliono resuscitare le passioni scioviniste dell’epoca dei Maurice Barrès, Charles Maurras, Paul Déroulède e dell’affaire Dreyfus. Non ci si vuole autocelebrare al suono della fanfara, ma rinnovare quel concetto del voler vivere insieme, espresso da Ernest Renan:

    Una nazione è un’anima, un principio spirituale; due cose che, a dire il vero, ne costituiscono una. La prima si trova nel passato, la seconda nel presente. La prima è il possesso comune di un’eredità fatta di ricordi, la seconda è la volontà attuale di convivere assieme e di continuare l’eredità collettivamente ricevuta. (…) Aver sofferto, gioito, sperato assieme, ecco questo vale di più delle dogane comuni e delle frontiere tracciate per motivi strategici.

    Se la formula patriottismo economico vuole avere una connotazione positiva, la si dovrà mondare da ogni connotazione bellicista, egemonista e autarchica. I suoi sostenitori devono convincersi che essa non si ispira al nazionalismo, al protezionismo, al dirigismo statale o all’antiliberalismo, né maschera il rifiuto della cooperazione internazionale, del multilateralismo e ovviamente la costruzione di una comune casa europea. Ciò che bisogna capire è che il patriottismo economico non dissimula il rifiuto della globalizzazione; sarebbe grottesco, nella misura in cui la globalizzazione non si può accettare o rifiutare, ma è un dato di fatto di cui bisogna prendere atto e sfruttarne le potenzialità. All’opposto si finirebbe per subirne passivamente le conseguenze. Un patriottismo economico stimolante consiste in realtà nel cercare energicamente il modo di trarre profitto al massimo dalle possibilità di sviluppo industriale e commerciale, dalle occasioni di crescita della prosperità della Nazione, che fluiscono dall’apertura e dall’interdipendenza dei mercati della globalizzazione, proteggendo al contempo la collettività nazionale dai suoi effetti dannosi, in maniera creativa e dinamica.

    Il Nazionalismo

    Alla base del problema c’è l’incapacità dell’intellighenzia francese di distinguere patriottismo e nazionalismo. Il pensiero di Romain Gary, secondo il quale il patriottismo consiste nell’amore per sé stessi mentre il nazionalismo nell’odio verso gli altri, non le è più comprensibile. Questa distinzione, tanto cara al generale De Gaulle e a Andrè Malraux, metteva l’accento proprio su un equivoco in cui è meglio non cadere: confondere l’odio verso sé stessi con l’amore per gli altri. Chiunque affermi di essere fiero di essere francese e di desiderare che il proprio Paese accresca la propria influenza rischia, oggi, di passare come un pericoloso sciovinista, un reazionario e, nel peggiore dei casi, come un fascista in versione light. Come si è arrivati a questo punto? Un passaggio importante è il ricordo di come il virus nazionalista, che ha infettato l’Europa a partire dagli anni ’80 del XIX secolo, abbia condotto alle due Guerre Mondiali.

    La Prima fu un suicidio europeo, la Seconda un dramma per la coscienza umana. È impossibile negare che alla base del Primo Conflitto ci siano state le passioni nazionalistiche, esasperate da alcuni incidenti internazionali e da alcune

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