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La presenza con la tunica bianca
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La presenza con la tunica bianca

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Una cena a casa di amici, il racconto fantasioso di quattro ragazzi in una osteria abbandonata da tempo e l'incontro con una presenza vestita di bianco che li insegue carponi spaventandoli a morte: un ubriaco, un clochard o qualcos'altro?

Mentre Francesca Tato cerca riscontri nell'odierno paese bergamasco, si alternano continui salti nel passato alla scoperta di una verità agghiacciante.
LanguageItaliano
Release dateDec 12, 2016
ISBN9788822876119
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    La presenza con la tunica bianca - Rossella Barzaghi

    romanzo.

    01 - LA PRESENZA – UN CLIENTE INASPETTATO

    I ragazzi amano divertirsi in molti modi, alcuni decisamente molto stupidi. Io non dimenticherò mai quello che accadde quella sera.

    Ma voglio lasciare a voi le considerazioni, io sono qui solo per riportare i fatti.

    Tutto iniziò un semplice pomeriggio d’inverno… semmai questo possa considerarsi inverno…è vero quando si dice che ormai non si considerano più le mezze stagioni come quattro distinti intervalli dell'anno... questo periodo così estremamente mite in Nord Italia sta diventando un po' troppo spesso una regola e, sebbene non sia piovuto quasi per niente, anche a gennaio c’è stata la nebbia. E che nebbia! Più che bianca sembrava pallidamente giallognola se illuminata coi fari delle auto.

    Ma la sera in cui quel tizio parlò non era affatto nebbioso anche se in qualche modo la nebbia c'entra.

    Tutto è successo a casa di Alice, una mia vecchia compagna di classe…

    Alice ha 38 anni, è una ragazza alta nella media, capelli castani corti scuri e un vocione squillante già ai tempi delle superiori (quante volte i prof ci beccavano a chiacchierare riconoscendo quel tono anche sottovoce), non credo di averla mai vista truccarsi.

    Alice oggi ha un compagno: Davide ma non è sempre stato con lui, ovviamente ha avuto anche altre relazioni, di cui non conosco i dettagli, a quel tempo io e Alice ci eravamo un po’ perse di vista.

    Ma quando poi io sono andata a vivere con Lorenzo, circa 3 anni fa, abbiamo ricominciato a frequentarci. Del resto lei e Davide hanno un appartamento a piano terra collocato nel centro del paese ad una manciata di chilometri da casa mia, raggiungibile perciò in maniera piuttosto veloce.

    Era dunque un semplice giovedì quando Alice mi telefonò e mi chiese se mi andasse di passare a casa sua a trovarla, io avevo accettato senza troppi problemi e l'avevo poi ritrovata sulla porta di casa col suo solito sorriso smagliante. Quel pomeriggio indossava una semplicissima maglietta a girocollo a maniche lunghe di un rosa pastello a tinta unita, un paio di jeans blu scuri, i piedi nudi infilati in semplici pantofole imbottite.

    I capelli cortissimi erano del solito castano scuro – non glieli ho mai visti tingere di nessun'altra sfumatura in vita mia - ben pettinati e lisci. Tanto per cambiare, il suo viso era acqua e sapone. Non era una brutta ragazza ma forse avrebbe potuto valorizzarsi di più. .. Ma la praticità per lei era la cosa più importante.

    Dietro la porta, uno stretto corridoio da cui si ramificavano gli ingressi delle altre stanze,  anonimo e spoglio in cui era possibile osservare solamente un semplice portaombrelli di plastica nera con una rosa rossa giusto al centro mezzo nascosto dalla porta d'ingresso quando era aperta.

    La prima porta sulla destra dava accesso alla cucina, interamente in legno chiaro con una lavastoviglie che Alice non adoperava mai e un grosso tavolo da pranzo giusto al centro, la seconda porta invece fungeva da ingresso al soggiorno, questa volta interamente arredato in materiale ligneo scuro, piuttosto piccolo ma con due bei divani in pelle candida, in fondo vi era il bagno dove fondamentalmente la mia amica aveva fatto eliminare la vasca preferendo una più pratica doccia e sulla parte sinistra, una sola camera da letto dove spiccava un enorme armadio specchiato ad ante scorrevoli.

    Alice è sempre stata una persona solare, simpatica, molto chiacchierona ma in gioventù  piuttosto credulona ed ingenua e ancora oggi non facciamo fatica a ricordare eventi particolarmente comici che ci portano via ore intere.

    Quel pomeriggio eravamo comodamente sedute sui divani bianchi, con due succhi di arancia nei bicchieri appoggiati sul tavolino in vetro del soggiorno.

    Ti ricordi alcuni anni fa quando si accostarono tre ragazzi in macchina che cercavano la libreria dell’usato e tu, sapendo che era un po’ complicato spiegarlo, salisti in macchina e mi lasciasti da sola come una pera cotta?  Le chiesi.

    Ma alla fine dopo 10 minuti mi riportarono indietro – disse lei – E non accadde nulla.

    Non passarono 10 minuti, ne passarono 15… me lo ricordo ancora e per poco non mi venne un colpo

    Oggi sono eventi che ricordiamo con simpatia, ma col senno del poi ci rendevamo conto che alcune cose sono state prese con troppa leggerezza... Ma quello senz'altro era il bello dell'adolescenza.

    Mi ridestò la suoneria del cellulare nella mia borsa a cui la mia amica rise, riconoscendone il motivo di un famosissimo gioco a mattoncini molto in voga negli anni ottanta.

    Premetti il tasto verde, rispondendo col mio classico Ciao, dimmi.

    Dall'altra parte del telefono, Lorenzo mi comunicò brevemente: Stasera faccio tardi dal lavoro, passo da casa solo per ritirare la chitarra e poi scappo per le prove, mangerò qualcosa al volo quando torno, non aspettarmi, mi arrangio io

    Ok, messaggio ricevuto, un bacio gli risposi

    Uno schiocco affettuoso sulla cornetta dall'altra parte concluse la breve chiamata.

    Lorenzo, il mio compagno, ha 41 anni, è un ragazzo che mi ha sempre colpita non solo per il fascino da chitarrista: slanciato, moro e con le mani grandi, aveva una leggera erre moscia che mi ha sempre fatto impazzire.

    Lui ha sempre pensato che lo prendessi in giro quando ripetevo parole come burro, ma in realtà mi piaceva sentire il suono di quella stupida parola pronunciata come lui.

    Da un paio di mesi aveva iniziato a provare con un nuovo gruppo pop-rock e spesso e volentieri al giovedì sera usciva per fare le prove.

    Dunque, visto che il mio compagno avrebbe mangiato al volo qualcosa fuori casa, avrei potuto restare anche io fuori e… Alice fu lieta di propormi di cenare da lei: aveva già tutto pronto per due ospiti e non c'erano problemi per una persona in più.

    Oltre ad Alice, al suo compagno Davide e alla sottoscritta, si unirono altre due persone: Beatrice – 35enne alta, snella, con i capelli lunghi e mori, in camicia celeste e blu jeans, giusto una linea nera a sottolineare il bel taglio degli occhi castani -  e il suo storico fidanzato, Federico.

    Contrariamente a quanto avrei immaginato inizialmente, la cena fu qualcosa di estremamente dimenticabile: Beatrice era talmente a proprio agio a spettegolare con Alice di persone che non conoscevo che il tutto iniziava a prendere una piega decisamente noiosa.

    La mia amica ribatteva raccontando a sua volta di altri memorabili eventi passati e non lasciava un attimo di tregua a chi voleva invece conversare di altri argomenti, lasciandoci quasi solamente il tempo di annuire mentre si mangiava o si sorseggiava quel delizioso Nero d'Avola che Federico aveva gentilmente portato.

    Fissato coi suoi capelli cortissimi anche d’inverno, Davide quella sera indossava una semplice tuta blu che gli dava un aspetto atletico. Devo dire che il blu faceva risaltare molto i suoi occhi verdi, e lo trovavo in forma.

    Davide è un infermiere per anziani e spesso il suo orario di lavoro va ben oltre il suo contratto: se una delle sue amate vecchiette lo avesse chiamato al cellulare in caso di bisogno, lui ci sarebbe stato sempre.

    E così, quando arrivati alla frutta, ricevette la chiamata della signora Romana – ottantenne ostinata a vivere da sola – che diceva di avere finito le sue pillole della pressione quando magari le aveva solo spostate e poi si era dimenticata dove le aveva appoggiate – Davide colse al volo l’occasione d’oro per defilarsi in maniera elegante, mostrando il suo migliore sguardo carico di dispiacere e, facendomi un occhiolino colmo di significato, eccolo afferrare il giaccone, chiavi dell’auto e fuggire via.

    Lui sì che aveva trovato una buona scusa! Furbo!

    Mi dispiace ma devo proprio andare... ma spero di non metterci molto... comunque credo possiate continuare anche senza di me comunicò il ragazzo in tuta mentre rapidamente guadagnava l'uscita.

    Alice seguì con lo sguardo il suo compagno senza dire una parola limitandosi ad  una smorfia piuttosto buffa arricciando le labbra ma non appena la porta si chiuse, mentre si versava del vino rosso nel bicchiere, riattaccò a raccontare alla sua amica Bea se si fosse ricordata di quella serata in cui andarono in un certo locale – L’Oca Selvaggia mi pare si chiamasse – e fecero conoscenza con alcuni ragazzi che avrebbero in seguito rivisto.

    Dunque mentre quelle due parlavano di un passato in cui io non c’entravo, non mi rimaneva che tentare qualche scusa per attaccare bottone con lo sconosciuto Federico.

    Quella sera indossava  blu jeans sfumati chiari sulla parte alta della gamba e maglione nero con dei motivi colorati sulle maniche e aveva anch’egli l’aria estremamente annoiata.

    Aveva legato i suoi capelli castani con una coda e nell’insieme mi dava l’idea di essere un motociclista, "Chissà se era realmente così oppure no" – immaginavo tra me.

    Federico, fino ad allora piuttosto silenzioso, mi sorprese annunciando ad alta voce: Francesca – ovvero la sottoscritta -  hai voglia di un amaro di là in salotto? Io qua mi sto annoiando da morire con le loro storie… Non so tu, ma io le ho già sentite….

    Inutile dire che accettai l’invito: erano soltanto le 21.00 e avrei potuto tranquillamente tardare ancora un po’ prima di tornarmene a casa da Lorenzo.

    E accettai volentieri la chiacchierata nella speranza che la serata potesse in qualche modo risollevarsi.

    Non dimenticherò mai il suo racconto.

    In seguito ho avuto la possibilità di verificarlo solo in parte ma, devo dire la verità che la storia, se reale, è stata spaventosa. E quello è stato solo l’inizio di tutto il resto.

    Non ne parlai nemmeno con Lorenzo quella sera: lui era talmente stanco che non si accorse nemmeno della mia inquietudine, semplicemente si spogliò, si lavò i denti in mutande, si mise il pigiama in tessuto blu, un bacio sulle labbra e 10 minuti dopo già dormiva beato.

    Dunque io e Federico siamo andati in salotto, chiudendo la porta per non sentire quel chiacchiericcio femminile in cucina e mi sono accomodata sul divano in pelle, mentre lui trafficava con una bottiglia di amaro e due bicchieri in vetro intagliato.

    Tu conosci l’Aquila d’Oro? Esordì Federico in piedi col Fernet in mano.

    L’Aquila che? risposi io, guardando di traverso.

    L’Aquila d’Oro, l’osteria…

    Mai sentita… Ma dove si trova? Non ci sono mai stata….

    E il Monte Bianco? disse, ignorando le mie domande.

    Cercai di fare conversazione amichevole mentre con una mano prendevo a mia volta il bicchiere con l'amaro: Un Monte Bianco lo conosco, è una gelateria poco lontano da qui, nella frazione qui vicino… è quella costruita nelle campagne… scelta secondo me inizialmente azzardata perché fuorimano e sconosciuta ma rivelatasi vincente dopo… praticamente si trova sempre parcheggio!! Fanno una banana split strepitosa!

    Esattamente quello si limitò a dirmi sintetico mentre giocherellava col bicchiere – Prima della gelateria vi era un’osteria, l’Aquila d’Oro appunto, era disposta su diversi piani, sotto vi erano le sale coi tavoli, al primo piano la cucina e la dispensa e al secondo avevano quattro camere.

    Che strana cosa avere la cucina al primo piano, chissà com’erano felici i camerieri quando c’era il pienone dissi io sorridendo. Avrei preferito del ghiaccio ma tutto sommato l'amaro non era niente male.

    Nonostante il proprietario facesse una notevole pubblicità all’attività, in soli 3 anni dovette chiudere. Sai, quel posto rimase abbandonato per anni prima di essere abbattuto. E poi sorse la gelateria che evidentemente conosci bene.

    "Dunque la storia che vuoi raccontarmi riguarda questo posto? Ci sei stato a mangiare?"  domandai curiosa. Finalmente un po' di conversazione interessante.

    Federico guardò il Fernet, ne bevve un sorso e disse distrattamente che sì, ci era stato e in passato ci aveva mangiato dell’ottima cacciagione – del cinghiale, precisò, - ma non ricordava molto. Era piuttosto brillo per cui, nonostante non abitasse lontano da lì, preferì fermarsi a dormire anzicchè farsi riaccompagnare a casa dai suoi amici, rischiando di farsi beccare mezzo ubriaco da sua madre. E poi, diciamoci la verità, era in buona compagnia, femminile… E non era Beatrice, a quel tempo non stavano ancora insieme.

    Ma non ho mai capito perché non abbia mai raccontato alla sua attuale ragazza quello che invece raccontò a me.

    La storia che voleva raccontarmi Federico era ambientata successivamente a quell'episodio iniziale, quando ormai il posto era chiuso da tempo.

    Giusto per movimentare la serata, Federico aveva portato 3 amici nell’edificio abbandonato.

    C’era la nebbia, la stessa nebbia giallognola di queste umide sere, anzi, anni fa anche molto più fitta di adesso e decise di esplorare il posto con loro… per un’avventura emozionante senza allontanarsi troppo da casa.

    Federico aveva quindi portato tale Claudio, biondo ventiquattrenne, un riccioluto compagno all'epoca delle superiori di nome Pan (Pancrazio era troppo avvilente) e la sua diciannovenne fidanzata Ludovica.

    Ovviamente io non conoscevo nessuno dei tre, del resto anche di Federico sapevo ben poco avendolo conosciuto giusto a quella cena e Beatrice tra l’altro era un’amica di Alice, non mia.

    "Con la nebbia il posto era difficile da trovare – esordì Federico -  anche perché l’osteria era circondata da alti cespugli ma vi erano degli spiazzi strategici, a lato della strada dove erano stati piantati degli abeti. Vedere gli abeti significava essere arrivati a destinazione.

    Parcheggiammo dunque sui ciottoli grigi e umidi e guardammo il posto: silenzioso e avvolto nella nebbia, con due unici lampioni davanti all’ingresso dimenticato e chissà perché funzionavano ancora.

    L’ex osteria era ancora tutto sommato in discrete condizioni, la pittura esterna color bordeaux era ancora presente anche se l’edera aveva cominciato a crescere scomposta sulle pareti. Gli abeti avevano bisogno di una evidente potata sulle punte appesantite e l’erba cresceva incolta a ciuffi anche tra i ciottoli.

    C’era ancora persino l’insegna, dove si poteva leggere quila d’Oro, la A era disgraziatamente caduta dalla facciata principale e giaceva rotta in più punti, mezza nascosta in un cespuglio che l’aveva avviluppata.

    Il logo dell’Aquila era invece ancora saldamente ancorato, l’animale aveva le ali aperte e gli artigli appuntiti. Sembrava più fare da guardiano che da gentile invito ad entrare a cenare.

    La porta principale era chiusa, ma non dal classico portone, quello non sembrava esserci più, forse l’avevano rubato. Curiosamente da fuori si vedeva una specie di telo multicolore sbiadito.

    Effettivamente alla porta appariva una sorta di plaid composto da molti quadrati colorati, un po’ come le vele di una volta, fatte con gli avanzi di tela cuciti assieme.

    Sembrava semplicemente inchiodata allo stipite della porta...Il che non proteggeva granché. Non faceva paura anzi, appariva semplicemente ridicolo.

    Il telo si muoveva impercettibilmente con il quasi inesistente alito di vento e rendeva

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