Storie Artigiane: Il Trevigiano che cambia, la libertà che rimane
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Una inchiesta per il Trevigiano sul filo degli incontri con gli artigiani, i piccoli produttori, gente che mette in gioco la propria autonomia ma non è disposta a rinunciarvi. Non un catalogo di nomi, di aziende, di fatturati, al contrario una indagine nel sangue e nel cuore degli uomini con le loro fatiche, ambizioni, speranze, amarezze, voglie di riscatto. Diversi per estrazione, tradizione, età, uniti da alcune costanti: il dialetto, il senso di appartenenza, soprattutto la libertà: da questa discende ogni sfida, ogni scommessa. Non è solo lavoro, non è solo economia. "A un trevigiano toglietegli la libertà, la follia, il suo linguaggio e la sua terra, e non è più niente, perché tutta la sua anarchia ha un senso solo se la può infilare nella società".
Massimo Del Papa
Faccio il giornalista dal 1990. Ho scritto alcuni libri, di preferenza in formato ebook.
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Storie Artigiane - Massimo Del Papa
Introduzione
Cosa è rimasto del Veneto bianco, del Nordest democristiano, della sua rete capillare cattolica
come diceva Giorgio Bocca per dire quell'ordito di parrocchie, oratori, circoli, banche, cooperative, il prato basso e fertile per l'industria polverizzata delle piccole e medie imprese, delle attività artigiane che facevano media, riequilibravano il PIL nazionale afflitto da sacche e ritardi nel Mezzogiorno? Mutazione dopo mutazione, il cronista ha l'impressione che non sia rimasto niente, almeno nella Marca Trevigiana dove il monopolio democristiano in spartizione col sottogoverno comunista ha lasciato spazio alle Leghe e il tessuto produttivo si è più volte sfaldato per riscriversi in modo sempre diverso. Poi, dopo un po' che ci stai, che ascolti, che intervisti ti accorgi che è una rivoluzione gattopardesca ma in senso buono, non il cambiare tutto pur che nulla cambi ma il contrario, cambiare davvero nella finzione che tutto resti grossomodo uguale. Adattare la pelle di un distretto, ridefinire settori e metodi produttivi, senza rinnegare quella combinazione di umori e di caratteri che sta nel dna, che permette a chi è nato qui di riconoscersi come membro della comunità che lavora, che agisce, che parla l'eterno dialetto e a volte fatica a seguire i mutamenti, le trasformazioni del pazzo mondo ma in un modo o nell'altro riesce a venirne a capo. Il dna trevigiano è fatto di cromosomi assortiti ma uno in particolare lega tutti gli altri e non può mancare: la libertà, quel senso di autonomia esistenziale, produttiva che non degenera in anarchia, al massimo in anarchia controllata, nel colpo di follia che però trova una sua ragione, si inscrive in un senso più globale e tiene sempre conto del contesto. Ho incontrato in questo viaggio per il distretto artigiano, per le sue voci artigiane, decine di imprenditori, di tipi umani, di storie personali, e prima o dopo, ma più spesso prima, questa dimensione, la libertà, tornava fuori. Libertà di che? Di sognare, anzitutto. Pare impossibile, ma questa gente concreta, anche dura, anche irragionevole nel suo voler tornare agli austriaci, al lombardo-veneto
, non sa rinunciare al gusto del sogno. Che poi vuol dire immaginare una vita a propria misura, dove nessuno ti dice come e quanto e quando lavorare, Io per me vengo in capannone anche a Natale e ci sto dodici ore
, il lavoro non come travaglio, come dannazione biblica ma come estensione della libertà, accumulo di indipendenza, più mi do da fare e più sono libero. Quando è cominciata la vita per questi sognatori arcigni? Quando mi sono messo da solo, quando non ho avuto più un padrone
. E allora capisci che la Marca Trevigiana cambia per non cambiare, muta le sue pelli per tenere integro il dna che sta sotto, la voglia e il bisogno di scartare di lato, di rifare la vita e vada come vada.
Dall'elettronica giapponese, dalle impedenze, i transistor, le resistenze, insomma quegli insetti di ceramica con due antenne lunghe e storte che finivano nelle radioline dentro le testiere dei letti, in quell'orribile delizioso gusto anni Settanta, alla microelettronica computerizzata e ai led e le stampanti tridimensionali del 2016, dal monopolio bianco, felpato, di crudeltà sorniona, ai furori leghisti anche sterili o controproducenti: di tutti i cataclismi bancari, solo qui son rimasti col cerino in mano, La Popolare di Vicenza e l'Antonveneto si sono mangiati o meglio hanno mangiato ai risparmiatori 20 miliardi ma su questi Renzi ha fatto orecchie da mercante, ha tamponato le toscane Etruria e Monte Paschi, ha prestato attenzione alla Banca delle Marche, altro feudo elettorale del PD, ma quanto al Veneto verde, ex bianco, ha detto, anzi non ha detto ma l'hanno capito benissimo: affari vostri, fatevi aiutare dalle vostre Leghe; oppure cambiate modo di votare e se ne riparla. Eppure le Leghe, oltre che in Lombardia, non potevano che attecchire qui, dato che salivano dallo spontaneismo produttivo e quindi politico, ricordate il Franco Rocchetta della Liga Veneta? Poi, come dappertutto, lo scatenarsi degli appetiti, delle faide, la balcanizzazione dei movimenti e i veneti, i trevigiani che non si sentono rappresentati da nessuno e vorrebbero tornare agli austriaci, al lombardo-veneto. Ma per far che? Certo, per pagare meno tasse, perché il 74% reale, che poi è un 80-85% percepito, è una follia manicomiale che si aggiunge all'ulteriore delirio burocatico, ai 174 adempimenti solo per partire, alle 200 incombenze l'anno che la Unione Europea di vetro e di carta non si stanca di escogitare, dal che si capisce la voglia di fuga. Ma una fuga che lascia il tempo che trova, un anno fa tutti volevano delocalizzare in Slovenia, adesso la moda è già passata. E passano in fretta, queste smanie più o meno esotiche, perché un trevigiano senza i suoi posti e il suo dialetto, senza la koiné è niente. Il dialetto che secondo Céline sale dall'odio
, ma a me pare invece salga da un amore per la libertà, è lo slang di chi si specchia in qualcosa di condiviso, di