Roosevelt Avenue
By Ryan Tormy
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Roosevelt Avenue - Ryan Tormy
Ryan Tormy
Roosevelt Avenue
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Indice dei contenuti
Quando un uomo nasce
viene sbalzato da una situazione ben definita
in una situazione incerta e indefinita.
Vi è certezza solo per quanto riguarda il passato,
per ciò che riguarda il futuro,
solo la morte è certa.
Erich Fromm
Un omicidio
è un evento normale
in una grande città,
presto dimenticato,
coperto dall’onda lunga dell’oblio,
dopo aver solleticato un breve,
morboso interesse.
Un omicidio,
come la violenza di un uragano,
sconvolge e distrugge la tranquillità,
la serenità di una famiglia normale.
Gli affetti spazzati via
non saranno mai più restituiti
lasciando solo laceranti vuoti.
Un omicidio,
normale avvenimento per un detective,
entra nella vita di Deanna Taylor
scalfendo prima e attraversando poi
la corazza di logico e freddo raziocinio
costruita in anni di investigazioni, di morti,
coinvolgendola emotivamente.
Nota dell’Autore
Questo romanzo è opera della fantasia.
Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti
sono il prodotto dell’immaginazione o,
se reali, utilizzati in modo fittizio.
Ogni riferimento a fatti, persone,
viventi o scomparse, è del tutto casuale.
Roosevelt Avenue
Ryan Tormy
Sudato, ansimante, infastidito da un tardivo ma non convinto pentimento, impestando l’aria con maleodoranti rutti, si rigirava in continuazione nel letto cercando la posizione giusta per raggiungere l’agognato sonno. Che non arrivava. Più si obbligava a dormire, più si agitava. Nei pochi, brevi momenti in cui riusciva ad addormentarsi, raccapriccianti incubi lo risvegliavano spaventato; e ogni volta guardava i numeri verde fosforescente della sveglia nella speranza che fosse già mattina. Ma questi si succedevano con irritante lentezza e lo innervosiva dover accettare che non erano trascorse nemmeno due ore da quando si era coricato.
Anche questa volta aveva esagerato; anche questa volta aveva lasciato che l’ingordigia, travalicando l’effimero confine fra la decenza e l’indecenza, si fosse trasformata in una riprovevole abbuffata. Troppo, smodatamente troppo anche per uno stomaco capiente come il suo. Di corporatura robusta, da sempre con qualche chilo in più di quel peso forma che i medici non erano mai riusciti a fargli conquistare, Sam, da quando è in pensione, è entrato a far parte di quel quarto di suoi connazionali che le statistiche annoverano fra gli obesi.
Louise, abituata al rumoroso e invadente marito, ma prima di tutto stanca, pareva non sentirlo; esternava la sua rassegnazione sospirando ed emettendo, di tanto in tanto, malinconici suoni gutturali.
Per tutto il pomeriggio avevano trafficato per preparare filetti di manzo - quello allevato nel Texas, per lui il migliore -, costine di maiale, salsicce e salamelle cotti sul bbq in pietra, costruito nel giardino dietro casa, protetti da un grande ombrellone da sole aperto per ripararsi dalla leggera pioggia, profumando l’aria di invitanti profumi. Louise aveva anche pelato, fatto a pezzi, arrostito nel forno una gran quantità di patate spezziate con salvia, rosmarino, origano e cucinato una smisurata cheese-cake, la sua specialità. Sarebbero stati in otto a cena e c’era da mangiare per almeno il doppio. Festeggiavano la vittoria della squadra, e il terzo posto di Sam nell’individuale, al torneo di bowling del quartiere. Avevano invitato gli altri tre giocatori e le loro mogli.
Alla fine della cena non era avanzato niente, come testimoniavano i vassoi impilati sul ripiano della cucina e il plotone di bottiglie vuote di Samuel Adams, la sua birra preferita.
Seduti a tavola dalle sette, gli amici, sempre meno lucidi e oltremodo sazi, verso le undici, sbiascicando una litania di saluti e ringraziamenti, tornarono a casa e loro, non avendo voglia e forza per riassettare, lasciarono tutto com’era e salirono al piano superiore per andare a dormire.
Restare a letto era ormai diventato solo un tormento. Decise di alzarsi: una boccata d’aria fresca gli avrebbe fatto bene. Cercò la lampada sul comodino, spinse l’interruttore, ma non si accese. Si ripromise, l’indomani, di cambiare la lampadina. Convinto che Louise dormisse, per non svegliarla si alzò nel buio; barcollando, appoggiandosi ai muri, andò nella stanza usata dai figli quando vengono a trascorrere qualche giorno da loro. Sempre più raramente. Lei lo sentì; non disse nulla augurandosi che non tornasse subito, che la sua assenza le permettesse di prendere finalmente sonno e riposare tranquilla. Sempre camminando tentoni, arrivò alla finestra. L’aprì. Inspirò profondamente. Sentiva però che c’era qualcosa di strano, di diverso quella notte. Non riusciva a capire cosa. Si sporse, guardò intorno nel silenzio, nel buio. La luce. Mancava la luce. Tutto il quartiere era al buio; anche i lampioni nella strada erano spenti. Nemmeno la luna, che in quel periodo era piena, riusciva a far filtrare il suo chiarore oltre la fitta coltre di nubi che da giorni copriva Richmond.
Gli venne voglia di accendere un puzzolente, come Louise chiama i sigari che lui ama fumare. Li teneva in salotto e per farlo doveva scendere. Non si sentiva sicuro: gli effetti della tanta birra bevuta rendevano instabili i suoi movimenti. Il desiderio prese il sopravvento e decise di tentare. Frugò nell’armadio cercando qualcosa per coprirsi. Trovò una coperta, la spiegò, tossendo infastidito dall’odore della naftalina che la moglie metteva ovunque, la avvolse intorno alle spalle come fosse un mantello. Scese le scale rasentando il muro, stringendo forte il corrimano, camminando lento, un gradino per volta. Arrivato in fondo alla scala strisciò i piedi sul pavimento in parquet; spontaneo gli si formò un sorriso sulle labbra mentre pensava all’irritazione di Louise se l’avesse visto e all’inevitabile, estenuante discussione che sarebbe seguita. Distese le braccia muovendole per esplorare lo spazio davanti a sé ed evitare gli ostacoli che sapeva di incontrare. Non si ricordò del basso tavolino in vetro: impattò violento lo stinco contro il bordo acuminato. Snocciolò una lunga e colorita serie di imprecazioni.
«Ha ragione chi sostiene che il fumo fa male» sentenziò caustico continuando a massaggiare la contusione per lenire il dolore.
Prese un sigaro dalla scatola e, senza altre difficoltà, aprì la porta e uscì sul prato di fronte alla sua casa. L’erba, la terra intrise d’acqua, bagnarono le pantofole. Si rese conto della sua sbadataggine quando sentì la pelle dei piedi umida e un intenso brivido di freddo pervaderlo. Strinse più stretta la coperta, portò alla bocca il sigaro, lo tenne fermo con i denti e dopo due tentativi la fiamma dell’accendino brillò nell’oscurità. Quel gesto non sfuggì al signor Brown seduto sui gradini dell’ingresso della casa di fronte, sul lato opposto della via; aveva una torcia che accese e rivolse in direzione del tenue rossore del tabacco che bruciava, accompagnando il movimento con una domanda che, in quel silenzio, sembrò urlata: «Sam… Sam sei tu?»
«Arkye? sei tu? che fai lì? vieni qua, fammi luce.»
Attraversò la strada e puntò la pila sulla faccia paciosa di Samuel Hammer.
«Maledizione, abbassa quella luce» disse stizzito, «mi stai accecando.»
«E tu abbassa la voce o sveglierai tutti! È da più di un’ora che non c’è corrente, da prima di mezzanotte; stavo guardando la partita dei Richmond Braves, quando è mancata.»
«Ma non ci sono partite a quest’ora. E poi hanno giocato ieri.»
«Lo so, è la registrazione. L’altra sera avevamo gente e non ho potuto vederla. Oggi siamo stati tutto il giorno a cercare un divano perché a Flossie non piace più quello che abbiamo. Quindi me la stavo godendo adesso. Ti va bene così?»
«E l’avete trovato?»
«Ti pare che a Flo basti un giorno per trovare quello che cerca?»
«Beh, io l’ho vista. È stata una bella partita. Peccato che abbiano perso.»
«Grazie per l’informazione! Per tutto il giorno non ho visto i notiziari, non ho comprato apposta il giornale e tu, come al solito, rovini tutto.»
Sam gongolò contento: anticipargli i risultati era un suo fanciullesco divertimento.
«Ho chiamato la società elettrica» riprese Arkye, «c’è un guasto da qualche parte e non sanno ancora quando riusciranno a ripararlo. Così hanno detto. Spero non mi si rovini la carne nel congelatore.»
«Questo buio, questo silenzio, mi ricordano la mia infanzia nella fattoria di Waynesboro» confidò Sam, «ora però non sono più abituato e ti confesso che mi fa un po’ paura.»
«Anche a me, ma non volevo dirlo per primo. So che me l’hai già detto, ma dov’è quel posto? Nord o Sud Carolina?»
«Georgia, Georgia. Al confine con la Carolina del Sud. In quella zona tanti paesi finiscono in boro. Ricordo Swainsboro, Statesboro, Walterboro…»
«Marlboro» sogghignò Arkye.
«Stupido» ribatté ridendo anche lui. Poi, per non disturbare l’innaturale quiete, non parlarono più.
«Ascolta» disse Sam distogliendo l’amico dai suoi pensieri, «le sirene.»
Arkye, che era un po’ sordo, non sentiva nulla.
«Credo stiano venendo da questa parte.»
«Adesso le sento.»
Puntando a terra il fascio della torcia, raggiunsero il marciapiede. Sam schiacciò con forza i piedi nel tentativo di far uscire un po’ di acqua dalle pantofole. Il suono delle sirene cresceva d’intensità. Vedevano ora anche le luci dei fari, dapprima tenui poi sempre più forti, allinearsi dopo la sbandata per la curva in fondo al viale. Due macchine della polizia sfrecciarono davanti a loro frenando scomposte, poco più avanti, sull’asfalto viscido, seguite a breve distanza da altre tre. Mentre le ultime vetture non si erano ancora fermate, dalle prime già scendevano gli agenti che correvano verso la porta d’ingresso della casa al numero 1242 di Roosevelt Avenue.
Si presero sotto braccio e s’incamminarono in quella direzione facendo attenzione a non scivolare sulle foglie secche dei negundi piantati ai lati della strada che le violente piogge degli ultimi giorni, dopo un’estate lunga, calda e arida come da tanti lustri non accadeva, avevano anzi tempo fatto cadere, come se fosse già autunno. Un alquanto precoce autunno.
La torcia non serviva più: le potenti luci dei fari sui tetti delle auto prima e delle fotoelettriche poi, rischiaravano a giorno la villetta e intorno. Prima che potessero avvicinarsi, furono rudemente fermati dagli agenti che stavano tendendo il nastro giallo fosforescente con un’infinita serie di "CRIME SCENE DO NOT CROSS" scritta a neri caratteri cubitali a delimitare la zona e vietarne l’accesso.
Questo trambusto aveva svegliato molti degli abitanti che, dopo aver curiosato dalle finestre, erano usciti in strada e tempestavano di domande Sam e Arkye che, sebbene presenti all’arrivo della polizia, erano del tutto ignari di cosa fosse successo. Due agenti, le pistole in pugno, si avvicinarono alla casa. Keith Paltrow tentò di aprire la porta: era chiusa. Corse l’agente Arbos che facendo leva con una spranga di ferro incuneata fra lo stipite e la porta, accompagnando il gesto con stravaganti imprecazioni, forzò la serratura, scardinandola. Keith spinse l’uscio con un piede; strisciò la schiena contro lo stipite; entrò muovendo a destra e a sinistra le braccia tese in avanti. Hector Forteza, dietro di lui, fu colpito al volto dalla pistola di Keith voltatosi di scatto; barcollando, inciampò sui gradini e cadde. Keith si appoggiò al muro e si piegò per vomitare. Anche Forteza, rialzatosi, si allontanò sputando disgustato.
Gli si avvicinò il sergente Emerson: «Che c’è Hector?»
«Una puzza… una puzza…» rispose tossendo e sputando, «non ho visto niente, solo una puzza insopportabile; ci servono le maschere» aggiunse. «Vado a prenderle.»
«No, lascia stare. Vai a farti medicare» gli impose vedendo il sangue che colava sulla guancia. «Duke» gridò rivolgendosi ad alcuni poliziotti dietro di lui, «Duke, prendi le maschere e vai con Keith» gli ordinò energico. «Ehi, Percy… Percy, dove cazzo sei? Piazza un’alogena all’ingresso. Svelto.»
Hector fu accompagnato all’ambulanza per curare il taglio sullo zigomo sinistro. Keith, ripresosi, accompagnato da Conrad Duke, rientrò nella casa. Si muovevano con circospezione, scrutando nella penombra, oltre la zona illuminata. Avanzarono per un paio di metri. Conrad chiamò il collega: «Keith, lì, guarda lì.»
Si avvicinarono lentamente. Poco oltre la soglia della porta videro i piedi scalzi di un corpo steso per terra. Conrad portò la testa in avanti; subito chiuse gli occhi. Paltrow gli si affiancò e guardò nella stessa direzione provando a sua volta ribrezzo: una giovane donna, con un profondo taglio sul ventre, giaceva supina in una posizione innaturale. Dall’addome lacerato, l’intestino non più trattenuto era uscito lordando la pelle bianca, i vestiti, il pavimento. Il lieve rumore del frigorifero che ritornava a funzionare per la ripresa dell’erogazione dell’elettricità fece sobbalzare i due poliziotti rimasti allibiti e immobili. Conrad, spingendo a caso alcuni interruttori, accese le luci. La fotoelettrica piazzata all’ingresso fu spenta. Gli agenti non toccarono altro e, lasciando la porta d’ingresso spalancata per far entrare aria che rendesse più respirabile quella che ristagnava dentro, uscirono raggiungendo Emerson.
«Sergente» gli disse Conrad togliendosi la maschera, «il nostro lavoro è finito. Adesso tocca al coroner e a quelli della scientifica.»
Sbigottiti, e nello stesso tempo eccitati, gli spettatori avevano smesso di bisbigliare; adesso facevano commenti e congetture alzando sempre più il tono della voce.
Per Nick Kola, tenente ispettore della squadra omicidi della polizia di Richmond, noiosamente sicuro di sé, che aveva sempre una risposta e una spiegazione a tutto e per tutto, avere due quesiti ancora irrisolti era un cruccio che ogni tanto lo angustiava; anche se questo assillo durava poco, presto rimosso da questioni, per lui, più importanti.
Si chiedeva perché i suoi genitori avessero scelto proprio quel nome. Non perché fosse brutto: l’America è piena di Nick; ma pronunciato insieme al cognome era stato spesso motivo di confusione. Non l’aveva mai chiesto e ora non poteva più farlo. Un anno fa, in poco meno di sei mesi, se n’erano andati entrambi. Prima mamma Gloria, improvvisamente e inaspettatamente, per un infarto. Poi Charles, suo padre, lentamente, prevedibilmente, che non aveva accettato, non aveva voluto accettare, la morte della moglie.
"Che senso ha chiederselo?" gli domandavano quando lui esternava questa sua perplessità, "gli è piaciuto e così ti hanno chiamato" tagliavano corto evitando di addentrarsi in una questione ritenuta priva di importanza quelli a cui sollecitava una risposta, "non vorrai odiarli per questo?"
Non capivano, non riuscivano a capire che lui doveva saperlo. E capivano ancora meno quando parlavano di risentimento o, addirittura, di odio. Odio che non aveva mai provato per nessuno. Neppure per i più feroci assassini che aveva incontrato nella sua carriera e per i molti nemici che si era fatto in quegli anni. Li combatteva, li compativa, li commiserava, ma non riusciva a odiarli.
Così come non odiava nemmeno Deanna, pur continuando a non comprendere perché, quattro mesi prima, l’avesse lasciato. Sembrava l’unico a non averlo capito e ancora, benché dicesse di sforzarsi di farlo, non lo capiva. Anche questa volta non aveva chiesto spiegazioni, accettando la sua scelta senza contrastarla. Subendola, faceva intendere le poche volte che ne parlava, lasciando a lei la responsabilità di quella decisione.
Deanna, la bionda detective al suo fianco, seduta al volante della macchina senza le insegne della polizia, guidava veloce e sicura per le strade buie e bagnate dalla pioggia che ancora scendeva leggera, impalpabile come nebbia. Da quindici anni compagni di lavoro; da dieci compagni nella vita. Sarebbero stati dieci anni in questi giorni se lei, una sera, l’ultima di una lunga serie di inconcludenti tentativi, non gli avesse detto che non era più il caso di vivere insieme. Una frase che diceva sempre più spesso negli ultimi mesi; ma lui non credeva a quelle parole convinto che scherzasse. Ma questa sua sicurezza non gli faceva vedere la sofferenza che segnava quel viso dolce e le lacrime che si affollavano dentro gli occhi nocciola. Non aveva mai dato peso alle parole che, nelle intenzioni di Deanna, erano provocazioni nel disperato tentativo di salvare un matrimonio nel quale aveva creduto, credeva e ancora avrebbe voluto credere, ma che, dovette poi convincersi, non aveva senso continuare.
A Deanna piaceva e molto il detective Kola: professionale, serio, meticoloso, lucido, razionale. Pregi sul lavoro che, entrati prepotentemente anche nella vita familiare, con il tempo si mutarono in difetti. Un lento stillicidio al quale Deanna non aveva inizialmente dato importanza, ma che con il tempo, subdolamente, iniziò a darle fastidio fino a quando il suo comportamento divenne per lei insopportabile. Come insopportabile era che l’unico argomento di dialogo fra loro fosse il lavoro. Aveva anche smesso di domandarsi perché lui non reagiva quando lei evitava, con banali scuse, i sempre più rari momenti di intimità. Fu lei a decidere. Lui non l’avrebbe mai fatto. Questa sera si erano incontrati alla centrale; lei in servizio, lui ancora in ufficio benché il suo orario di lavoro fosse da tempo terminato. Per lui era normale, l’aveva sempre fatto e avrebbe continuato a farlo.
Fu frequentando il corso per detective che Deanna conobbe Nick. Dopo cinque anni il matrimonio. Dopo dieci il divorzio.
«Vieni Nick, dai... non fare il segaiolo. Sono bellissimi, sono dei giocherelloni.»
«No, no, no!»
A bordo del motoscafo dell’Underwater Experience Society ancorato al largo di Freeport davanti a Kay Peterson, nel profondo blu dell’Oceano Atlantico, Nick restava irremovibile sulle sue posizioni; l’unica cosa in cui riusciva a stare fermo, poiché il beccheggio della barca gli dava problemi di equilibrio e di stomaco, innervosendolo. Deanna era in acqua che giocava con tre stupendi delfini, sotto il controllo vigile di un istruttore.
«Vai tu. Io ti riprendo con la videocamera.»
«Va bene, ma questa me la paghi.»
Nick non amava il mare e non gli piaceva nemmeno la montagna. Aveva avversione per i luoghi affollati e chiassosi; quelli tranquilli lo rendevano malinconico. A Disneyland, l’ultimo posto dove erano stati insieme e dove aveva accettato di andare dopo lunghe insistenze di lei, finché era riuscito, aveva finto interesse, aveva finto di divertirsi. Non durò molto. Deanna, contagiata dai suoi frequenti momenti di malumore, smise di divertirsi, epilogo di una situazione già vissuta troppe volte. In ogni luogo dove erano stati, dove con malcelata malavoglia l’aveva seguita, aveva sempre ottenuto il risultato di avvolgerla con la sua apatia, facendole pensare: Questa è l’ultima volta. Propositi mai mantenuti.
Dalla finestra rivolta a ovest dell’albergo, vedeva il cielo ancora nero punteggiato da tremolanti stelle, libero dalle nuvole del giorno prima spazzate via dal forte vento della notte. Indossò i pantaloni della tuta, infilò un pesante maglione di lana; si piegò sulle ginocchia per chiudere la cerniera dei dopo-sci; senza far rumore aprì la porta e uscì dalla stanza chiudendo adagio. Il legno del parquet del corridoio scricchiolava sotto i suoi passi. Scese due piani di scale e si trovò nella hall deserta. Il portiere di notte si era appisolato sulla sedia con la testa appoggiata sul bancone.
Uscita dalla porta posteriore, respirò l’aria frizzante della prima mattina. La neve caduta fino a tarda sera, aveva coperto tutte le impronte e i segni lasciati dagli ospiti dell’hotel. Appoggiò su quello strato bianco, incontaminato, il piede destro che affondò leggermente, crocchiando sonoro. Portò avanti anche il sinistro e poi tornò indietro ad osservare le sue orme.
Alzò poi gli occhi restando, come ogni volta, affascinata dall’alba: le montagne si stagliavano nere, appiattite; le linee nitide dei loro contorni frastagliati spiccavano nell’arancio appena un po’ sbiadito che sfumava in un evanescente rosa che veloce si dissolveva nel bianco per diventare subito delicato azzurro che lentamente si sostituiva al blu intenso. Si passò le mani sulle braccia per scaldarle, e dopo sulle gambe. Rimase ancora qualche minuto a vedere la luce del giorno avanzare inesorabile. Adesso, sulle cime delle montagne, luccicava candido il bianco dei ghiacciai; scorgeva il grigio delle rocce più sotto e, più in basso, il verde scuro degli abeti e di tutti gli altri alberi di cui le avevano più volte detto i nomi ma che lei si ostinava a non ricordare. Rientrò. Il portiere stava ancora dormendo. Salì le scale senza fretta, godendosi il piacere del caldo che a poco a poco attenuava il freddo sulla pelle. Ritornata in camera accese l’abat-jour, accostò due cuscini alla testata del letto, si appoggiò con la schiena e terminò di leggere Il Dio del fiume
.
La settimana bianca, irrinunciabile per Deanna, una vacanza che faceva fin da piccola quando andava con i suoi genitori per imparare a sciare, Nick la trascorreva da solo sulla terrazza dell’albergo. Va bene così Dé, mi riposo
, mentiva male mentre lei sciava. Alla sera si addormentava davanti al camino nel soggiorno dell’hotel, per continuare in camera. Prendere l’iniziativa, proporre qualcosa da fare, vedere, non rientrava fra i suoi interessi. Una situazione triste, che sembrava tale solo per lei e che la faceva sentire a disagio, persino in colpa per averlo costretto a seguirla.
Nick dormiva e non si era accorto di nulla. Più tardi, da sola, scese a far colazione. Si mise in fila per prendere lo skilift e fare la prima discesa della giornata.
Rinunciò anche a questo senza riversare su di lui la sua nostalgia.
All’inizio, queste sue avversioni, questa sua idiosincrasia, erano rimaste quasi del tutto sopite. Ma poi, impossibili da controllare, avevano preso il sopravvento. Dapprima Deanna aveva cercato di farlo reagire, stimolarlo, scuoterlo da quella ignavia in cui stavano sprofondando. Un’abitudinaria inerzia in completa antitesi con la vivacità, l’iniziativa che lui aveva per il lavoro. Aveva accettato anche questo e non lo considerò una resa, ma un momento da superare insieme. L’amore per il suo uomo era forte e le faceva fare scelte, avere comportamenti che ancora adesso non ritiene sbagliati. Sapeva di farsi violenza ma, testarda e innamorata, era sicura si trattasse di una situazione di breve durata, che tutto sarebbe tornato com’era all’inizio, quando si erano conosciuti, come nei primi anni di matrimonio. Ma il baratro dell’incomunicabilità, che si allargava ogni giorno di più, era diventato una voragine senza fondo. Poiché quel momento non finiva mai e soprattutto non capiva come potesse finire, dovette ammettere la sconfitta, accettare che la sua era solo una chimera, un’illusione e che tale sarebbe rimasta. Era davvero giunto il momento di cambiare.
Ricordate sempre: in un’indagine non va tralasciato nulla, proprio nulla. Non dovete, non dobbiamo essere superficiali; quello che può sembrare insignificante, io non uso mai la parola «inutile», dicevo, quello che può sembrare non servire alle nostre investigazioni, spesso, per contro, si è rivelato di fondamentale importanza. La soluzione va costruita raccogliendo tutti, tutti! i pezzi. Con tutto quello che con infinita pazienza raccogliamo. Anche se al momento ci sembra non abbia relazione con ciò che stiamo cercando di scoprire. Perché è proprio questo il nostro lavoro: scoprire chi è responsabile di un delitto. Ma anche cosa e perché. Tante volte, ve ne renderete conto, si arriva a «chi», il colpevole, comprendendo «perché» ha agito, «cosa» lo ha fatto agire. Sono le tre w: who, what, why. Dovete imparare a ragionare con mille teste: con quella di chi stiamo cercando, ogni volta diversa, senza mai però perdere la nostra di testa. E con testa intendo la nostra razionalità e la nostra intelligenza, la nostra capacità di discernere e di ragionare, la nostra preparazione e la nostra professionalità. Soprattutto senza mai farci coinvolgere emotivamente, sentimentalmente. È successo e succederà, non sembri così strano. Sono parole che possono sembrare capziose, ma sono la base, le solide fondamenta di un buon investigatore. Insieme alla tecnologia che col tempo si è sviluppata, arricchita di strumenti, di esami sempre più raffinati e precisi. Dietro a questi ci sono quegli spocchiosi della scientifica; spesso la loro boria mi da il voltastomaco ma sono indispensabili; senza di loro non avremmo raggiunto l’alta percentuale di soluzioni che ora abbiamo. Per oggi mi fermo qui; ci vediamo, dunque… giovedì alle otto
.
A turno, i detective in servizio, durante i corsi avevano degli incontri con i futuri colleghi che li affiancavano anche nelle indagini e a Deanna erano bastate le tre o quattro volte che aveva seguito Nick per considerarlo un presuntuoso, indisponente, tronfio cafone. Non l’aveva mai degnata di uno sguardo se non per farle pesare il fatto che fosse lì a intralciare il suo lavoro, lì solo a dargli fastidio. Lo faceva con tutti perché lui odiava spiegare cosa, come e perché. Lui faceva e basta.
«Questa è un continuo rompere le palle con domande, chiedere spiegazioni. Come si può spiegare un’intuizione, una sensazione, un’idea venuta per caso ricordando altre indagini, altri omicidi che lei non conosce? Collegamenti logici che perdono tutta la loro logicità quando sei costretto a spiegarli. Perché non se ne sta zitta come gli altri? perché è capitata proprio a me una che sembra una maestrina?» si lamentava con i colleghi che, al contrario di lui, la ritenevano una promettente detective.
Senza che Deanna se ne rendesse conto, e soprattutto senza volerlo, l’antipatia, l’insofferenza si erano trasformate nel loro opposto. Gli piaceva quando, per illustrare come era arrivato alla soluzione di un caso, s’impantanava in noiose spiegazioni, perdeva il filo del discorso, farfugliava parole comprensibili solo a lui. Gli piaceva quando descriveva i casi indagati dal F.B.I.; li aveva seguiti, studiati con interesse maniacale perché il Federal Bureau of Investigation rimaneva il suo sogno, la sua aspirazione e non ne faceva mistero; non aveva mai smesso di crederci ed era convinto che prima o poi avrebbe raggiunto l’obiettivo. Sapeva bene che non era facile: migliaia di colleghi avevano le sue stesse ambizioni; un branco di squali pronti ad azzannare chiunque potesse solamente sembrare un ostacolo; uno contro tutti. Non sopportava che il suo sogno rimanesse solo un bel sogno. La sua capacità, la sua competenza, la sua preparazione dovevano trovare spazi più ampi del distretto di polizia di Richmond. Serviva qualcuno che lo appoggiasse. Se fosse riuscito a partecipare al corso di selezione, in quelle sei settimane avrebbe dimostrato chi era il detective Nick Kola, cosa sapeva fare. Al momento non c’era nessuno.
Era questo il vero Nick Kola, questo normalissimo ragazzo che voleva sembrare grande, e non ci riusciva; questo simpatico uomo che voleva sembrare antipatico, e ci riusciva.
Dei cinque aspiranti ispettori, i quattro uomini si alzarono e uscirono salutando Nick, non senza qualche ironica battuta e ammiccanti occhiate verso Deanna che stava ancora scrivendo.
«Signorina Taylor?»
«Sì tenente Kola?»
«Qualche problema?»
«No, ho finito, grazie.»
«È sempre molto attenta… sono sicuro che farà molto bene. Il capitano Grasser è fiero di lei e so che vorrebbe averla nella sua squadra. Non lo deluda, è vendicativo.»
Deanna non intese queste parole come una minaccia ma, anzi, le considerò un complimento che da lui non si sarebbe mai aspettata. Nascose la soddisfazione.
«Tenente Kola, mi è forse sfuggita qualche disposizione del regolamento che vieta di dare del tu solo alle colleghe? Ho cercato, ma non l’ho trovata.»
Arrossì. Lui non lo notò.
«No, assolutamente… anzi, avrà… avrai capito che non amo i formalismi.»
«Bene, Nick.»
«Ok, Deanna.»
Un silenzio impacciato s’impadronì della stanza. Mise i libri e il piccolo registratore portatile nella borsa, la tracolla sulla spalla e andò verso la porta tenuta aperta da un maldestro Nick Kola.
«Mi fai compagnia qualche minuto? Ho sete.»
Non parlò e la seguì. Si sedettero sugli sgabelli al banco del Wickam’s Garden Café, due isolati più avanti. Nick ordinò un succo di pomodoro; Deanna una Coca Cola.
«Sai come mi chiamavano a scuola?»
«No» rispose sorpresa; non si aspettava questa domanda.
«Coca Kola, Pepsi Kola… Questo cognome è un incubo, anche adesso mi perseguita.»
«Nick te lo giuro, non ci avevo nemmeno pensato. Davvero, io non…»
«Lo so, lo so» la interruppe. «Quando mi presento, Nick Kola, spesso mi chiedono: Ok, Nicola e il cognome?
No Nicola, Nick Kola, Nick Kola; November India Charlie Kilo spazio Kilo Oscar Lima Alfa.
Non ti dico i pass, i biglietti, le prenotazioni. Qualcuno ha scritto Koala, una bestia… puoi ridere, non mi offendo.»
«Bene, altrimenti scoppio.» E rise di gusto.
Si incontrarono altre volte, trascorsero altri momenti insieme fuori dell’ambiente di lavoro; tutti organizzati da Deanna. Nick pareva disinteressato a lei, ma agli occhi di una donna non sfuggono quei piccoli particolari che fanno capire che anche l’altro era innamorato o si stava innamorando. Di lui si era invaghita e subito innamorata, saltando l’amicizia; quell’amicizia che in passato non aveva mai lasciato diventare amore. Non voleva succedesse anche questa volta perché era sicura che Nick fosse la persona giusta, l’uomo con cui vivere. Non certo per la sua bellezza: uno come tanti, normale, anonimo: occhi neri, mai fermi, sempre a guardare, a scrutare, a indagare; naso aquilino che non si poteva definire grosso ma, almeno, invadente; labbra sottili, appena accennate, sempre impegnate a reggere una sigaretta; capelli castani, lisci, disordinati e un ciuffo lasciato più lungo per coprire una precoce calvizie. Indossava quello che capitava, incurante del risultato. Dopo il matrimonio, l’insistenza e la pazienza di Deanna avevano portato un evidente miglioramento, ma ricevere complimenti, anziché soddisfarlo, lo infastidiva. La barba rada e chiara gli permetteva di evitare il quotidiano supplizio della rasatura. Anticonformista, confusionario, disordinato e pigro, aveva per contro un cervello razionale, logico, preciso, ordinato. I suoi ragionamenti si fondano sempre sul concreto; la fantasia è un esercizio mentale che non conosce. Non propenso al rischio fine a se stesso, analizza con meticolosità prima di agire; se avesse saputo giocare a scacchi sarebbe stato un ottimo giocatore. Sagace e ironico, con la battuta sempre pronta, non di rado offensiva. Aggressivo per nascondere, e bene, una dolce timidezza. Ed era stata proprio la sua malcelata timidezza a farla innamorare.
Una domenica di fine maggio andarono a Washington, a casa di suo padre. Nick era rimasto impressionato e infastidito dalla ricchezza del signor Taylor: la grande villa costruita al centro di un immenso parco, il sobrio lusso anche in ogni piccolo oggetto. Deanna gli aveva parlato del padre, del suo lavoro e lui si era informato. Ma non era preparato a tanto e reagì male. Pensò al suo appartamento che poteva comodamente stare nella cucina di quella casa; pensò a cosa avrebbe detto la gente di questa sua relazione. Non pensò che a Deanna, di tutto questo, non importava niente. Al ritorno percorsero gli oltre 170 chilometri senza quasi parlare. Superato il consueto traffico congestionato intorno al Potomac Mills, l’asfalto dell’Interstate 95 scorreva sotto la guida distratta di un Nick nervoso, che fumava in continuazione, che accendeva una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Da tempo voleva dirgli che era innamorata. Aspettò che il corso finisse, comunque fosse andato; non voleva si potesse pensare che la sua relazione con lui l’avesse agevolata nell’ottenere quello che in realtà era solo ed esclusivamente merito del suo impegno e della sua preparazione. Furono mesi pesanti e di sofferenza. Superò l’esame. Entrò nella squadra del comandante Grasser. Il suo ufficio due porte più avanti quello di Nick. Il primo giorno da detective gli mandò una email: Sono innamorata di te. U2! Non è stato un caso difficile da risolvere e tre smarticon sorridenti. Nick la lesse quando rientrò nel tardo pomeriggio. Rispose: Arrestati i colpevoli, complimenti. Senza aggiungere le faccine: non era capace.
L’aeroplano, lasciato il cielo dei diecimila metri striato dai cirri, si stabilizzò a quota ventiquattromila piedi proseguendo regolarmente il suo volo. Hostess e steward, percorrendo gli stretti corridoi con i carrelli, avevano iniziato a ritirare i vassoi con i quali era stato servito il rinfresco, sollecitando con cortesia chi, immancabilmente, non aveva ancora terminato. Il comandante, seguendo le indicazioni del controllore del traffico aereo al quale era stato affidato quel volo che gli chiedeva un veloce e anticipato cambio di quota, agendo sull’autopilota aveva impostato una lieve picchiata, ridotto i giri del motore e azionato i diruttori alari per aumentare la resistenza all’aria e frenare ulteriormente la velocità di discesa per l’avvicinamento all’aeroporto. Questo suscitò per un attimo la sensazione di precipitare. Volava ora, raggiunta la nuova quota, sotto un compatto strato di altocumuli che nascondeva il sole e appiattiva, ingrigiva i colori del terreno, delle case. Continuando nella sua discesa, attraversò un turbolento e spesso tappeto di cumuli che dal confine fra Kansas e Missouri copriva tutta la zona centro-sud degli Stati Uniti occidentali. Per evitare che gli imprevedibili sballottamenti causati dalla turbolenza, sempre presente in quel tipo di nuvole, potessero causare danni ai passeggeri, era stato inserito l’avviso di restare seduti con le cinture allacciate; l’effetto fu di zittire anche i più loquaci. Per molti minuti volarono dentro quella instabile massa d’aria che nascondeva tutto alla vista. I piloti seguivano sui monitor le indicazioni degli strumenti elettronici che li avrebbero portati ad appoggiare le ruote del carrello al centro della pista 20R del Richmond International Airport. Si udì distintamente il rumore dei motori elettrici che estendevano gli slat e, progressivamente, i flap fino a 15 gradi, diminuendo la velocità dell’aereo. Il rumore secco dei carrelli fatti uscire dal loro alloggiamento, anziché tranquillizzare, creò, in alcuni, attimi di preoccupazione. A trecento metri dal suolo la terra tornò visibile, pur nel grigiore di un piovoso pomeriggio, ridando sicurezza ai passeggeri più tesi e preoccupati. A pochi minuti dall’atterraggio il personale si era sistemato sugli strapuntini, non prima di aver percorso ancora una volta i corridoi controllando scrupolosamente che tutti fossero seduti al loro posto, gli schienali dritti e i tavolini chiusi. La responsabile di cabina, appoggiata alla consolle dei comandi audio-video, commutato su on l’interruttore del microfono, iniziò a recitare la consueta filastrocca:
«Signore e signori, il comandante Alexander Young informa che stiamo per atterrare al Richmond International Airport. La temperatura al suolo è di undici gradi, l’umidità del 98 per cento. Piove. Vi invitiamo a rimanere seduti ai vostri posti con le cinture allacciate fino al completo arresto dell’aeromobile. Controllate di prendere i vostri oggetti personali e di non dimenticare niente. Northwest ringrazia di aver scelto di volare con i suoi aerei e si augura di avervi presto a bordo della sua flotta.»
Gli impianti di amplificazione degli aerei, anche quello dell’Airbus 330 entrato in servizio da poco, non rendevano giustizia alla voce calda e dolce di Claudia Leendsay.
Alla fine del volo da Los Angeles, dove era arrivata dopo quello intercontinentale da Sydney, l’aspettavano tre giorni di riposo per poi partire per Roma dove sarebbe rimasta due giorni. Era contenta ed entusiasta del suo lavoro e si sentiva fortunata: poteva girare il mondo, non senza qualche sacrificio. L’ultimo, il più importante, era stato Mike: se n’era andato perché stanco di passare le giornate ad aspettarla, ma lo sapeva quando si erano conosciuti, quando si erano messi insieme, si ripeteva ogni volta. Scacciò subito quel pensiero pensando a Vienna, Londra, Parigi, Madrid, dove ogni volta che tornava scopriva qualche cosa di nuovo, di diverso, di bello. Ma era soprattutto Roma che le piaceva: l’aria di antico che ancora si respira, secoli di storia che nella giovane America non ci sono. Innamorata di Roma per quello che credeva fosse e un po’ delusa per quello che realmente è. La prima volta che era atterrata nella Città Eterna aveva girato per il centro storico rimanendo affascinata da tutto quello che vedeva. Si aspettava la Roma che aveva visto nei vecchi film, ogni tanto trasmessi da Bravo Tv, popolata da gente simpatica, ilare, socievole. Dovette ricredersi: è una città, una capitale come tutte le altre. Tradita nel suo immaginario, non ha smesso di amarla benché, anche qui, avesse dovuto difendersi, e non solo a parole, dalle avance di uomini in cerca solo di un’avventura, veloce e non impegnativa. No sex without love era il suo motto e a ventinove anni non l’aveva, quasi, mai tradito; sorrideva pensando alle avventure che aveva camuffato da love per giustificarsi il sex.
In piedi vicino al portellone anteriore elargiva sorrisi ai passeggeri che stavano lasciando l’aereo. Uscito anche l’ultimo, fece le linguacce alla collega di fronte, si appoggiò con la schiena alla parete e si lasciò lentamente scivolare fino a sedersi; si massaggiò i muscoli dei polpacci tesi e induriti dalla stanchezza. Si alzò, prese la trolley, l’impermeabile sopra il braccio e con gli altri percorse il tunnel del finger di collegamento al gate 7. Nessuno aveva voglia di parlare. Sbrigate le formalità, salì con altri quattro colleghi sul pulmino che li avrebbe portati alle loro case, in albergo, al lodge della Compagnia. Seduto davanti, di fianco all’autista, c’era il comandante Arthur Balth col quale aveva fatto due o tre viaggi in Oriente; con lei, nei posti posteriori, gli steward Richard, Danny e Martha, una hostess da poco in servizio. Lo spacco sul lato sinistro della gonna lasciava scoperta la coscia affusolata velata dalle calze color castoro; lo sguardo dello steward al suo fianco rimase fisso ad ammirare quei centimetri di pelle. Per togliere più lui che lei dall’imbarazzo, con un gesto naturale coprì le gambe con l’impermeabile. Richard guardò fuori del finestrino.
Fu la prima a scendere; salutò tutti e s’incamminò veloce lungo il vialetto, dirigendosi verso la porta della casa al 1242 di Roosevelt Avenue. Le finestre aperte, la musica di Neil Diamond suonata ad alto volume, erano l’inconfutabile prova che Laura era in casa e che, di certo, stava facendo le pulizie; un lavoro decisamente in contrasto con la sua personalità e il suo carattere. Se la vedeva con la tuta blu della Nike, una taglia in più . Per essere comoda
, diceva. La bandana rossa intorno alla fronte, le consumate scarpe bianche dell’Adidas, la sigaretta spenta a penzoloni nell’angolo sinistro della bocca.
Laura Carlson era entrata con lei alla Northwest sei anni fa; vola sulle tratte interne degli States. Da due anni avevano affittato questa villetta in una zona residenziale, non distante dall’aeroporto. Gli abitanti erano in prevalenza pensionati che venivano ad abitare qui anche dagli Stati confinanti per trascorrere la parte finale della loro vita in tranquillità prima di traslocare definitivamente in uno dei cimiteri della città, con una ingiustificata propensione per il Riverview Cemetery. Una bella casetta dipinta di bianco, le imposte marrone scuro, il tetto con tegole rosso mattone e davanti il prato verde brillante. Uguale a centinaia di altre. Tanto uguale che nei primi tempi facevano fatica a ritrovarla: uscite per una passeggiata, un po’ di jogging, perdevano l’orientamento fra le Avenue con i nomi dei presidenti e le strade che le incrociano asimmetricamente, elemosinando informazioni per tornare alla loro casa. Milleduecento dollari al mese. Dividendo in due era l’equivalente di poco più del costo di un buco in città, da soli. C’è quasi tutto quello che serve e la breve distanza dal centro sopperiva alle poche mancanze. Il quartiere era stato soprannominato Whitehair dai primi abitanti e quel nome era rimasto. Gente cordiale che, apparentemente, si fa i fatti suoi. Non avevano molte occasioni d’incontro e nemmeno le cercavano: un educato saluto, quattro parole su argomenti mai impegnativi o personali. L’unico dovere, l’obolo per le numerose feste che organizzavano e alle quali non avevano mai partecipato nonostante le cortesi insistenze dei vicini; alla fine avrebbero dovuto cedere. Ogni occasione era buona per farli ritrovare nei locali del centro sportivo e far baldoria. Negli ultimi tre mesi ne aveva contate almeno dieci.
Appoggiò il dito al campanello e non lo staccò fin quando sentì la chiave girare nella serratura. Era l’unico modo per farsi aprire.
«Hey baby, ben tornata» disse Laura vestita proprio lei come aveva immaginato.
«Ciao, finito di pulire?»
«Certo, se aspetto te.»
«Hai sempre detto che ti piace e non voglio toglierti il gusto di farlo.»
«Sfotti, dai. Tutto bene il volo? Quante pacche sul culo? Quante proposte di matrimonio questa volta? C’era un figo sul volo da Boston! Me lo sarei fatto al volo» affermò seria scoppiando subito a ridere. La sua risata contagiosa coinvolse anche Claudia.
«Vedi, noi della Business abbiamo sì a che fare con degli stronzi, forse, ma di certo non maleducati come capita di trovare in turistica» disse varcando la porta trascinando la trolley sui piedi della collega.
«Attenta, perdio!» reagì fingendosi arrabbiata, «e da quando una carezza alle chiappe è maleducazione, Suor Claudia?»
Non gradì l’ironia e senza rispondere si avviò verso la scala. Laura la seguì fermandosi sul primo gradino: «Nervosetta? Che ti è successo: niente maschio? Capisco. Ma per te non è un problema, vero?»
Anche a questa provocazione Claudia non replicò. Entrata nella camera al piano superiore appoggiò la valigia sullo sgabello in tela; si sfilò le scarpe, tolse giacca, camicetta e gonna della divisa; guardandosi nello specchio grande dell’armadio laccato in beige, con le mani raccolse i lunghi capelli corvini, li fermò sopra la testa lasciandoli poi scendere. Si piaceva, piaceva, era bella. Si avvicinò al vetro, toccandolo con la punta del naso, per schiacciare un minuscolo foruncolo sotto al mento. Si tolse anche l’intimo, fece un giro su se stessa: «Maledizione, sto ingrassando. Basta dolci.»
Fece scendere l’acqua della doccia, aspettò che fosse calda, poi andò sotto il getto a lavar via odori, stanchezza e tristezza. Uscì e rimase a lungo in piedi avvolta nel morbido accappatoio bianco portato via da un albergo giapponese quando l’equipaggio, invece dei soliti Sheraton o Hilton, era stato alloggiato allo Shen Ksé Resort; complice del furto una cameriera e una mancia. Non aveva mai preso niente dagli alberghi, ma quello era troppo bello, troppo soffice per non prenderlo. Era rimasta due giorni da sola, rinunciando alla compagnia dei colleghi che, sapendo della sua recente separazione da Mike, non avevano insistito lasciandola tranquilla. Era triste, lo pensava in continuazione. Anche durante il volo aveva avuto momenti di assenza, inaccettabili per chi occupa un posto di responsabilità come il suo, "che deve essere vigile, presente, esempio per il resto dell’equipaggio e infondere sicurezza nei passeggeri" come impone il manuale operativo. Linda, una delle assistenti, l’aveva educatamente richiamata. La professionalità, i colloqui fatti con lo psicologo durante i corsi di formazione e aggiornamento, la sua forza di volontà la fecero tornare a essere la capo-cabina seria, attenta, preparata; qualità che aveva dimostrato fin dal suo primo volo e che le avevano permesso una brillante e veloce carriera.
Tolse l’accappatoio e passò il soffio di aria calda dell’asciugacapelli su tutto il corpo per togliere ogni minuscola goccia d’acqua. Restò seduta sul bordo della vasca per una mezz’ora abbondante a cospargere di creme idratanti la pelle rimasta troppe ore esposta all’aria secca della cabina pressurizzata. Si stese sul letto, i capelli avvolti in una salvietta. Non avevano bisogno di cure particolari: uno shampoo al miele, una spazzolata. Erano tanti e sottili, lunghi oltre le spalle, fino alle scapole e con un taglio semplice, adatto al suo viso magro e leggermente allungato.
Anche per il make-up, a differenza di Laura, non usava tanti prodotti, soprattutto non costosi; faceva i suoi acquisti solitamente nei grandi magazzini, raramente in profumeria, e comprava quello che le piaceva, indipendentemente dalla marca o dalla moda del momento.
Laura salì per lavarsi dopo la sudata per le pulizie; le strizzò l’occhio.
Aperta la porta del bagno, chiese ironica: «C’è stato un diluvio o un’alluvione?»
«Smettila. Poi ti aiuto a pulire.»
«Già, poi. Hai visto il mio balsamo? Era qui stamattina; dove cazzo sarà? Claudia, rispondi!»
«L’ho messo da qualche parte. È lì, cerca. Hai più roba tu di un bazar.»
La stanchezza cominciava a farsi sentire; chiuse gli occhi; non voleva dormire, solo riposare ma il sonno prese il sopravvento. Dopo un paio d’ore fu svegliata dal volume sempre troppo alto dello stereo che stava suonando In the wake of Poseidon. Sorrise vedendo la leggera coperta che Laura le aveva steso sopra.
«Dove diavolo trovi questi reperti archeologici che chiami musica?» urlò con un tono di sfottìo per provocarla. Era una domanda abituale perché per Claudia era un reperto qualunque canzone avesse più di dieci anni e Laura ascoltava solo quelle. Ma dal piano sotto saliva anche il profumo indecifrabile di qualche cosa che stava risuscitando dentro il forno a micro-onde.
Si massaggiò le braccia e le gambe, con una spazzola pettinò i capelli, s’infilò i pantaloni e indossò un maglione in felpa. Ancora intontita scese la scala. Sul tavolo in cucina due tovagliette di paglia, tovaglioli e bicchieri di carta, posate di plastica: si fa prima a sparecchiare. Laura, in hot-pants e t-shirt, tagliava una improbabile lasagna all’italiana. Si sedette accavallando le gambe, indugiò soffiando sul piatto fumante che Laura le aveva messo davanti accompagnando il gesto con una domanda: «Hai il culo girato? Da quando sei tornata non hai ancora spiaccicato una parola. O ti sei offesa per quello che ho detto prima? Se è così ti chiedo scusa, perché lo sai che io…»
Claudia