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Dalla parte degli ultimi: Lia Varesio e la Bartolomeo & C.
Dalla parte degli ultimi: Lia Varesio e la Bartolomeo & C.
Dalla parte degli ultimi: Lia Varesio e la Bartolomeo & C.
Ebook202 pages2 hours

Dalla parte degli ultimi: Lia Varesio e la Bartolomeo & C.

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Lia Varesio: una piccola gracile donna dalla volontà di ferro che, con i volontari dell’associazione Bartolomeo & C. di cui è stata promotrice, si è prodigata, a Torino, per gli “ultimi”, barboni, prostitute, tossicodipendenti, ex carcerati. Diego Novelli, il sindaco che la volle responsabile dell’Ufficio che doveva occuparsi in Comune dei senza fissa dimora, così la ricorda nell’Introduzione: «Tutto questo a Torino è stato possibile grazie all’“Angelo dei barboni”, una categoria di persone a cui Lia ha dedicato la vita».
LanguageItaliano
Release dateDec 28, 2016
ISBN9788865791264
Dalla parte degli ultimi: Lia Varesio e la Bartolomeo & C.

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    Dalla parte degli ultimi - Autori vari

    978-88-6579-126-4

    Indice

    Introduzione, di Diego Novelli

    1. La vita di Lia

    2. Pensieri e scritti di Lia

    3. Interviste e testimonianze

    4. Storie di utenti

    5. L’associazione

    «Non siamo più capaci di RACCONTARCI; abbiamo troppa fretta e non riusciamo a sentire i gemiti di chi soffre. Passiamo accanto alla gente e non ci accorgiamo di loro, dei loro bisogni. Devo dire che ho trovato tanta solidarietà attorno a me, ma ho scoperto anche tanta solitudine e disperazione. A volte è sufficiente una parola, un gesto, un sorriso e le persone possono guarire psicologicamente e uscire dal loro autismo. Ed è proprio questo che mi stimola ad andare avanti e continuare a lavorare per uomini e donne della città che non hanno ancora trovato spazio, cure, dignità attenzione, giustizia e solidarietà».

    Lia Varesio

    Introduzione

    Il ricordo di Diego Novelli

    Sin da bambino non ho mai creduto che ci fosse un’Ombra con le ali alle mie spalle, che mi inseguiva giorno e notte, malgrado la ferrea educazione religiosa impartitami da mia madre Terziaria Francescana. Credevo nel Padre Eterno e di conseguenza sono cresciuto con il «timor di Dio». La Madonna e i Santi erano, per me, gli addetti ai miracoli; ma la storia del babau con le ali splendenti, non mi intimoriva. Gli angeli erano un’invenzione per meglio controllare la mia vivacità, l’irruente modo di comportamento che avevo per vivere la timidezza. Ero considerato un bambino buono, diligente a scuola e tranquillo a casa, ma molto curioso, troppo insistente nel voler sapere anche le cose che non mi spiegavo, ma in cui bisognava credere. Così facendo infastidivo il prossimo. Perché? Perché? Perché? Era un continuo domandare e non accettavo risposte sbrigative.

    Quando per strada incontravo un mendicante, i miei interrogativi s’infittivano. Non mi davo ragione che tante persone, uomini e donne, stazionassero agli angoli della strada allungando una mano, oppure porgendo uno sdrucito cappello, in attesa che qualche moneta ci cascasse dentro. Ma c’erano anche tanti bambini che s’industriavano in quel singolare lavoro. Il loro abbandono era per me la riprova che gli angeli non esistevano altrimenti, pensavo nella mia infantile ingenuità, sarebbero intervenuti. La grande lezione della carità l’ho appresa nella più tenera età e m’indispettivo quando mia madre aveva esaurito tutte le monetine che teneva in un piccolo borsellino.

    Avrei voluto essere un ricco signore, molto generoso, capace di aiutare tutta quella gente che mendicava per le vie della città. Avrei voluto essere quel personaggio che ho poi incontrato nell’indimenticabile Miracolo a Milano di Zavattini e De Sica, l’impellicciato Cavalier Mobbi che nel finale del film soddisfa tutte le richieste di un’interminabile fila di barboni che poi a cavallo di una scopa volano, come tanti angeli, sul cielo della storica piazza del Duomo, con alla testa «Totò il buono».

    Dopo tanti anni un angelo vero l’ho incontrato una notte nel grande atrio della stazione di Porta Nuova a Torino. Stavo facendo con il regista Ettore Scola un sopralluogo da me indicato nella sceneggiatura del film Trevico - Torino, quando m’imbattei con una piccola donna che parlava vivacemente con una voluminosa prostituta di nome Enza, regina di quello spazio, affollato di disperati senza fissa dimora. Pochi anni dopo quella minuscola creatura me la sono ritrovata davanti al mio tavolo di lavoro, in Municipio. Aveva tanto insistito per parlare con il sindaco, senza specificare alla mia segreteria quale era il motivo dell’incontro.

    Con voce ferma e sicura si presentò così: «Mi chiamo Lia Varesio. Si ricorda di me? Quella notte, quando lei faceva il giornalista venne con Scola per girare un film…». Come potevo non ricordare quella corte dei miracoli animata da tanti disgraziati.

    Lia, parlando velocemente al ritmo di una mitragliatrice, mi illustrò il suo concetto. Lei di giorno lavorava alla Fiat come assistente sociale e al calar delle tenebre, si occupava di emarginati che la regal Torino ignorava. Anche quelli, mi spiegò, erano miei concittadini e io, come sindaco, non potevo ignorarli. Infatti, l’assessorato, un tempo chiamato Assistenza e Beneficenza diventato con la mia amministrazione Servizi sociali, aveva cambiato nome, ma quella porzione di disperata miseria, la ignorava.

    A bruciapelo proposi a Lia se era disposta a lavorare a tempo pieno per quelli che lei chiamava «i miei clienti». Non perse tempo per riflettere sulla mia proposta, mi disse subito di sì, però non poteva rimanere dipendente dalla Fiat. Nella stessa settimana portavo in Giunta la proposta di istruire un apposito ufficio municipale per i senza fissa dimora, diretto da un’assistente sociale di nome Lia Varesio, che era disposta a licenziarsi dalla Fiat per diventare dipendente comunale. Ma la legge, allora, stabiliva che le assunzioni in Municipio dovessero avvenire attraverso un regolare concorso.

    Come superare l’ostacolo? Convocai la Conferenza dei capigruppo, per avere l’unanimità del Consiglio comunale. Poi parlai con il prefetto, il dottor Antonio Salerno, persona molto sensibile ai problemi sociali, affinché la Giunta provinciale amministrativa, da lui presieduta, preposta all’esame di tutti gli atti degli enti locali, non ostacolasse l’operazione. Inventammo una deliberazione con la quale «per chiamata» veniva assunta, senza regolare concorso, la signorina Lia Varesio con l’incarico di responsabile dell’ufficio che si doveva occupare dei senza fissa dimora. Anticipavamo di ben vent’anni ciò che la legge Bassanini avrebbe consentito per le assunzioni dirette, sia pure con contratto a tempo determinato.

    Lia è morta nel 2008. Aveva sessantadue anni. Aveva un fisico gracile, sgraziato, ma una volontà di ferro. Era in grado di dominare le situazioni più difficili, avendo a che fare con persone a volte esasperate e violente, gente scappata di casa o dimessa dagli ospedali psichiatrici, tossicodipendenti, ex carcerati che vivono per la strada.

    Nel 1980 un barbone le era morto praticamente fra le braccia di freddo e di stenti nel centro storico di Torino. Si chiamava Bartolomeo. E fu questo il nome che diede all’associazione da lei creata. Raccontava Lia: «È stata questa l’occasione che ci ha fatto maturare la scelta di offrire compagnia e accoglienza a chi ne ha bisogno. Sono molte le tragiche realtà della vita metropolitana con cui veniamo a contatto».

    Lia, con i suoi volontari della Bartolomeo & C., ha sempre fatto la ronda nei pressi della stazione, sulle panchine dei viali e dei parchi, vicino ai ponti del Po, ma soprattutto attraverso una struttura, prima sistemata all’interno di Porta Nuova e successivamente trasferita nella vicina via Camerana.

    Altra caratteristica della sua attività era favorire forme di autopromozione, con periodiche cene con gli amici barboni, le gite, l’individuazione di progetti di lavoro da affidare a loro. Oltre dieci anni prima della sua scomparsa aveva aperto una casa di accoglienza chiamata Il Bivacco.

    A proposito delle cene collettive, voglio ricordare che la prima di queste la organizzammo assieme, quando ero ancora sindaco. Non ricordo l’anno, ma era la vigilia di Natale. D’intesa con i padri Camilliani, la loro chiesa di via Santa Teresa fu sgomberata di tutte le panche con gli inginocchiatoi, sostituite da lunghi tavoli dove fu servito a un centinaio di barboni il cenone della festa più bella dell’anno.

    Sui clochard aveva un fortissimo carisma e nei loro confronti non ha mai mostrato atteggiamenti pietistici e di compatimento.

    L’Associazione Bartolomeo & C. è rimasta in tutti questi anni, dopo la sua morte, in prima linea per accogliere, ascoltare, dare un conforto e possibilmente un tetto a questo campione di umanità: un soccorso per coloro che vivono emarginati dalla nostra società. Tutto questo a Torino è stato possibile grazie all’«Angelo dei barboni», una categoria di persone a cui Lia ha dedicato la vita.

    1. La vita di Lia

    Una vita dedicata agli ultimi

    Lia Varesio nasce a Torino il 22 agosto 1945 da Camillo e Mariuccia, una famiglia di forti tradizioni cattoliche. Il padre Camillo, presidente della San Vincenzo de Paoli, la coinvolge ancora bambina nelle attività di aiuto ai più bisognosi. Durante la giovinezza la sua attenzione agli altri si svolge nell’ambito della parrocchia del Sacro Cuore di Gesù. Negli anni Sessanta inizia a lavorare in Fiat, come assistente sociale, occupandosi dei bisognosi che si rivolgono alla Fondazione Agnelli.

    Nel 1965 inizia l’apostolato nel Centro volontari sofferenza della Legio Mariae e si consacra nell’Ordine secolare francescano Santa Maria degli Angeli.

    Nel 1971 fonda un gruppo giovanile missionario, con lo scopo di essere missionari per i vicini e i lontani (terzo mondo e mondo di casa nostra).

    Proprio una mattina andando al lavoro le accade un episodio che le cambierà la vita:

    Mentre camminavo per strada, mi sono imbattuta in una donna scalza, scarmigliata, con mani e piedi laccati di rosso, che urlava. Sono rimasta sconvolta, non tanto perché lei urlava ma perché la gente scappava via terrorizzata. Mi sono chiesta: «Scappi anche tu?» e mi sono data la risposta. Mi sono avvicinata e le ho chiesto: «Perché gridi cosi?». La risposta è stata: «Grido al mondo la mia disperazione ma nessuno si ferma». La salutai: «Sono Lia». Mi disse che si chiamava Esmeralda, era uscita dal manicomio e nessuno si era preso cura di lei; erano tre giorni che non mangiava. Vicino c’era un bar che conoscevo perché ci andavo ogni tanto, invece di recarmi al lavoro ho telefonato in Fiat e mi sono presa un giorno di ferie. Quando ci siamo sedute al tavolo del bar la donna ha cominciato a divorare cornetti e cappuccini, intanto mi ha raccontato la sua storia. Era stata in manicomio, adesso era per strada, andava a mangiare al Cottolengo e dormiva alla stazione. Io l’accompagnai al Cottolengo e poi a Porta Nuova dove mi fece incontrare gli altri, i suoi amici, gli abitanti della stazione.

    Da quel giorno nasce ancora più forte in Lia il desiderio di conoscere queste persone, di parlare con loro, di capire, di aiutare. Ne parla al fratello John e a un gruppo di amici e con loro prende l’abitudine di andare a trovare queste persone, portando bevande calde, cibo, coperte, all’inizio solo a Porta Nuova, poi anche nelle altre stazioni, infine le ronde in giro per la città. Una sera d’inverno manca all’appello uno dei soliti, Bartolomeo. Lo cercano nei posti consueti, non lo trovano. Decidono di andare a vedere nel centro storico, fra i ruderi di una vecchia casa. Non lo trovano neanche lì, stanno per andarsene quando Lia inciampa in un mucchio di stracci, quando si rialza si accorge che da quel mucchio di stracci spuntano un piede e una gamba. È Bartolomeo, morto di freddo e di stenti nel cuore della città. Da quella sera si fa pressante la necessità di continuare il cammino intrapreso e di lì a poco viene fondata l’associazione Bartolomeo & C.

    Il sindaco Diego Novelli, conquistato dalla determinazione di Lia, la chiama a lavorare in Comune per aprire il primo ufficio comunale in Italia, dedicato ai Senza Fissa Dimora.

    Dal 1980 al 1990 lavora anche nelle carceri di corso Vittorio Emanuele e in seguito nella nuova casa circondariale delle Vallette come assistente volontaria penitenziaria.

    In quegli anni frequenta la Scuola di cultura religiosa diocesana. Ed è anche membro della Commissione diocesana per la Sanità e l’Assistenza.

    Nel 1994 va in pensione e inizia a dedicarsi a tempo pieno alla Bartolomeo & C.

    Nel 1995 viene aperto in via Saluzzo il dormitorio della Bartolomeo & C., la sede si allarga, il numero degli assistiti cresce. Ogni anno più di 5.000 persone si rivolgono alla Bartolomeo & C. per la ricerca di un letto, un pasto, un vestito, un supporto.

    Nel 1994 le viene assegnato il «Lions d’oro» dai Lions Club di Torino: «Per l’attività di soccorso materiale e spirituale che sviluppa in Torino, operando per le strade a favore di un’umanità emarginata, porgendo ai barboni, agli alcolisti e ai tossicodipendenti l’ultima speranza per riemergere da una vita disperata».

    Nel 1996 il premio «Bruno Caccia» del Rotary International: «Per la dedizione dimostrata con pluriennale opera, faticosa e pericolosa, di assistenza verso i barboni, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i malati psichici e gli emarginati in genere».

    Nel 1997 il «Premio Bogianen» dalla Camera di Commercio: «Per la generosità e l’entusiasmo ampiamente manifestati nel realizzare interventi di sostegno per particolari categorie di persone in difficoltà».

    Nel 1999 il premio «Donna 1999 Anlaids».

    Nel 2000 il premio «Università Popolare di Torino».

    Nel 2001 il premio «Artigiano della pace».

    Nel 2005 il titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana conferitole dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi: «Per l’opera sociale di aiuto ai poveri».

    Dal 2005 le sue condizioni di salute sono sempre più precarie, i ricoveri ospedalieri sempre più frequenti, ma la sua attenzione resta sempre rivolta agli altri.

    L’11 marzo 2008, circondata dall’affetto del fratello John e degli amici, muore all’ospedale Mauriziano, mentre risuonano nelle orecchie di tutti le parole che, tante volte, lei aveva pronunciato:

    Non dobbiamo fare da spettatori ma chiederci cosa stiamo facendo concretamente per gli altri. Se il nostro fratello non ce la fa da solo a portare la croce noi abbiamo il dovere di aiutarlo. È ora di smetterla di essere spettatori. Occorre diventare protagonisti attraverso il nostro impegno concreto e quotidiano.

    2. Pensieri e scritti di Lia

    S.O.S. da un fratello in bisogno (1975)

    Dalla Fiat ore17.01. Mi chiamano al telefono mentre sto per uscire. È G. P., uno dei casi che sto seguendo da qualche mese. È in preda ai sedativi, è angosciato, intontito, straparla, chiede aiuto, sente che non ce la fa più e si decide a ricoverarsi.

    Gli prometto che farò qualcosa per lui, non so ancora di preciso cosa, comunque bisogna dargli fiducia e speranza. Esco e corro a casa sua. Lo trovo in uno stato spaventoso, la

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