Run Away "Fuggire via"
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Run Away "Fuggire via" - Serena Baldoni
Away
Run Away
Fuggire via
Racconti in lettere
Serena Baldoni.
Run Away Fuggire via
Lettere romanzate
Come sono arrivata a questo punto?
E, soprattutto, come ho fatto a non rendermene conto prima?
La vita che avevo vissuto è svanita,
lontana per sempre.
Prima Lettera
Introduzione
I ricordi sono offuscati da qui, due anni sono trascorsi, in cui sento d’aver perduto il mondo, il cielo terso d’azzurro e i miei affetti, la libertà di respirare senza il terrore di far rumore e la più completa e totale libertà.
Ho perduto i sogni e il sorriso, sulle mie labbra non è rimasta che una perenne incurvatura imbronciata che punta verso il basso, verso la punta delle mie scarpe. Potrei persino rimanere qui per sempre o decidere di morire, mentre per fuggire via mi occorrono energie, forze delle quali mi sento priva in questo momento, in questo buio a chiavistello che m’avvolge.
Come sono arrivata a farmi del male in questo modo? A lasciare che un uomo mi portasse via tutto? Mio Dio, se potessi dare la colpa a un Dio che non vede e provvede su di noi, lo farei, ma non sarebbe colpa sua, soltanto mia.
Che cosa qui e adesso? Nient’altro che una prigioniera, una vittima che ha perduto le forze per ribellarsi.
Gayle Robins
Seconda Lettera
Ciò che persiste di me è soltanto il mio nome, Gayle Robins, su un pezzo di carta inciso all’anagrafe della mia città natale di Seattle, dove non vivo più.
Un tempo, in quella cittadina, nutrivo delle ambizioni, coltivavo dei sogni su di un terrazzo che affacciava nell’asfalto sotto di me, ma sfiorava il cielo alzando gli occhi. In quell’istante, la bambina infante che era in me, credeva di poter raggiungere qualsiasi cosa, soltanto allungando le dita verso la luna.
In fondo l’uomo aveva messo piede sul pianeta lunare, perché mai io non sarei riuscita a sfiorarla volendo? Desiderandolo con tutta me stessa? Sono eterni i sogni dei bambini, nivei di dolcezza vergine e incontaminata, fino a quando la realtà del mondo adulto non sputa loro in faccia la realtà, rendendo vani e lontani i momenti di spensieratezza. Ma agli stessi momenti sento di dovermi aggrappare nel torbido di questa nuova realtà.
Washington mi era sembrata una buona idea, fra le tante errate, il luogo ideale, la capitale delle ambizioni di una design che non ha mai avuto il coraggio di tentare la sua strada.
Avevo 22 anni quando ho rinunciato a tentare, dopo una lunga serie di colloqui andati a puttane, letteralmente, a causa della mia insicurezza. Ero una ragazza timida e impacciata, l’immagine riflessa di me allo specchio era quella di una donna ancora ingenua e fragile che si forzava di presentarsi come matura, sicura di sé e vissuta. In realtà non lo sono mai stata, dal verde dei miei occhi scrutavo praterie, ma la mia dolcezza mi ha condotto su viottoli oscuri. Celavo le mie paure, le nascondevo perché ogni qualvolta che avevo lasciato entrare qualcuno nei miei tormenti lo avevo perduto, tutte le volte.
Che cosa mi era successo? Ero fuggita da una Seattle che pesava sui miei ricordi d’adolescente, al punto dal desiderare una nuova realtà, seppur non molto distante, dove ricominciare da capo.
Verso i miei 12 anni avevo subito il normale processo di sviluppo che l’adolescenza prepara a tutti i ragazzi e a tutte le ragazze. Ero sbocciata in un corpo imperfetto, ma non mi sarei potuta lamentare per le grazie in dono ricevute.
Ho sempre portato i capelli lunghi, oltre le natiche del sedere, come una coperta di Linus, la mia e sola unica coperta dal castano ambrato e ondulato sulle punte.
Ho trascorso 4 anni con l’immobilità delle mie gambe a seguito di un incidente autostradale, dove mio padre guidava troppo stanco per non cedere alla pesantezza delle palpebre, al ritorno dall’ennesimo viaggio come elicotterista presso l’esercito onde seguire la sua vocazione e assicurare una dignitosa disponibilità economica alla famiglia.
Mia madre e mia sorella Kristen erano state le prime ad accorrere in ospedale.
Mio padre ne era uscito indenne, l’auto si era schiantata contro un albero