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Robot 79
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Robot 79

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RIVISTA (192 pagine) - Alastair Reynolds - il premio Hugo di Hao Jingfang - Diego Lama - Ilaria Tuti - Samuele Nava - Manuel Piredda - Intervista con Alastair Reynolds - Futurians - Cory Doctorow

Nei futuri immaginati dalla fantascienza, per ovvi motivi, saremo tutti più o meno americani. Ma forse le cose non andranno proprio così: forse la cultura dominante, tra un secolo o due, non sarà quella occidentale ma quella cinese. Non saremo lì per scoprirlo, intanto però cominciamo a scoprire la fantascienza cinese, che diventa ogni anno più interessante e importante. E dopo aver pubblicato sofisticati autori cino-americani come Ted Chiang e Ken Liu, "Robot" può proporvi adesso un 'autrice davvero cinese, HAO JINGFANG, vincitrice del Premio Hugo 2016 col racconto 굇쑴粮딸, ovvero "Pechino pieghevole". Scrittori lontani, scrittori vicini, come ALASTAIR REYNOLDS che è stato con noi a Milano a Stranimondi e di cui proponiamo lo squisito "La figlia del fabbricante di slitte". E squisito è il poker di autori italiani di questo numero, DIEGO LAMA, SAMUELE NAVA, ILARIA TUTI e MANUEL PIREDDA. Poi parliamo di Luna, di scrittori socialisti, e di un'attività così quotidiana per chi legge fantascienza: prevedere il futuro.

Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più prestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateDec 22, 2016
ISBN9788825400564
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    Robot 79 - Silvio Sosio

    Jingfang

    EDITORIALE

    La narrativa del futuro

    Silvio Sosio

    Di recente sono stato ospite di un evento che parlava di futuro. Si trattava di un evento promozionale per una azienda che si occupa di innovazione; l’occasione era la premiazione di un concorso col quale si era chiesto al pubblico di proporre idee innovative. Per la cronaca, il vincitore ha proposto dei braccialetti che permettono di mandarsi messaggi criptati; altre idee arrivate proponevano un biberon che si scalda da solo quando sente il bambino piangere o un assorbente che avvisa in anticipo sull’arrivo dell’eumenorrea. Sì, a noi vengono in mente cose diverse quando pensiamo a futuro o innovazione, ma forse siamo sbagliati noi.

    Comunque, la cosa è stata introdotta da un panel su futuro e fantascienza: eravamo in tre ospiti a parlare, l’astronauta Umberto Guidoni, il geologo Mario Tozzi (entrambi hanno ammesso di aver letto molta fantascienza) e il vostro, che si è autodefinito per l’occasione fantascientologo. L’argomento è stato per forza di cose il rapporto della fantascienza con il futuro: quando lo ha predetto, quando ha sbagliato di brutto.

    Naturalmente ho cominciato mettendo le mani avanti: non è che gli scrittori di fantascienza si pongano l’obiettivo di predire il futuro. Ma certo hanno una particolare sensibilità che permette loro di osservare il presente, le tendenze della società e della tecnologia, e quindi costruire visioni del futuro che spesso si rivelano azzeccate.

    Nel documentarmi sull’argomento per esempio ho scoperto che Mark Twain – il suo apporto alla fantascienza è scarsamente considerato, andrebbe rivalutato – nel 1898 scrisse un racconto di fantascienza intitolato From The ‘London Times’ in 1904 nel quale introduceva un aggeggio chiamato telelectroscope, un telefono che permetteva a tutti di comunicare con tutti a qualunque distanza e in continuazione, condividendo idee, opinioni. In sostanza aveva inventato i social network prima dell’invenzione della radio.

    Jules Verne è stato uno degli autori più predittivi: come uno scrittore di fantascienza moderno di documentava e amava riempire i suoi scritti di dettagli tecnici, mentre H.G. Wells, che comunque ha al suo attivo l’anticipazione della bomba atomica, era più orientato all’analisi sociale e le sue invenzioni erano più metaforiche che anticipatrici.

    Uno dei pochi scrittori che davvero mirava a predire il futuro della tecnologia era Hugo Gernsback; peccato solo che scrivesse davvero male. Ma la sua foto con sugli occhi un aggeggio che assomiglia dannatamente a un visore Oculus Rift ha qualcosa di impressionante.

    Quando si parla di previsioni della fantascienza spesso si citano i comunicatori di Star Trek confrontandoli con i telefonini a cozza, ormai passati di moda ma fino a non molti anni fa simbolo dei tempi. E qui si entra in un altro discorso interessante: perché la fantascienza non si è limitata a predire il futuro, ma lo ha in una certa misura anche indirizzato. Il famoso telefono Motorola Startac non somigliava a un comunicatore di Star Trek per caso, ma perché chi lo aveva progettato aveva preso il comunicatore di Star Trek come modello (e del resto, il nome stesso non è casuale).

    La fantascienza è stata uno dei generi più popolari della narrativa, dei fumetti, della tv e del cinema, per diversi decenni sin dagli anni Quaranta, e generazioni di ingegneri e scienziati sono stati influenzati dalle sue idee, spinti verso la scienza proprio dalla _fanta_scienza. Non arrivo a dire che non sarebbe esistita la NASA senza la fantascienza, ma sarebbe stata la stessa, senza quella legione di appassionati che vedevano la conquista dello spazio non come una gara di velocità con i rivali russi ma come l’occasione storica di liberare la specie umana dalla prigione del suo pianeta lanciandola verso le stelle?

    La stessa Samantha Cristoforetti, quando è stata a Milano qualche mese fa a una mia domanda ha ammesso che la fantascienza è stata fondamentale per farla appassionare alla scienza. Sarebbe arrivata dov’è arrivata se invece che di romanzi di Asimov o Clarke fosse stata appassionata di libri fantasy o di gialli?

    Il rapporto tra ricerca e innovazione da una parte e fantascienza dall’altra è cresciuto negli Stati Uniti come un circolo virtuoso. La fantascienza stessa è stata sponsorizzata dal governo, che negli anni Cinquanta e Sessanta finanziava film spaziali proprio per far crescere nell’opinione pubblica l’interesse per la scienza e lo spazio, consentendo così gli enormi investimenti che avrebbero dato vita ai programmi Mercury e Apollo.

    Nonostante i comunicatori di Star Trek e i tablet anticipati in vari modi da libri, film e telefilm, la vera rivoluzione del ventesimo secolo resta però la meno prevista dalla fantascienza: la rete, i computer in ogni casa, in ogni tasca. Anche se Arthur C. Clarke aveva più o meno previsto tutto, si trova facilmente su YouTube questa intervista in cui lo scrittore e scienziato britannico nel 1974 racconta per filo e per segno come sarà e come sarà usata la rete, anticipa l’e-commerce e tante altre cose. Ma non scrisse mai romanzi che approfondissero questo argomento, interessato com’era ad altre cose, allo spazio, agli altri mondi.

    È facile oggi riconoscere cose simili a internet, al web o agli smartphone in opere del passato. La Guida di Douglas Adams, The Shockwave Rider di John Brunner, La luna è una severa maestra di Robert Heinlein, A Logic Named Joe di Murray Leinster del 1946 fino al citato racconto di Twain. Ma è chiaro che nessuno ha previsto come avrebbero cambiato il mondo, come sarebbero stati pervasivi, come avrebbero cambiato il modo di comunicare e di fare le cose. Per gli scrittori, anche quelli più esperti di tecnologia come Asimov, i computer erano tecnologia riservata a tecnici in camice bianco; mentre magari computer chissà perché non riconosciuti come tali raggiungevano addirittura l’autocoscienza chiusi nelle teste metalliche dei suoi robot.

    Forse c’è anche un problema di spettacolarizzazione, di fascino narrativo. Così, mentre si possono costruire indubbiamente storie affascinanti nella realtà virtuale immaginata da Neal Stephenson in Snow Crash – che avrebbe avuto riscontro nella realtà con Second Life – più difficile sarebbe stato affascinare il lettore a una storia sulla consultazione di Wikipedia o sulla condivisione di foto di gattini. Eppure, è evidente che l’impatto dell’informatica e della telematica sulla vita quotidiana è di diversi ordini di grandezza superiore a quello del volo spaziale.

    Il quale invece una volta diventato realtà si è rivelato molto più noioso di quanto era stato immaginato: niente avventure saltando da un pianeta all’altro, salvando donzelle dalle pelle dorata poco vestite, ma calcoli su calcoli, abitacoli angusti, tute ingombranti, paesaggi alieni spogli e ostili.

    Oltre alle auto elettriche che si guidano da sole, facile predizione stravista e che rivoluzionerà le nostre strade nel prossimo decennio, oggi la grande frontiera è quella dell’intelligenza artificiale. È il settore nel quale stanno investendo grandi capitali un po’ tutti i big e meno big dell’informatica, un argomento uscito dalle aule delle università e dal fumoso regno della teoria per occupare i ricchi laboratori delle multinazionali dei dati.

    Si sente usare il termine intelligenza artificiale per qualsiasi programma faccia un’analisi un po’ più sofisticata del normale sui dati che ha a disposizione, è vero. Ma è anche vero che per altre strade ci stiamo avviando rapidamente allo sviluppo di costrutti software vicini a superare il test di Turing. Lo scopo dichiarato è l’emulazione del dialogo umano, per arrivare ad avere sistemi in grado di capire le nostre richieste espresse a voce (o in un messaggio, o in una mail) e di dare risposte sensate, magari anche spiritose.

    Qui la fantascienza di predizioni ne ha fatte tante. E non di rado cercando di avvisarci che costruire una macchina più intelligente di noi forse non è esattamente una buona idea.

    Nel 1954 Fredric Brown con un capolavoro di poche righe aveva detto tutto. Quando installerete una nuova versione di Siri e chiederete al vostro iPhone se Dio esiste, non dite che non eravate stati avvertiti se risponderà adesso sì. [R]

    Illustrazione di Matteo Di Gregorio

    NARRATIVA

    La figlia del fabbricante di slitte

    Alastair Reynolds

    Traduzione di Marco Crosa

    Pur avendo una formazione scientifica – è un astronomo che ha lavorato per anni all’Agenzia Spaziale Europea a Noordwijk, in Olanda – il gallese Alastair Reynolds (Barry, 1966) predilige scrivere space opera pervase di temi filosofici e religiosi.

    Di queste, tre, notevoli innanzitutto per mole, sono apparse su Urania: Rivelazione (2 voll., nn. 1550 e 1553), Redemption Ark (Urania Jumbo 41) e Absolution Gap (Urania Jumbo 42), mentre una quarta, Il prefetto, è apparsa presso Fanucci.

    Le edizioni Delos Books hanno invece pubblicato un testo più breve, L’ultimo cosmonauta (Odissea Fantascienza 57). Per una panoramica completa: http://www.alastairreynolds.com/ (FL)

    Si fermò in vista del Ponte dei Venti Archi, posando a terra le bisacce per riposare le mani dal peso delle due teste di maiale e dei quaranta pence di candele in cera d’api. Mentre sostava, Kathrin si sistemò il laccio del cappello, piegando la tesa per ripararsi la fronte dal sole. Sebbene l’aria fosse ancora fresca, la luce palesava una nuova, energica qualità che faceva risaltare le sue lentiggini. Kathrin fece per rimettersi in marcia, ma una strana tensione in gola la fece esitare. Aveva escluso il ponte dai propri pensieri fino a quel momento, ma adesso la sua presenza non poteva più essere ignorata. A meno che non lo attraversasse, avrebbe dovuto affrontare la lunga scarpinata fino al Ponte Nuovo, una deviazione che l’avrebbe costretta a rimanere per strada fino a molto dopo il tramonto.

    – Ehi, figlia del fabbricante di slitte! – la chiamò una voce rauca dal lato opposto della strada.

    Kathrin si girò bruscamente a quel suono. Un uomo in grembiule stava su una soglia, asciugandosi le mani. Aveva una faccia da scimmia, dall’abbronzatura di un rosso bilioso, coi basettoni bianchi e una tonsura rosea e luccicante.

    – Sei la figlia di Brendan Lynch, giusto?

    Lei annuì, mite, ma si morse il labbro invece di rispondere.

    – Lo immaginavo. Non sono uno che dimentica un bel faccino, io. – L’uomo le fece cenno di avvicinarsi alla soglia della sua officina. – Vieni qui, ragazza. Ho qualcosa per tuo padre.

    – Signore?

    – Speravo di andarlo a trovare la settimana scorsa, ma il lavoro mi ha trattenuto qui. – Piegò la testa verso l’insegna di legno dipinto appesa sopra la porta. – Sono Peter Rigby, il carraio. Ti chiami Kathrin, vero?

    – Devo proprio andare, signore…

    – E a tuo padre serve legno buono, che io ho in abbondanza. Vieni dentro un attimo, invece di startene lì impalata come un cucciolo affamato. – Gridò qualcosa sopra la spalla, dicendo alla moglie di mettere l’acqua sul fuoco.

    Riluttante, Kathrin raccolse le bisacce e seguì Peter nella sua officina. Batté le palpebre nell’aria polverosa e si tolse il cappello. Il pavimento era coperto di segatura, fine e dorata in alcuni punti, secca e attorcigliata in altri, mentre un’inebriante miscela di odori di resine e colla riempiva l’aria. Alcuni paioli fumavano sul fuoco. Il legno veniva passato al vapore per curvarlo, o per raddrizzarlo dove era curvo. Molti utensili affilati luccicavano appesi a un muro, alcuni con lame di metallo celeste. Diverse ruote, per lo più in attesa dei raggi o del battistrada di ferro, stavano addossate una all’altra. Se le ruote fossero state slitte, sarebbe potuta essere l’officina di suo padre, ai tempi in cui c’era più lavoro.

    Peter indicò a Kathrin uno sgabello vuoto accanto a uno dei banchi da lavoro. – Siediti qui e riposati un po’ le gambe. Mary può darti un po’ di pane e formaggio. O pane e prosciutto, se preferisci.

    – Siete molto gentile, signore, ma la vedova Grayling di solito mi dà qualcosa da mangiare quando vado a casa sua.

    Peter alzò un sopracciglio canuto. Stava accanto al banco coi pollici infilati nella cintura del grembiule, la pancia sporgente come se ne andasse tacitamente fiero. – Non sapevo che facessi visita alla strega.

    – Compra due teste di maiale una volta al mese, e le sue candele. Le compra solo dallo Scudo, mai dalla Città. Paga le teste con un anno di anticipo, ventiquattro sterline tonde.

    – E non hai paura di lei?

    – Non ne ho motivo.

    – C’è gente che non sarebbe d’accordo.

    Ricordando una cosa che le aveva raccontato suo padre, Kathrin disse: – Ci sono persone che dicono che lo Sceriffo possa volare, o che una volta c’era un ponte che ammiccava ai viaggiatori come un occhio, o una strada di ferro che arrivava fino a Londra. Mio padre dice che non c’è ragione per cui qualcuno debba aver paura della vedova Grayling.

    – Nessuna paura che ti trasformi in un rospo, allora?

    – Lei cura le persone, non lancia incantesimi su di loro.

    – Quando ne ha voglia. Da quel che ho sentito, è altrettanto probabile che scacci via i malati e i bisognosi.

    – Se ne aiuta qualcuno, non è meglio di niente?

    – Suppongo di sì. – Intuiva che Peter non era d’accordo, ma che non era arrabbiato con lei perché aveva ribattuto. – Che dice tuo padre delle tue visite alla strega, comunque?

    – Non se ne dà pensiero.

    – No? – chiese Peter, interessato.

    – Quando era piccolo, mio padre si tagliò un braccio con un pezzo di metallo celeste che aveva trovato nella neve. Andò dalla vedova Grayling e lei fece guarire il braccio legandoci attorno un’anguilla. E non chiese alcun compenso a parte il metallo celeste.

    – Tuo padre crede ancora che un’anguilla possa curare una ferita?

    – Dice che crederà a qualunque cosa, se funziona.

    – Un uomo saggio, quel Brendan, un uomo che la pensa come me. Il che mi ricorda… – Peter andò a un altro bancone, fermandosi a mescolare uno dei paioli ribollenti prima di raccogliere una bracciata di rami segati. – Sono solo scarti – spiegò. – Ma è buon legno di faggio stagionato, che non si deformerà mai. A me non serve, ma sono sicuro che tuo padre ne saprà fare buon uso. Digli che ce n’è dell’altro, se vuole venirlo a prendere.

    – Non ho soldi per il legno.

    – Non ne voglio. Tuo padre è sempre stato generoso con me, nei miei anni magri. – Peter si grattò dietro l’orecchio. – È giusto così, per come la vedo io.

    – Vi ringrazio – disse dubbiosa Kathrin. – Ma non penso di riuscire a portare quel legno fino a casa.

    – Non anche con due teste di maiale. Ma puoi ripassare quando le avrai date alla vedova Grayling.

    – Solo che non attraverserò di nuovo il fiume – disse Kathrin. – Dopo il Ponte dei Venti Archi, tornerò dalla riva destra e prenderò il traghetto a Jarrow.

    Peter sembrò confuso. – Perché riempire le tasche del traghettatore quando puoi attraversare il ponte gratis?

    Kathrin scrollò le spalle con disinvoltura. – Devo far visita a qualcuno sulla via di Jarrow, per regolare un conto.

    – Allora sarà meglio metterti in cammino subito, immagino – disse Peter.

    Mary entrò tutta affannata, portando un piccolo vassoio di legno carico di pane e prosciutto. Era rossa e tonda come suo marito, solo più bassa. Cogliendo in un attimo il nocciolo della conversazione, disse: – Non essere sciocco, Peter. La ragazza non può portare tutto quel legno e le bisacce. Se non ripassa di qui, porterà un messaggio a suo padre. Dirgli che qui abbiamo del legno per lui, se lo vuole. – Scosse la testa rivolta a Kathrin, solidale. – Per chi ti ha preso, per un mulo da soma?

    – Dirò a mio padre del legno – disse lei.

    – Faggio stagionato – disse enfatico Peter. – Ricordalo.

    – Mi ricorderò.

    Mary la incoraggiò a prendere un po’ di pane e carne, nonostante Kathrin accennasse di nuovo che si aspettava di mangiare dalla vedova Grayling. – Prendili comunque – disse Mary. – Non si sa mai quanta fame potresti avere sulla strada di casa. Sei sicura di non tornare da questa parte?

    – Meglio di no – disse Kathrin.

    Dopo un breve silenzio imbarazzato, Peter disse: – C’è un’altra cosa che volevo dire a tuo padre. Potresti fargli sapere che in fondo quest’anno non mi serve una slitta nuova?

    – Peter – disse Mary. – Avevi promesso.

    – Avevo detto che probabilmente mi sarebbe servita. Mi sbagliavo. – Peter sembrava esasperato. – La colpa è di Brendan, non mia! Se non facesse slitte tanto robuste e solide, forse ora me ne servirebbe un’altra.

    – Glielo dirò – disse Kathrin.

    – Tuo padre ha ancora lavoro? – chiese Mary.

    – Sì – rispose Kathrin, sperando che la moglie del carraio non insistesse su quel punto.

    – Ma certo che avrà ancora lavoro – disse Peter prendendo un po’ di pane. – La gente non smette di aver bisogno di slitte solo perché il Grande Inverno sta allentando la sua presa. Non più di quanto abbia smesso di volere ruote quando l’inverno era al massimo. Fa ancora freddo per metà dell’anno!

    Kathrin aprì la bocca per parlare. Voleva dire a Peter che poteva anche andare a riferire il messaggio a suo padre di persona, perché stava lavorando a meno di cinque minuti di cammino dall’officina del carraio. Chiaramente Peter non sapeva che suo padre aveva lasciato il villaggio, lasciando vuoto il laboratorio durante quei mesi temperati. Ma capì che suo padre si sarebbe vergognato se il carraio avesse saputo del suo attuale mestiere. Meglio non dire nulla.

    – Kathrin? – chiese Peter.

    – Dovrei rimettermi in cammino. Grazie per il cibo e per l’offerta del legno.

    – Porta i nostri saluti a tuo padre – disse Mary.

    – Lo farò.

    – Dio ti accompagni. Sta’ attenta agli sferraglianti.

    – Starò attenta – disse Kathrin, perché era quello che gli altri pensavano si dovesse dire.

    – Prima che tu vada – disse all’improvviso Peter, come se gli fosse venuto in mente allora – lascia che ti dica una cosa. Hai detto che c’è gente che crede che lo Sceriffo possa volare come se si fosse una sciocchezza, come la strada di ferro e il ponte che ammicca. Delle altre cose non saprei dire, ma quand’ero ragazzo conobbi qualcuno che aveva visto la macchina volante dello Sceriffo. Mio nonno ne parlava spesso. Una roba che girava, come la ruota di un mulino fatta di latta. L’aveva vista da piccolo, che portava lo Sceriffo e i suoi uomini sopra la terra più veloce di qualsiasi uccello.

    – Se allora lo Sceriffo poteva volare, perché ora gli servono un carro e un cavallo?

    – Perché la macchina volante si schiantò al suolo e nessun artigiano riuscì a convincerla a volare di nuovo. Era una cosa del vecchio mondo, prima del Grande Inverno. Forse anche il ponte che ammicca e la strada ferrata erano cose del vecchio mondo. Ne ridiamo con troppa facilità, come se capissimo tutto del nostro mondo, mentre i nostri antenati non capivano nulla.

    – Ma se devo credere a certe cose – ribatté Kathrin – non dovrei anche credere ad altre? Se lo Sceriffo può volare, allora uno sferragliante non potrebbe rapirmi dal mio letto di notte?

    – Gli sferraglianti sono una storia per far stare buoni i bambini – disse gelido Peter. – Tu quanti anni hai?

    – Sedici – rispose Kathrin.

    – Io sto parlando di cose che sono state viste alla luce del giorno, non inventate per spaventare i mocciosi.

    – Ma la gente dice di aver visto gli sferraglianti. Hanno visto uomini fatti di latta e ingranaggi, come l’interno di un orologio.

    – Alcuni li hanno spaventati troppo quando erano piccoli – disse Peter scrollando le spalle in segno di noncuranza. – Tutto qui. Ma lo Sceriffo è reale, e una volta era capace di volare. Questa è la sacrosanta verità.

    Quando arrivò al Ponte dei Venti Archi, le mani le facevano male di nuovo. Si tirò giù le maniche del maglione, usandole come guanti. Corvi e taccole giravano e gracchiavano nel cielo. I gabbiani banchettavano coi rifiuti galleggianti negli stretti rigagnoli sotto la base del ponte, o beccavano i ripugnanti brandelli dimenticati sulla strada dai saprofagi notturni. Un bambino rise quando Kathrin per poco non inciampò nel labirinto di solchi incrociati scavati nel corso degli anni dalle ruote dei carri che entravano e uscivano dal ponte. Sibilò una imprecazione al ragazzino, ma adesso i carri servivano al suo scopo. Si acquattò nell’ombra accanto a una porta finché giunse rimbombando un pesante carro, carico di barili del birrificio Blue Star e trainato da quattro ansimanti cavalli da tiro, alle redini un carrettiere dall’aria annoiata talmente imbacuccato nel suo cappotto di pelle da far credere che il Grande Inverno stringesse ancora la sua morsa gelata sul paese.

    Kathrin cominciò a camminare mentre il carro la superava arrancando, usandolo come schermo. Tra i barili di birra accatastati vedeva la sommità del traliccio che puntellava la parte opposta dell’arco, visibile perché non c’erano case o un parapetto da quella parte del ponte. Circa una decina di operai — inclusi un paio di capimastri in grembiule — erano sul traliccio e osservavano i lavori che si svolgevano sotto di loro. Alcuni avevano dei fili a piombo; uno aveva anche una piccola bacchetta nera con cui proiettava un brillante punto rosso ovunque voleva che spostassero qualcosa. Di Garret, la ragione per cui lei voleva attraversare

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