Il colore dei sogni
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Il colore dei sogni - Gerardo Coluccini
Gerardo Coluccini
Il colore dei sogni
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Indice dei contenuti
Gerardo Coluccini
Il colore dei sogni
Era un mattino piovoso, uggioso. La luce fioca di un autunno incipiente filtrava attraverso le tendine impolverate, andando a posarsi qua e là, sugli scaffali semivuoti, creando giochi di luci e di ombre che lo sguardo distratto di Agnese andava seguendo, disegnando linee spezzate come quelle dei suoi pensieri di quel mattino.
In quel negozietto, Agnese ne aveva trascorsi tanti di mattini, la sua famiglia ne era proprietaria da sempre, almeno così pareva a lei che, sin da bambina, aveva trovato più che naturale considerarlo la sua vera casa. Del resto, la loro vita si era svolta più tra le pareti di quella bottega che tra le mura domestiche. Ne conosceva a memoria, quindi, ogni anfratto. L’intercapedine posta a tergo del banco era stata il suo angolino preferito da sempre, una specie di rifugio nel quale aveva trascorso buona parte della sua infanzia, giocando mentre sua madre badava al negozio.
La sua infanzia, Agnese, la considerava una specie di Eden perduto, dal quale era stata scacciata senza alcuna colpa, per essere proiettata nel mondo dei grandi, nel mondo reale
, che aveva sempre affrontato con disagio. Non che le difettasse l’intelligenza né la decisione, semmai ciò che sempre aveva reso difficili i suoi rapporti con gli altri era un’inguaribile timidezza, che ella, per la verità, nascondeva molto bene, talché agli altri – alla stragrande maggioranza di loro - quelle sue fughe precipitose, quei dietro - front apparentemente inspiegabili, apparivano frutto piuttosto di supponenza, di alterigia se non, addirittura, di arroganza.
Spesso le era capitato di pensare con nostalgia a quel mondo perduto. Le atmosfere di quei giorni erano sempre vicine al suo cuore, che vi tornava volentieri, specie quando la vita le mostrava il suo lato doloroso. Del resto, le occasioni per quelle regressioni non le mancavano: trascorrendo buona parte del suo tempo in quel negozio le capitava spesso che odori, rumori, situazioni la trasportassero indietro, quasi sollevandola di peso per riportarla a quei momenti spesso rimpianti.
Le succedeva, così, di rivedere il vecchio banco di legno, ovviamente dal suo personale punto di vista, dal retro, cioè, con le mensole sconnesse, dalle quali sua madre traeva la carta in cui avvolgeva la merce venduta e lo spago con cui legava gli involti più grandi. Così come le sembrava di risentire l’allegro vocìo del negozio nei giorni d’estate, quando la porta rimaneva aperta tutto il tempo per via del caldo. Allora le chiacchiere dei clienti si mescolavano ai rumori che provenivano dalla strada: le frotte urlanti dei bambini a pestare il selciato con quell’allegro, ritmato rincorrersi di sandali, le voci stridule dei fruttivendoli, i clacson delle poche auto che percorrevano la strada e il sordo ronfare dei motori.
Quelle sensazioni si affacciavano alla sua mente con frequenza, con un’immediatezza della quale, sebbene vi fosse ormai abituata, rimaneva sempre, in qualche modo, stupita: quel mondo le sembrava ancora lì, presente, come se quelle scene stessero ancora vivendo da qualche parte, in un altro spazio, in un altro tempo.
I salti all’indietro erano, comunque, una costante della sua vita, quelle immersioni totali nel passato le appartenevano alla guisa di stigmate, infisse nella sua carne. Ella, a volte, si chiedeva se quelli fossero i sintomi di un rapporto non soddisfacente con se stessa e con il suo mondo, una fuga freudiana nelle braccia del passato per sfuggire ad una realtà troppo difficile da comprendere e da affrontare, un rifugio in cui rammendare qualche ferita dell’anima.
Era una domanda che rimaneva senza risposta: del resto, Agnese trovava assolutamente naturale che molte domande rimanessero senza una risposta; anzi, spesso, le capitava di pensare che le risposte – almeno quelle certe, perentorie – fossero una specie di tomba in cui venivano seppellite intelligenza, fantasia e sentimento, laddove gli interrogativi – non solo quelli dell’intelletto, ma anche quelli dello spirito – nutrissero instancabilmente il mistero della vita e il fascino del mondo.
Una cosa, tuttavia, le era, da tempo, risultata chiara: quei salti quantici nel passato avvenivano con una frequenza ed una intensità maggiori nei momenti in cui ella ripiegava su se stessa, in quelle periodiche contrazioni che il ritmo pulsante dell’universo impone ad ognuno di noi.
E tale era, quel mattino di ottobre, la disposizione dell’animo di Agnese. Oltre alla sua naturale tendenza alla riflessione, tutto, quel giorno, la spingeva a rovistare nel suo animo, nelle pagine trascorse della sua vita: pochi clienti a distrarla, il ritmo lento, costante, della pioggia, l’acqua che, in mille rivoli, lavava via dalla strada le prime foglie secche.
Il suo sguardo seguiva distaccato la scena che, al di là della vetrina, scorreva come fosse una pellicola cinematografica: lo sfondo lo conosceva bene, era lo stesso da vent’anni: il palazzo di fronte con le imposte verdi ormai logore e sbiadite, qualche raro passante ad attraversare quel campo visivo con passo veloce, le auto che solcavano i rivoli d’acqua sulla strada, provocando schizzi e fruscii che si ripetevano ad ogni passaggio in maniera uniforme.
Fu così che, fatalmente, venne risucchiata nel vortice dei ricordi. Quella volta si presentò alla sua mente un episodio molto lontano, un evento che ebbe nella vita di Agnese lo stesso impatto che un temporale produce in un sereno pomeriggio d’estate. Era raro che la sua mente tornasse a quella tiepida sera di maggio: forse un qualche meccanismo di autodifesa portava i suoi circuiti mentali lontano da quella macchia oppure nascondeva a se stessa il reale significato di ciò che avvenne quel giorno.
Del resto, ella aveva una naturale capacità di perdonare e comprendere gli altri che, a chi la conosceva bene – ed erano veramente poche persone – sembrava puro masochismo. Per lei, tuttavia, era del tutto spontaneo calarsi nei panni altrui, comprendere le ragioni degli altri, sovente a scapito delle proprie. Alle obiezioni, spesso vivaci, di chi le voleva bene, che la richiamavano ad un maggiore rispetto per se stessa e per le sue giuste ragioni, ella rispondeva sempre con dolcezza, stringendosi nelle spalle, con un gesto che le era consueto, quasi a dire: In fondo, non fa nulla…è così, cosa posso farci…
.
Quell’atteggiamento veniva sempre interpretato come una resa, una passiva accettazione di quelle che erano, talvolta, vere ingiustizie, se non addirittura soprusi: un segno di debolezza. Per Agnese, tuttavia, non era così: quella tolleranza era il segno di un’autentica e naturale disposizione verso gli altri, una compassionevole apertura verso le persone che era un dato saliente del suo modo di essere.
Era, dunque, una fresca giornata