Nella morsa del delitto
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Nella morsa del delitto - Maria Mezzatesta
spessore.
1) La villa della palude
Un pomeriggio di fine ottobre Carol Tompkins percorreva la statale diretta a Harwich, una tranquilla cittadina dell’Essex. Tornava da Londra, dove aveva acquistato alcuni oggetti per il suo negozio di antiquariato. A bordo di un’Austin rossa piuttosto vecchiotta procedeva lungo l’A120, osservando il paesaggio intorno. Il grigio cielo autunnale si era man mano infittito di scure nubi che avanzavano minacciose e facevano presagire la pioggia imminente. Ai lati della strada le siepi erano già ingiallite, i campi semisommersi avevano un aspetto tetro e desolato. Una tenue foschia sfumava in lontananza i contorni della campagna e le prime ombre della sera rendevano il paesaggio più fosco. Aveva oltrepassato Chelmsford quando improvvisamente l’automobile cominciò a sussultare. Preoccupata, pigiò l’acceleratore con forza, ma l’auto dopo un altro sussulto si arrestò. Provò e riprovò a girare la chiave di accensione, ma non accadde nulla. Scese dall’auto e alzò il cofano dando un’occhiata al motore, tutto sembrava a posto. Richiuse il cofano e rimase ad attendere l’aiuto di qualche automobilista. Aspettò invano più di mezz’ora. La strada era deserta, intorno non si scorgeva nessun edificio abitato. Intanto si era fatto buio e i pochi passanti sfrecciavano sui veicoli senza fermarsi. Presa da un certo timore, decise di abbandonare l’auto e proseguire a piedi fino a Dovercourt, a circa un miglio di distanza, per telefonare. S’inoltrò per i campi sul lato destro della strada, pensando di arrivare più rapidamente. Man mano che camminava, era iniziata a cadere la pioggia, e il terreno intorno, già molle e viscido per gli acquazzoni dei giorni precedenti, era diventato melmoso. Proseguiva con gli occhi fissi, sussultando a ogni fruscio, cercando di scorgere qualcuno nell’oscurità. Camminò per un buon quarto d’ora senza scorgere anima viva. Quando ormai pensava di essersi persa, in lontananza brillò una luce. Doveva trattarsi della luce di una casa, di una fattoria o di un albergo, ma scartò quel pensiero ritenendo il posto poco adatto a una tale costruzione. Avvicinandosi, vide che la luce proveniva da una massiccia villa con le finestre illuminate. La costruzione incuteva una certa soggezione. Intorno non si vedevano altri ripari; lei era bagnata, perciò decise di suonare il campanello di ottone posto sul muro a ridosso di un cancello di ferro. Per alcuni minuti nessuno rispose. Nel silenzio della campagna si udì il latrato di un cane, poi una voce dall’accento straniero chiese chi fosse. Narrò brevemente quanto le era accaduto e dopo qualche istante udì lo schioccare di una serratura. Il cancello accanto si aprì ed entrò in un viale di ghiaia. A circa venti metri davanti a sé notò sul portone d’ingresso la luce di un lampione illuminare un giovane e alto uomo di colore; un cane gli si faceva incontro abbaiando. «Che tempo!» mormorò l’uomo mentre accorreva riparandosi con un ombrello. «Entri, presto!»
Le avvicinò l’ombrello per farla riparare fino a quando non entrarono nell’atrio della villa. Chiuse l’ombrello e con una mano le fece cenno di salire sulla larga scalinata che conduceva ai piani superiori. «Prego, prego, salga» le disse mentre riponeva l’ombrello.
Carol rimase sulle sue. «Non voglio disturbare» disse, «desidero solo fare una telefonata per avvertire di quanto mi è accaduto.»
L’uomo con l’inconfondibile accento straniero le replicò: «Il telefono è al piano superiore; venga, non abbia timore! La condurrò dalla contessa e potrà asciugarsi i vestiti fradici.»
Di malavoglia, Carol lo seguì. Salirono le scale e poi proseguirono per un lungo corridoio, dove si aprivano diverse camere. Da una di queste giungeva un coro di voci stridule. Quando la incrociarono, Carol notò alcune persone che discutevano animatamente intorno a un tavolo mentre esaminavano dei documenti. Almeno così le parve. L’uomo la condusse nell’ultima stanza, in un ampio salotto. Le indicò un divano damascato sull’azzurro e poi sparì silenziosamente. Rimase sola a osservare l’ambiente caldo e confortevole. Le pareti avevano una tappezzeria a fiori rosata, anche se datata e ingiallita in più punti. La stanza era colma di mobili con divani di varia foggia e dimensioni, cuscini, tavolini di legno pieni di oggetti, grandi vasi cinesi, ma tutto disposto un po’ alla rinfusa, senza ordine e con poco gusto, tale da dare quasi un senso di confusione. Un’ampia libreria di noce occupava un’intera parete e sulle varie mensole, insieme ai libri, vi erano statuine orientali di giada e d’avorio di buona fattura, mentre sul pavimento erano adagiati tappeti persiani. In un angolo, nel camino di marmo rosato ardeva un buon fuoco di legna. Istintivamente Carol vi si diresse per riscaldarsi. Alla sua sinistra una grande finestra di legno mostrava il parco sottostante. La pioggia seguitava a scrosciare e addirittura era venuta fuori una vera tormenta; i vetri crepitavano sui cardini e il vento sibilava come un’anima in pena. Carol strinse le spalle e, per un attimo, si rallegrò di essere al riparo. Poco dopo la raggiunse una donna giovane e di bell’aspetto. Era alta e dai delicati lineamenti orientali. Indossava un abito azzurro che le fasciava il corpo slanciato e snello e le ravvivava il viso dalla carnagione olivastra