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Parole come pane: La sintassi di Nisida
Parole come pane: La sintassi di Nisida
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Parole come pane: La sintassi di Nisida

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Raccontare/raccontarsi non salva la vita. Ma prendere atto che le proprie parole insieme a quelle dei pari possono assumere forma di personaggi e diventare i luoghi, i tempi, le frasi di una storia è un modo per appropriarsi in maniera più matura e piena della lingua. Ed è anche una via per dare alla propria sofferenza canali di scorrimento e rimodulare i confini della propria esperienza nonché imparare a agire contro uno dei vincoli più pesanti che legano i ragazzi al proprio passato, ovvero il convincimento che anche il futuro sia già scritto.

"Sintassi del cambiamento perché se cambia la lingua, cambia l’essere, visto che non c’è dubbio alcuno che la lingua sia sempre stata il primo specchio di un popolo, di una persona. Non solo parlo come mangio ma anche parlo come sono. E se da principio riesco a mala pena a balbettare, magari pure in gergo dialettale, tramite un linguaggio riservato soltanto a me e ai miei, linguaggio di chiusura, dunque, che viene meno al suo compito principale che è quello di comunicare, un poco alla volta, grazie alla sintassi, riesco a formulare frasi che arrivano dappertutto, che si fanno intendere non più soltanto da me e dai miei.

Ed ecco allora la sintassi della liberazione che mette ali alla fantasia e dà voce ai sogni, che toglie le catene pesanti e arrugginite prima alla parola e poi anche alla scrittura. O forse a tutte e due contemporaneamente. Ma sintassi della liberazione anche nel senso che, grazie al linguaggio, non sono più prigioniero della mia rabbia, della mia frustrazione perché riesco ad esprimerle, a raccontarle, non più pietre dure dentro al cuore pesanti come marmo. E chissà che alla fine la sintassi non riesca a favorire la realizzazione concreta di quel complemento di moto a luogo che per primo è stato perfettamente chiaro ai ragazzi di Nisida".

Dalla Prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti
LanguageItaliano
Release dateMar 14, 2014
ISBN9788897567660
Parole come pane: La sintassi di Nisida

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    Book preview

    Parole come pane - Cristina Zagaria

    Caracò Editore

    Cosmi

    10

    Ardone, Curtaz, de Crescenzo, Gallo, Longo Menna, Petrazzuolo, Rinaldi, Solla, Zagaria

    PAROLE

    COME PANE

    La sintassi di Nisida

    A cura di Maria Franco

    Prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti

    Ardone, Curtaz, de Crescenzo, Gallo, Longo Menna, Petrazzuolo, Rinaldi, Solla, Zagaria

    PAROLE COME PANE. La sintassi di Nisida.

    A cura di Maria Franco

    Prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti

    Caracò Editore

    Collana Cosmi

    ISBN 978 8897567 653

    ISBN EBOOK 978 8897567 660

    I edizione febbraio 2014

    © Tutti i diritti sono riservati

    www.caraco.it

    PRIMA DI COMINCIARE

    Sì, conosco tante lingue, forse troppe, ma in fondo non sono mai stata davvero capace di trattare, con le parole, di esprimerle faccia a faccia, a un uomo. Certo, so che la frase semplice, si costruisce con soggetto, predicato e complemento oggetto, e che periodi più complessi richiedono l’uso di preposizioni varie, ma la mia padronanza di lessico e sintassi non è che vada molto più in là di questo. Alla fin fine, io non sono una capace di trovare le parole, quelle giuste voglio dire (che è poi quello che conta davvero). Neanche per esprimere i concetti più necessari, tipo, nell’ordine: Stai attento, oppure Ti amo. Audur Ava Ólafsdóttir

    Il pane è più antico della scrittura e del libro. I suoi primi nomi sono stati incisi su tavolette di argilla in lingue ormai estinte. Parte del suo passato è rimasta tra le rovine. La sua storia è divisa tra terre e popoli. La leggenda del pane affonda nel passato e nella storia. Si sforza di accompagnarli senza identificarsi né con l’uno né con l’altra. Il mattone servì da modello a colui che fece cuocere la prima focaccia. In età di cui non si serba memoria o testimonianza, terra e pasta vennero a trovarsi sul fuoco l’una accanto all’altra. Il legame del pane con il corpo umano si creò dall’inizio. Predrag Matvejevic

    Questo pane che spezzo un tempo era frumento,/ questo vino su un albero straniero/ nei suoi frutti era immerso;/ L’uomo di giorno o il vento nella notte/ piegò a terra le messi, spezzò la gioia dell’uva.// In questo vino, un tempo, il sangue dell’estate/ batteva nella carne che vestiva la vite;/ un tempo in questo pane,/ il frumento era allegro in mezzo al vento;/ l’uomo ha spezzato il sole e rovesciato il vento.// Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci/ devastare le vene, erano un tempo/ frumento ed uva, nati/ da radice e da linfa sensuale./ È il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti. Dylan Thomas

    Quando faccio il pane, penso alla gente che ha fatto spuntare il grano, penso ai profittatori che ne gonfiano artificialmente il prezzo, ai tecnocrati che ne hanno guastata la qualità – non che le tecniche recenti siano necessariamente un male, ma il fatto è che si sono messe al servizio dell’avidità che è certamente un male, e che la maggior parte di esse sussiste solo in virtù di grandi concentrazioni di forze che sono piene di potenziali pericoli. Penso a chi non ha pane, e a chi ne ha troppo, penso alla terra e al sole che fanno crescere le piante. Mi sento idealista e materialista al tempo stesso. (…) Il pane non è mai lo stesso. E c’è anche quello che non viene. D’inverno, ad esempio, qui fa troppo freddo; si fa molta fatica a far lievitare il pane, a meno di surriscaldare la cucina come un forno. Non si è mai sicuri che riesca. E vi sono degli stadi che ricordano in tutto e per tutto quelli della scrittura. All’inizio, qualcosa di informe che si appiccica alle dita: una poltiglia. Poi, la poltiglia diventa via via più soda, più consistente, e c’è un momento in cui diventa elastica. Infine, l’istante in cui si sente che il lievito ha cominciato ad agire: la pasta è viva. Non c’è più che lasciarla riposare. Ma se fosse un libro, il lavoro potrebbe durare dieci anni. Marguerite Yourcenar

    Un racconto, (…), non è una strada su cui ci si incammina, è piuttosto una casa. Uno ci entra, ci sta dentro un po’, vaga qua e là, si sistema dove vuole e impara come ogni stanza e ogni corridoio siano collegati tra loro, come il mondo esterno sia modificato dalle finestre attraverso le quali lo si osserva. Anche l’ospite, il lettore, subisce un cambiamento ritrovandosi in quello spazio chiuso, che sia ampio e accogliente o pieno di passaggi tortuosi, che sia arredato con sfarzo o con rarefatta semplicità. Può tornare in quella casa, in quella storia, ogni volta che vuole e ci troverà sempre qualcosa che non aveva notato prima. E scoprirà che la casa ha un solido senso di sé, di qualcosa che è stato costruito per ragioni di interna necessità e non solo per proteggere o incantare il visitatore. Alice Munro

    PREFAZIONE

    di Isabella Bossi Fedrigotti

    La sintassi e il pane. Parola difficile, la prima, sibilante come un serpente, come il rumore che fa nell’aria la lama di un coltello. Ma difficile è anche il suo significato: È lo studio delle funzioni proprie della struttura della frase, spiega il dizionario e perfino chi segue studi regolari può rimanerne smarrito, disorientato. Figurarsi questi ragazzi di Nisida, dei quali quasi nessuno ha mai messo piede dentro una scuola superiore e molti nemmeno in una modesta media. Eppure hanno imparato, hanno capito chi è il soggetto, dove sta il predicato nominale o verbale, che sarebbe il verbo, e cioè l’azione, e chi o cosa sia il complemento oggetto. Di più, si sono familiarizzati anche con altri complementi, soprattutto quelli di moto a luogo; del resto è ben comprensibile che vogliano uscire, andare, scappare, viaggiare, emigrare da dove stanno rinchiusi, sia pure con la vista del mare: niente di più, per loro, di un bel quadro, da guardare ma da non toccare.

    Sintassi del cambiamento perché se cambia la lingua, cambia l’essere, visto che non c’è dubbio alcuno che la lingua sia sempre stata il primo specchio di un popolo, di una persona. Non solo parlo come mangio ma anche parlo come sono. E se da principio riesco a mala pena a balbettare, magari pure in gergo dialettale, tramite un linguaggio riservato soltanto a me e ai miei, linguaggio di chiusura, dunque, che viene meno al suo compito principale che è quello di comunicare, un poco alla volta, grazie alla sintassi, riesco a formulare frasi che arrivano dappertutto, che si fanno intendere non più soltanto da me e dai miei.

    Ed ecco allora la sintassi della liberazione che mette ali alla fantasia e dà voce ai sogni, che toglie le catene pesanti e arrugginite prima alla parola e poi anche alla scrittura. O forse a tutte e due contemporaneamente. Ma sintassi della liberazione anche nel senso che, grazie al linguaggio, non sono più prigioniero della mia rabbia, della mia frustrazione perché riesco ad esprimerle, a raccontarle, non più pietre dure dentro al cuore pesanti come marmo. E chissà che alla fine la sintassi non riesca a favorire la realizzazione concreta di quel complemento di moto a luogo che per primo è stato perfettamente chiaro ai ragazzi di Nisida.

    Poi il pane, parola dolce, parola facile, invece. Pane che è vita, che è certezza, che sta fisso nei sogni di chi ha fame. Non la carne viene in mente a chi non mangia da giorni, non le uova, i dolci oppure il formaggio bensì il pane, pane caldo, pane profumato, pane che, inevitabilmente, ha il gusto di casa. È in casa, infatti, che lo si taglia, che se ne spezza un boccone, che se ne assaggia un cantuccio: fuori si gusta altro, eventualmente, sì, un panino, dove però il pane è soltanto un pretesto, base per un variopinto companatico.

    E come può non pensare, pieno di nostalgia, a casa e al suo pane, chi se ne sta chiuso distante, esiliato da quel calore, da quella dolcezza? E forse che le canzoni non hanno raccontato quanto sia amaro il pane straniero, il pane sbocconcellato lontano da tutti, in contrasto con quello noto, familiare, del quale sempre si ricorda la forma, il sapore, l’odore?

    Crucchi abbiamo imparato durante le guerre a chiamare i prigionieri slavi, da cruch, che vuol dire pane. Lo chiedevano sempre – raccontavano i nostri nonni – ne supplicavano un po’ per salvarsi la vita. Da adulti, ovviamente, se anche si volesse, non si invoca la mamma che, peraltro, è difficile che si materializzi, e allora si domanda il pane, sua controfigura, in un certo senso, forse sua emanazione. Non è forse normale, allora, che in queste pagine si parli di pane?

    UNA COSA FATTA BENE

    di Viola Ardone

    – Com’è il pane? È buono?

    – È pane.

    – Non è pane soltanto. È l’unica cosa che mi sono imparato, in tutti questi anni.

    Si è fatto vecchio. Parla come un vecchio, calmo e lento, si gira come un vecchio, prima il busto e poi la testa, respira come un vecchio, con un piccolo fischio dentro alla narice destra, e puzza come un vecchio, puzza di pelle consumata e di capelli unti.

    Sono venuto fino a qua sopra per vederlo a Tonino ’o Guardanterra. Lo chiamavano così perché quando lo incontravi dovevi abbassare gli occhi a terra tu per primo, lui gli occhi non li abbassava mai e manco la testa.

    – Mi piace. Mi piace di farlo e mi piace di mangiarmelo.

    La testa è un poco più curva, ora che è vecchio. Segue la linea delle spalle che finisce in una specie di inchino, come quello che ho visto dentro alla televisione in un film di giapponesi.

    Gli occhi invece no, gli occhi non li abbassa nemmeno mo’ che è vecchio.

    – Mi piace di impastarlo, e non è facile, Toni’. Deve essere una cosa fatta bene.

    Tonino mi chiamo pure io, e pure io non guardo mai per terra. Mi mangio il pane che ha preparato lui e lo guardo. Gli metto gli occhi dentro agli occhi e vediamo chi prima di noi due li abbassa.

    – Mangia, mangiatelo caldo, Toni’.

    Sono venuto fino a qua sopra. Mi puzzo di freddo. Non è nemmeno autunno e già la sera tiene un tanfo di camino acceso e carbonella. A me poi questo odore mi fa schifo. A me mi piace il mare. Io da là vengo. Tre anni sono rimasto a guardare il mare. Tre anni per quello che abbiamo fatto, io e Carolina, erano pure pochi. Tre anni in mezzo al mare, su una punta di scoglio che pare il meglio lusso. Pare che ci vogliono sfottere, là, nel Grand Hotel di Nisida. Tre anni in mezzo al mare e un pensiero solo nella testa: andare. Andarmene di là. Uscire, camminare, correre, fuggire, partire, emigrare, viaggiare, scappare. Tre anni per pensare a dove sarei andato il primo giorno della libertà.

    – Non te lo mangi il pane? Non ti piace?

    – Il pane ’o saccio fa’ pure io. Me l’hanno imparato là dove sono stato.

    – Il pane è buono.

    – Roba da carcerati.

    Il vecchio guarda con occhi più cattivi. Gli occhi non cambiano mai. Non conoscono vecchiaia, non tengono pietà. E manco i miei la tengono.

    Tre anni per pensare. Appena metto il piede libero là fuori me ne vado…

    … me ne vado a Parigi, dove in mezzo alla strada la gente passa e non mi vede, parla una lingua tutta diversa e non legge i miei pensieri che sono scritti in un dialetto sporco e appezzentito… no, me ne vado sul mare, ma un mare vero, che si può toccare, non come il mare di Nisida, che è come acqua che non ti disseta, un mare che ti fai pure i bagni dentro e ci vedi tutti quei pesci colorati, come stavano un giorno dentro alla televisione, in un documentario sulla barriera corallina, me ne vado a Sciarmescèik, dove mi ha detto mio cugino Aniello, che è sempre stato un grande campatore, che la vita si conta a ore e anche a minuti invece di anni che si devono scontare… no, no, me ne vado in Brasile, a guardare il culo di quelle ballerine coi riccioli neri e i denti grandi e bianchi, come si vede dentro alla televisione in quei film musicali… no, no, no, me ne vado in America, a New York, poi mi piglio una moto, una di quelle moto strane, con i manubri alti e storti, come nel film dentro alla televisione di quei due scoppiati capelloni che si fanno per tutto il tempo e girano l’America sopra alla moto e mica nessuno gli dice mai niente. Altro che Nisida… no, no, no, no, me ne vado a Venezia, mi vado a pigliare a Carolina, la guagliona mia – e quando esce Carolina?, e che ne saccio, e vabbè, ma tanto è un sogno e sono io il padrone del sogno – allora mi vado a prendere a Carolina e me la porto a Venezia, sopra alla gondola, la gondola è romantica e lei è la più bella, con il vestito nero e la valigia rossa, è vestita così dentro al mio sogno, col cappellino nero, come quella brunetta nel film dentro alla televisione che girava sulla vespa insieme all’uomo suo, se ne andavano a Roma a vedere il Colosseo e anche io ci voglio portare a Carolina a vedere il Colosseo e pure la Bocca della verità, così una volta per tutte lo capisco che cosa ci ha fatto veramente con quell’uomo di niente, quello che adesso ci guarda da sotto all’erba dentro al camposanto. Comunque no, non me la porto a Roma, ce ne andiamo nel Canada, dove ci stanno le cascate, me la voglio baciare vicino a quella discesa d’acqua che si tira appresso tutto quello che trova, come è stato il mio amore per lei, come è stata fino a mo’ la vita mia.

    Tre anni in mezzo al mare e tutti i giorni a viaggiare con la mente. E alla fine, appena mi hanno messo fuori, sono venuto qua, sopra a questa montagna. Lo volevo vedere in faccia a Tonino ’o Guardanterra.

    La sera il freddo sale e pure la puzza di camino. Tutte le case sono piene di malinconia, tranne questa, che è vuota di qualsiasi cosa.

    – Il pane è l’unica cosa che mi so imparato a fare bene.

    Sono venuto fino a qua a cercare il killer di mio padre e ho trovato un vecchio. Sono venuto a cercare mio nonno, l’uomo che ha fatto uccidere suo figlio per una legge che è legge in faccia agli uomini, ma non in faccia a Dio, e mi sono trovato davanti uno con i miei stessi occhi, che mi guardano senza mai perdere la mira.

    Lui ha capito chi sono, ma mi ha invitato a entrare. Aspetta che lo uccido. Io penso che si è sfasteriato di vivere così. È l’uomo più potente, dopo che il figlio è morto. Morto per mano sua, per una sua parola di sentenza. Tutti sono tornati sotto a lui. È lui che muove i soldi e muove gli uomini e fa muovere il mondo. Pure io mi sono mosso appresso a lui. Me ne sono salito fin qua sopra, in mezzo a questa puzza di legna bruciata e di sconfitta per regolare il fatto. Deve essere una cosa fatta bene.

    Ma questo è un vecchio, non è più un nemico. Vive nella casa di un vecchio, passeggia come un vecchio fino al sole più debole, di sera, poi si ritira e si mette sulla sedia coi braccioli consumati. Si guarda attorno in cerca del pericolo, e il pericolo oggi sono io. Non aveva messo in conto di vivere così, di invecchiare sopra a una montagna, sconfitto dalla solitudine e dalla vita ripetuta, sconfitto perché ha vinto e perché è il capo. Sconfitto perché è solo e perché è vecchio.

    Si mette sulle spalle questa giacca, che ogni volta che si muove manda fieto di pecora, ed esce nella sera. Potrei sparargli adesso, o seguirlo mentre va a cercare un po’ di vino dentro un capanno mezzo abbandonato. Invece mi mangio il pane, e aspetto che torni pure col formaggio. Sa fare anche il formaggio. Pure questo gli ha insegnato la sua vittoria, che è stata una sconfitta.

    Dopo tre anni in mezzo al mare, tre anni che ho viaggiato solo con la mente e che ho aspettato di incontrarlo, dopo tre anni sono seduto al tavolo della casa di un vecchio, piena di puzza di montagna e il mio unico dubbio è questo: gli sparo nella testa o aspetto che torni e mi mangio il formaggio in mezzo al pane?

    Forse è stato il troppo mare. Forse tutto quel blu mi è entrato nella testa. Forse le facce dei compagni miei, là dentro, le loro storie, che certe volte scambiavo per le mie, forse le mani di Carolina l’ultima volta che le ho viste, così rosse di sangue, forse i silenzi e alcune parole di Maria e degli altri insegnanti, forse il modo di camminare del direttore, che spinge avanti i piedi facendo pure lui, ogni giorno, il tondo della prigione. Forse perché quel pane l’ho imparato anch’io.

    Forse per tutto questo aspetto dietro al tavolo e mi chiedo se mangerò il formaggio che lui ha fatto o gli vedrò esplodere il cervello sopra la carta da parati a fiori di questa casa di vecchio.

    In quei tre anni in mezzo al mare, a volte, facevo le invenzioni, per far passare il tempo. Dicevo: esco da qua e voglio fare i soldi onestamente, inventando tutte le cose che desidererei pure io, perché sono le stesse che vogliono anche gli altri. Mi inventai questa macchina fotografica, ma non una normale. Con questa potevi fare delle foto che poi, quando le guardavi, pure dopo dieci anni, pure dopo una vita, potevi ritornare indietro a quel dato giorno, a quella data ora e rivivere la vita come era. Era una macchina fotografica del tempo. Così l’avrei chiamata, se fossi riuscito a realizzarla. Ma poi ho pensato che era una cosa inutile perché nessuno vuole passare la seconda volta per lo stesso portone. E pure io, nelle foto che ho scattato, mica ci tornerei dentro, anche i momenti belli.

    Il vecchio ora ritorna con uno straccio in mano, che avvolge il suo formaggio. Chissà a quale sua foto tornerebbe, se potesse. Chissà che viaggio si farebbe, se potesse partire da questa sua prigione.

    Apre la porta. O prendo la pistola o la forchetta e tutte due sono metallo freddo sotto la mano di sudore. Tre anni in mezzo al mare. Forse sarà per questo, ma la puzza di montagna e di stanze umide mi ispirano più fame che vendetta.

    Apre lo strofinaccio, il vecchio. Mi fissa dentro gli occhi con il coltello in mano, lo liscia contro un altro per rifilare la lama. Poi dalla punta lo infila nella pasta, che è bianca e molle ancora. Ne sanguina una goccia.

    – Com’è il formaggio, è buono?

    Dico di sì con il mento.

    – Non è formaggio solamente. È l’unica cosa che mi so imparato a fare in tutti questi anni. Insieme al pane. E adesso solo questo mi rimane.

    – E allora è buono, rispondo mentre prendo la forchetta, e per la prima volta abbasso gli occhi. Questa è una cosa buona. Una cosa fatta bene.

    IL NATALE DI DON MAURO

    di Paolo Curtaz

    Parcheggiò, come sua abitudine, vicino alle macchine degli educatori.

    Mentre percorreva a piedi il breve tratto che lo separava dal primo cancello si fermò per qualche istante a guardare il mare verso sud. Uno stormo di gabbiani stava facendo a gara lungo i faraglioni che chiudevano lo sguardo alla sua sinistra.

    Poi lo sguardo indugiò attraverso l’intrico di macchia mediterranea, che dal bordo della strada scendeva, ripido, fino alla piccola spiaggia che si intravvedeva in fondo, leggermente spostato rispetto al centro dell’anfiteatro naturale formato dall’isola vulcanica.

    Il sole era caldo e il cielo terso e scintillante.

    Respirò a pieni polmoni, sorridendo in cuor suo e ringraziando Dio per quello spettacolo.

    «Non puoi capire Napoli se non vedi il mare», aveva detto qualche giorno prima ad un suo amico del Nord cui aveva fatto fare un malanapoli tour: dai Quartieri spagnoli fino a Scampia, alle vele, per poi finire ad Acerra e a Giugliano, la Terra dei fuochi.

    Alla fine, per risollevargli il morale, l’aveva portato a Pozzuoli, a pranzare sul mare che sembrava volesse distrarre quell’ospite stranito da quella terra piena di contraddizioni.

    Quell’isola, dov’era cappellano da pochi mesi, avrebbe potuto diventare sede del più bel resort di stralusso dell’intero Mediterraneo, un posto esclusivo per nababbi. Invece Nisida era la sede del carcere minorile di Napoli.

    "Bene pensò fra sé e sé – almeno ci sta un po’ di giustizia sociale…"

    Salutò con una battuta il piantone e consegnò, al solito, il telefono cellulare.

    Un prolungato segnale acustico lo avvisò dell’apertura del secondo cancello.

    Si diresse verso la palazzina alla sua sinistra, oltrepassando il piccolo campetto da calcio. Alcuni ragazzi stavano raccogliendo erbacce, altri intrecciavano rami spezzati a mo’ d’albero.

    Oggi devo per forza parlare del Natale, pensò don Mauro.

    E sentì una profonda fitta nell’anima.

    Per l’occasione aveva radunato tutti i ragazzi in un’unica aula scolastica.

    Alla lavagna aveva scritto, in stampatello, la parola NATALE.

    I ragazzi entrarono rumorosamente e si sedettero, continuando a scherzare; alcuni lo salutarono con una battuta. Alla sua destra si misero le ragazze. Mischiati alla trentina di adolescenti, tre educatori adulti sorvegliavano con garbo la situazione.

    Ottenne un silenzio approssimativo e alzò leggermente il tono di voce per imporsi sulla chiacchiera.

    «Fra qualche settimana è Natale e volevo dedicare l’incontro a parlare di questa festa», esordì.

    Un coro di lamentele e di battute gli confermò la sensazione che si trattava di un tema delicato. Riprese a parlare:

    «Ragazzi, proviamo a parlarne bene, proviamo a tirar fuori le cose che ci vengono in mente, a condividere quello che sentiamo dentro».

    Franco ruppe gli indugi:

    «Don Mauro, qui a Nisida è un giorno come gli altri, pure più brutto perché si sente di più la mancanza della famiglia!»

    Matteo aggiunse:

    «Però è anche migliore degli altri perché sia il pomeriggio che la sera si fa la socialità e mangiamo insieme!»

    I ragazzi commentarono le affermazioni, concordando sostanzialmente: era un giorno difficile per tutti ma anche uno dei pochi in cui, per qualche ora, si aveva l’impressione di non essere carcerati.

    «Però – insistette con una certa enfasi Franco – ci sono delle persone che di Natale non gli importa niente e per me queste sono persone senza affetto, sono persone solitarie che non rispettano il giorno del nostro Cristo!»

    A quel punto la discussione si accese, don Mauro richiamò tutti all’ordine chiedendo di ascoltarsi gli uni gli altri. Diede la parola a Ivan:

    «C’è gente che pure ammazza! A Natale ci sono pochissimi carabinieri per strada e quei pochi che ci sono stanno anche tutti molto scocciati, perché invece di stare con i propri familiari devono stare in servizio. Mi hanno detto che una volta arriva una chiamata di un anonimo, che afferma che nel quartiere Miracoli c’è un morto, hanno scaricato un caricatore contro un ragazzo di appena vent’anni, un ragazzo biondo con occhi azzurri, magro, ed era un ragazzo che era molto rispettato e temuto. Ma i clan non potevano correre il rischio di tenerlo in vita e quindi l’hanno ammazzato. Il ragazzo era conosciuto da tutta Napoli, come Tumar perché è cresciuto senza madre e padre, senza nessuno, a parte una famiglia adottiva, e non aveva paura di niente e di nessuno. Se ne è occupato un bravo ispettore, però non c’è nemmeno l’ombra di una prova, non c’è niente. Lui sa cosa è successo e chi l’ha ammazzato, un uomo, anzi un killer di ’o zio Totonno, un uomo che comanda i Quartieri spagnoli a Napoli, ma non c’è niente, è uno di quei tanti casi di omicidio fatto davvero bene, talmente bene che non hanno lasciato traccia».

    Don Mauro ebbe un brivido nella schiena: a volte si dimenticava che i ragazzi che aveva di fronte avevano alle spalle anni di delinquenza e di violenza.

    «Sì, sì – si aggiunse un’altra voce – anch’io ne so una: nel giorno di Natale nel pomeriggio parte una telefonata al Commissariato dei carabinieri che è stato fatto un omicidio nel quartiere di Giugliano in Campania a via Colonne; appena arriva la telefonata i carabinieri partono così quando il commissario arrivò sul posto chiese alle persone se hanno visto qualcosa ma tutti dicevano di non aver visto niente così il commissario assieme alla scientifica cominciò delle indagini sull’uomo morto sparato, prese i documenti della vittima e fece una telefonata al Commissariato per fare degli accertamenti sulla vittima ma quel povero cristiano era una persona brava con lavoro senza reati sulla coscienza così il commissario disse forse un regolamento di conti fra la camorra, e disse mannaggia a loro proprio il giorno di Natale sono proprio gente senza cuore che sono riusciti a rompere le scatole pure a me, sto al commissariato tutto il giorno senza festeggiare con la famiglia e adesso devo proseguire un’indagine di omicidio proprio il giorno di Natale».

    Gli animi si erano riscaldati ma non era lì che voleva arrivare don Mauro.

    «Va bene, ragazzi, va bene. Anche a Natale succedono cose brutte ed è vero, alcuni proprio non lo festeggiano nemmeno…»

    Non fece in tempo a finire la frase che lo interruppe nuovamente Franco:

    «C’è Luca che odia il Natale perché il giorno di Natale di ventuno anni fa perse il suo amore, lo lasciò. Si chiamava Laura, la sua fidanzata, ed era bellissima e da quel giorno finì tutto e lui odia il Natale e dal Natale ha incominciato ad odiare tutte le feste perfino le domeniche».

    «Va bene ragazzi, mo’ basta! Qualche cosa di bello ci sarà, no?»

    Intervenne Daniel, il rumeno, di solito taciturno.

    «Noi il Natale lo festeggiamo in un’altra maniera, lo festeggiamo il 7 gennaio. Quella festa è importante per noi come per gli italiani il Natale e c’è chi lo festeggia e chi non lo festeggia, perché nella vita c’è sia il bene sia il male perciò c’è qualcuno che non lo festeggia.»

    Fu il turno di Fatima:

    «In Marocco non si festeggia il Natale. Ma la festa dove si riunisce tutta la famiglia è la festa della pecora. La giornata della pecora ognuno ha la sua pecora in casa sua, il mattino ci svegliamo presto, gli uomini vanno in moschea a pregare e le donne preparano la colazione, i bambini si mettono i vestiti nuovi, ritornano gli uomini dalla moschea fanno colazione e tagliano la gola alla pecora e passiamo tutto il giorno a mangiare a scherzare, poi vengono i parenti da lontano e stanno con noi due giorni».

    L’idea della pecora sgozzata scatenò l’ilarità generale e qualche presa in giro di troppo. Intervenne don Mauro:

    «Grazie del vostro contributo. Sì, Daniel, gli ortodossi hanno un calendario diverso ma è la stessa festa e i musulmani celebrano il sacrificio di Ismaele, il fratello di Isacco, di cui si parla nella Bibbia. Ma insisto: cosa pensate del Natale? Che festa è per voi?»

    Ci fu una pausa di silenzio, finalmente. Fu Ciro a parlare per primo.

    «Natale è una festa molto importante per me e per tutta la famiglia… ti fa sentire il calore della famiglia perché tutti riuniti a tavola a parlare a scherzare ad aprire i regali… insomma è una festa molto importante.»

    Franco continuò, guardando il pavimento:

    «Sì, però per noi Natale è un giorno come tanti o così lo definiamo… ma in fondo nel nostro cuore c’è tristezza, anche se non la dimostriamo e ci mettiamo a fare battute. Poi cerchiamo di stancarci così appena ci mettiamo nel letto non diamo spazio ai pensieri perché subito ci addormentiamo e il sogno che ci facciamo sicuramente parla della famiglia e delle bellezze dell’atmosfera del Natale».

    Ora il clima era diventato dannatamente serio. Franco aveva dato la stura al dolore.

    Fu Sara a parlare.

    «Mi ricordo l’ultima volta che ero fuori. Sono le 18:30 e sto uscendo per comprare gli ultimi regali. Ci sono troppe persone intorno a me che non credono più in questa splendida festa. Io sì, per me è importante. Io amo questi giorni, anche se sono fatti di odio. Anzi forse è malinconia. Io mi sento sola a Natale, però non perdo e non perderò mai la gioia di cui è fatta questa festa. Torno a casa mia mamma sta stirando, le do un bacio. Lei è triste ed io so il perché. Papà sta giocando col cane e mio fratello come sempre sta su Facebook. Non credono più a niente ed andare da mia zia a festeggiare è un gran dolore un po’ per tutti. Vado a prepararmi, non voglio affliggermi con tutta questa tristezza. Io sono viva.»

    Poi parlò di nuovo Ciro, poi Franco e anche chi non aveva parlato. Era una specie di dolente confessione pubblica e le cose che uscivano si specchiavano le une nelle altre.

    Natale portava un dolore puro. Quell’essere dentro, la famiglia lontana, i genitori in pena.

    Ma anche i brutti natali vissuti fuori, con i propri padri in carcere e i nonni che rimpiazzavano i genitori. E le mamme tristi per l’assenza dei mariti, anch’essi in carcere.

    Come una spirale di dolore, sempre più personale, sempre più intimo.

    Anche don Mauro ne era travolto. Li conosceva bene i suoi ragazzi ma ora, lì, vedeva solo il bambino abbandonato che c’era in ciascuno di loro.

    Poi, prepotente, emerse un ultimo aspetto, il fondo della caverna.

    Metà dei ragazzi che erano lì, seppur minorenni, erano già padri e madri di bambini che non potevano vedere. Adolescenti, figli e genitori. Uno strazio crescente nel loro piccolo mondo affettivo.

    Ciro sintetizzò il pensiero di molti.

    «Il regalo che mi piacerebbe fare a mia moglie è la patente e la macchina… lo so è un pensiero mio ma gli regalerò un bel profumo oppure una settimana da

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