Adele
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Adele - Rossana Carturan
(J.L.Borges)
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
*
Flaminia saltellava con la corda come un filo a piombo rugginoso a scandire il tempo; ad ogni salto sul parquet, il pavimento e le pareti sembravano voler venir giù per quanto fossero esauste. Non era molto pesante, era una ragazzina gracile e perennemente malaticcia, ma l’assetto precario di quella casa amplificava mostruosamente i rumori. Negli ultimi anni ad ogni inverno la casa apriva una piccola crepa quasi a rivendicare lo stato di decomposizione dovuto alla mediocrità della fattura e non alla secolare età.
Adele aveva iniziato a cucinare prestissimo, il primo dell’anno era come tutti gli altri giorni ma tutto doveva essere perfetto. Si sarebbe consumato il pranzo nella sala del camino, così come la chiamavano da sempre. Era la stanza più grande di tutta la casa e la più confortevole, chiamata così per la presenza di un camino dalle dimensioni mostruose.
Adele era sposata con Pietro, uno dei più bravi ingegneri di Padova nei primi anni ’50. Stimato e trattato con ossequio da tutti, aveva contribuito a edificare il piccolo centro. In mezzo alle sue costruzioni, poste qua e là per la città, aveva realizzato la sua casa. Una grande dimora perché doveva contenere una famiglia parecchio numerosa: due figli, Giulio e Alberta, una nipote, Flaminia, che lui aveva accolto nella sua casa dopo la morte di Adriana, sorella di Adele, una suocera, Olga, personaggio assolutamente fuori dal comune, e un cognato, Amilcare, disabile.
Quel primo dell’anno Adele ancora una volta desiderava fosse speciale. Come ogni inizio anno si riprometteva di avviarsi ad una vita perfetta e anche questa era un’abitudine che sistematicamente deludeva le sue aspettative. Ma ora si era detta: basta! Doveva raggiungere il suo obiettivo. Proprio come il pranzo che stava preparando. La perfezione non era nell’assolutezza del giusto, quanto nella scansione esatta di tutto. Avrebbe pensato a come raddrizzare i pensieri, aggiustare i desideri, completare l’ordine delle priorità, fugare le incertezze così da riappropriarsi della verità; questa irrequietezza e la necessità di trovare quell’equilibrio la allontanava dal pensiero che la banalità della vita fosse solo un principio, e arrendersi nasceva dal fatto che di lì ad un paio di mesi sarebbe arrivata Delfina, sorella di Olga, nonché zia di Adele ed Amilcare.
L’attendeva con ansia, era per lei fonte di benessere e speranza. Speranza di cambiare, modificare, allietare la propria esistenza. Era sempre stato così fin da quando era bambina. E ora provava quella anomala eccitazione che la preoccupava ma al tempo stesso le stimolava il rinnovamento. Mise nella tasca del grembiule da cucina che indossava, una piccola maschera di terracotta, con il viso dipinto di blu e le guance definite da un rosso arancio a ricordare il sole delle isole Hawaii da dove era stata spedita tanti anni prima proprio da Delfina. Sarebbe risultata inquietante per chiunque l’avesse avuta davanti agli occhi, quei fori a mandorla a simulare uno sguardo vudu incutevano e stimolavano le fantasie più orride ma in Adele no. Era la maschera dei sogni, quella che da bambina la confortava da cattivi pensieri o presagi. Ad ogni arrivo prossimo di Delfina, Adele la tirava via dalla scatola di latta, ricordo dei suoi biscotti preferiti, e la teneva con sé fino all’arrivo della zia, la spostava da un grembiule all’altro, da un abito al cappotto, dopodiché la riponeva tra suoi gingilli più cari, reperti più strambi fatti di fiocchetti di gomma, pezzi di giocattoli abbandonati, pezzi di vetro, residui di secchielli lasciati dai turisti e quant’altro che lei stessa andava raccogliendo ogni estate lungo la spiaggia del lido di Venezia.
Dopo la morte di Adriana, sua sorella più giovane, avvenuta in un incidente in fabbrica in Germania, una madre sempre meno lucida e un fratello disabile, Adele si era ritrovata ad essere suo malgrado, insieme a Pietro, a guida della sua famiglia. Il tempo l’aveva punita con i suoi segni severi troppo presto, donandole un viso ruvido e spento. Era una donna piccolissima, elegante, sobria ed estranea a tutti loro, diversa anche nel dire: silenziosa e spesso assente. Gli amuleti, come la maschera di terracotta, o il libro, essenza di un destino forse un po’ troppo distratto, erano i suoi più fedeli compagni. La prima volta che iniziò questa collezione di strani amuleti fu quando Olga decise a quale delle due figlie far proseguire gli studi, visto che nessuna famiglia poteva concedersi il lusso di far studiare più di un figlio. La scelta, ovviamente, cadde su Adriana che, a detta della madre, aveva doti naturali migliori di Adele. Per la primogenita fu un duro colpo, lei che amava le lettere, la poesia, si sentì defraudata, rimossa dalla bellezza. Alla notizia, per non dare soddisfazione alla sorella più piccola del suo enorme malcontento, prese la bicicletta e corse fino fuori città. Senza fiato, ritrovatasi in aperta campagna, vide lungo un fossato la carcassa di una pecora, e allora ricordò come uno dei suoi romanzieri preferiti, Ernest Hemingway, tenesse sempre nelle tasche due ossicini di pollo quando scriveva o quando iniziava la sua fase di concentrazione dello scrivere
, li muoveva sotto le dita e questo gli procurava energia. Le piaceva l’idea di provare la medesima emozione e così si avventò sui resti e sottrasse le piccole zampette ossute dell’ovino. Le mise in tasca, e subito quelle strane creature le diedero una sensazione di benessere, di appartenenza e di sorriso, riuscendo a scacciare in un batter d’occhio ogni cattivo pensiero. Da lì iniziò la bizzarra collezione di cui solo da qualche anno si era disfatta, conservando però la maschera di terracotta e le prime zampette, qualche altro piccolo oggetto mutilato e il libro.
Quando successivamente Adriana, per la sua indole ribelle decise di lasciare il collegio per trasferirsi in Germania, dove si sposò dando alla luce Flaminia, Adele non glielo perdonò, allontanandola dalle sue attenzioni. Dopo pochi anni dalla nascita della bimba però avvenne l’incidente: la rottura di un cavo d’acciaio dal soffitto, nello stabilimento tessile dove lavorava come operaia, cedette sulla linea dove lei ed altre due colleghe erano intente a controllare che i filati venissero arrotolati e incapsulati nelle assi di cartone che li contenevano, tirando giù con sé l’intero impianto di lavorazione. La morte di Adriana radicò un senso di colpa in Adele che la tenne per sempre in ostaggio. Dopo la morte della sorella, il marito di quest’ultima, incapace di badare alla loro figlia, Flaminia, tornò in Italia e consegnò la creatura ad Adele, come un pacco scomodamente ingombrante. Adele la accolse a braccia aperte, sperando che le alleviasse la soffocante sofferenza.
Alle undici Adele aveva completato tutto, così corse in bagno a farsi una doccia e sistemarsi. Detestava farsi vedere in disordine, soprattutto da Pietro. Voleva che non pensasse a lei come a una donna abbandonata a se stessa, succube di una vita di moglie-madre, anche se era a tutti gli effetti così. Pietro era un uomo schivo, coriaceo, rigido nelle emozioni, la perfetta copia di una pietra grezza. Di qualche anno più grande della moglie, Egli conduceva uno stile vita tutto suo, con principi curiosi e fuori dal comune. Non aveva mai regalato un fiore alla moglie perché lo considerava un gesto inutile in quanto – sosteneva – avendo un pezzo di terra tutto loro fuori Padova che donava ad ogni primavera solo meraviglie, era ignobile pensare di acquistare un qualsiasi volgare prodotto di serra. Trovava superfluo anche che lei comprasse vestiti che non fossero necessari, o altro accessorio, visto che non avrebbe mai avuto modo né tempo di utilizzarlo, causa le sue esigue uscite. Per Pietro l’essenzialità del vivere femminile era la vera saggezza. In questo trovava complicità nella suocera.
L’unica differenza tra i due era lo spessore culturale di cui Olga era assolutamente priva. Aveva a malapena finito la scuola dell’obbligo e riteneva che i libri, la musica, il cinema o altro fossero solo un tentativo destabilizzante del vivere sano. Nulla nei libri era reale, tanto meno in un film o in una canzone, e quindi, distorcendo la visione concreta, altro non erano che la vera causa della depressione di ogni essere umano, mentre per Pietro la vita era proprio la legittimità della sregolatezza, ma questo valeva solo per lui.
**
Giulio percorreva il bordo del marciapiede sul lastrone di pietra che lo delimitava, allargando le braccia per tenersi in equilibrio. Adele lo chiamò dal balcone, intimandogli di salire di corsa e di andare a lavarsi subito perché il pranzo era quasi in tavola. Giulio fece finta di non sentire e continuò a saltellare come il funambolo che aveva visto qualche giorno prima in un circo capitato per caso in città.
Giulio era un ragazzino vivace, un guizzo di bellezza e spontaneità. A differenza di Alberta, sempre così taciturna e introversa, Giulio riusciva ad intenerire e innamorare chiunque, per la sua immediatezza che rasentava l’insolenza. Sapeva conquistare con un sorriso, a volte furbo, a volte genuinamente pulito. Non conosceva la bugia, e per quanto potesse spesso ferire non volendo, anche da adulto non perse mai la sua brutale sincerità.
In un impeto diede un calcio forte ad un pallone che finì contro la vetrata del vicino. Non ebbe un attimo di esitazione, corse a nascondersi nell’androne, fece un gran respiro e salì le scale di casa per tentare di testimoniare la sua presenza altrove. Aprì con forza la porta e spalancandola trovò Adele dritta come un fuso, se pur piccola di statura, ad attenderlo con lo sguardo severo.
«È la seconda volta questa settimana!»
«No… la scorsa volta non sono stato io.»
«Ah no? Però c’eri tu dietro Alberta a suggerirle di lanciare il pallone verso la vetrina del fruttivendolo!»
«Sì, ma non ho calciato io però…»
Su l’ultima parola gli arrivò dritto sulla guancia uno schiaffo così forte da non fargli sentire altro che la testa scuotersi sotto il colpo. Non versò una lacrima, non era da lui mostrare debolezza, fissò la madre con occhi carichi di rabbia e corse in bagno a lavarsi. Lungo il corridoio incontrò Alberta intenta ad aggiustare un giochino, non resistette e le fece lo sgambetto. Alberta cadde faccia a terra in un tonfo sordo che suscitò in Giulio una risata goduriosa. Alberta si tirò su pronta a vendicarsi con un calcio, quando il trillo inaspettato del telefono distolse i ragazzi dal litigio. Giulio anticipò la sorella e corse dalla mamma.
«Mammaaa, il telefonoooo.»
Adele accorse chiedendosi chi mai potesse essere in quel giorno di festa. Quasi sempre era per Pietro ma il primo dell’anno proprio nessuno lavorava. Adele prese il telefono. Era una voce di donna che chiedeva di suo marito. Posò la cornetta, attraversò il corridoio e avvisò Pietro della chiamata. Pietro non si scompose e si alzò per raggiungere il telefono. Adele lo incenerì con lo sguardo e in un moto di stizza raggiunse la sala del camino, richiamando tutti per il pranzo.
Per primo sistemò Amilcare proprio vicino al camino. Lo scoppiettio della legna e lo sfavillare delle fiamme lo tenevano quieto. Poi sistemò i ragazzi, mentre la madre prendeva posto all’estremità opposta di dove sedeva Pietro, al momento ancora impegnato nella telefonata. Poco dopo entrò nella stanza borbottando che anche nei giorni di festa veniva infastidito dal lavoro e che per causa di forza maggiore, subito dopo pranzo, avrebbe dovuto recarsi allo studio per una pratica urgente. Adele conosceva quelle pratiche urgenti, così come le conosceva Olga, ma tacque. Doveva prepararsi ad essere perfetta, ed anche quelle cose lì, sarebbero sparite una volta che lei avesse pianificato gli obiettivi.
Adele interruppe il borbottio di Pietro invitando tutti a mangiare prima che il cibo potesse raffreddarsi. Mangiarono, forse per la prima e unica volta, in un inconsueto silenzio. Ognuno perso nei propri pensieri. Adele continuava a fissare il marito nella speranza di carpire nei suoi gesti, nel suo sguardo, un qualcosa che le facesse sperare di essersi sbagliata; Pietro mangiava avidamente controllando di continuo l’orologio; Giulio fissava la mamma e poi Flaminia per cercare la somiglianza, perché una zia somiglia a una madre gli avevano detto a scuola, e intanto si chiedeva se anche la mamma avesse avuto la stessa mania di Flaminia di lavare le mani sette volte e mezza e sempre quando lui doveva correre in bagno; Alberta mangiava a testa bassa, senza guardare nessuno, chiedendosi tra sé se anche la sua mamma un giorno sarebbe morta proprio come la zia Adriana, un’ossessione che la attanagliava da quando c’era stato l’incidente; Olga, non faceva che borbottare, utilizzando metafore, su quanto fosse sciocca questa figlia e continuandosi a domandare perché Dio le avesse dato questa punizione; Flaminia osservava i cugini e vedendoli bisticciare di continuo si riteneva proprio fortunata ad essere figlia unica in una grande famiglia; infine Amilcare, che di quel tutto era davvero estraneo, perso nella sua inabilità si dondolava avanti e indietro sulla sedia fissando il fuoco che andava ad affievolirsi sotto la non curanza di