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Lezioni di Socioterapia
Lezioni di Socioterapia
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Lezioni di Socioterapia

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Questo primo ciclo di lezioni è dedicato non solo a tutti coloro che si avvicinano alla nostra materia per studiarla, ma anche a coloro che, curiosi, decidessero di dedicare una parte del loro tempo a quella che da molti puristi della sociologia viene considerata una sorta di eresia, un'originalità forse troppo spinta dal punto di vista disciplinare

poiché, tradizionalmente, ritengono che la sociologia dovrebbe servire ad esaminare i grandi temi macro-sociali o, al massimo, alcuni tipi di riflessione micro-sociologica.

La Socioterapia cerca, dunque, di capire il perché della genesi di tali stati, spesso difficilmente spiegabili attraverso le terapie in auge. Essa nasce da più di venticinque anni di lavoro sul campo, di impegno nel comprendere qualcosa di più sui fenomeni umani ed è partita proprio dalle tossicodipendenze -- frequentemente indicate come fenomeno

ad a origine sociale ed altrettanto frequentemente affrontate con strumenti altri, quali quelli farmacologici, psicologici, psicanalitici ecc. che è come se avessero messo in secondo piano, o negato, tale origine -- per estendersi poi ad altri campi e, per farlo, ha utilizzato, appunto, strumenti sociologici. Ha iniziato ad operare laddove i fenomeni apparivano come inspiegabili e si è posta come una disciplina che cerca di leggerli da una prospettiva "diversa".

Le droghe non si usano da sempre, sono presenti da molto tempo. La cocaina è una sintesi delle foglie di coca, esattamente come l'eroina è una sintesi di un prodotto del papavero. Abbiamo distrutto intere popolazioni con l'alcol distillato, come oggi sono distrutti con le droghe di sintesi (ma non solo) interi strati delle nostre popolazioni.

La psicologia ha affiancato a se stessa la psicologia sociale per riuscire a spiegare certe classi di fenomeni: se si deve intervenire per comprendere le fonti di un problema non solo individuale (o non individuale) significa che, in un qualche modo, si deve usare

l'approccio sociologico; nel momento in cui una disciplina mette a disposizione strumenti per potere intervenire, non si eliminano le persone che non dovessero rientrare nella teoria, si limita, si elimina o, meglio, si evolve la teoria. Lo stesso vale per la socioterapia perché non è un dogma, è aperta, se per un qualche motivo dovesse non

funzionare allora la si dovrebbe modificare o buttare.

Le Lezioni di Socioterapia nascono dalla necessità, da un lato, di rendere più accessibile il complesso discorso contenuto nel mio precedente testo, "Malattie mediali", teorico e di fondazione della disciplina, frutto di una meditazione durata oltre dieci anni e necessariamente tradotta in termini teorici di non facilissima lettura;

dall'altro di rendere più chiaro e fruibile uno strumento di comprensione di sé o dell'altro, o degli altri per chi desideri approfondire la conoscenza di questo paradigma, peraltro in continua evoluzione, al fine di farlo diventare l'asso portante di un proprio impegno professionale.
LanguageItaliano
Release dateJan 11, 2017
ISBN9788822884305
Lezioni di Socioterapia

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    Lezioni di Socioterapia - Leonardo Benvenuti

    Introduzione

    Questo primo ciclo di lezioni è dedicato non solo a tutti coloro che si avvicinano alla nostra materia per studiarla, ma anche a coloro che, curiosi, decidessero di dedicare una parte del loro tempo a quella che da molti puristi della sociologia viene considerata una sorta di eresia, un’originalità forse troppo spinta dal punto di vista disciplinare poiché, tradizionalmente, ritengono che la sociologia dovrebbe servire ad esaminare i grandi temi macro-sociali o, al massimo, alcuni tipi di riflessione micro-sociologica.

    Con buona pace di tutti costoro, l’ipotesi socioterapeutica parte da una considerazione iniziale: dato che una buona parte della sociologia, come disciplina, fonda le proprie riflessioni e teorie a partire dall’esistente e dal singolo – ad esempio attraverso interviste, colloqui in profondità, ricerche campionarie ecc. – è quanto meno curioso che deleghi ad altre discipline l’applicazione delle medesime (considerazioni finali, riflessioni e teorie) alla società o ad appartenenti ad altre professioni o a singoli. Teorizzare sulla famiglia, o sull’educazione, o sul disagio, o sui media, o su tanti altri campi senza ritenersi in grado di aiutare nemmeno una persona portatrice di forme di disagio rientranti in tali ambiti mi sembra un’originalità non degna di un sapere che aspiri ad essere disciplina completa. Oltretutto, sembra non essere troppo corretto delegare ad altri il controllo o meglio la conferma empirica dei propri apparati teorici.

    È sulla base e a partire da tali considerazioni che, ad esempio, è nato uno dei concetti della socioterapia, quello di approccio ecologico al disagio: ¹ l’idea dalla quale nasce è che vi possa essere un’intera classe di fenomeni riguardanti le singole persone che influisce sulle loro vite, rendendo queste ultime poco gradevoli, e la cui origine è difficilmente riferibile ad un semplice malfunzionamento dei loro corpi, quanto piuttosto è imputabile a fattori diversi e la cui risoluzione può essere affrontata con strumenti a origine sociologica, che sono differenti da quelli medici, o farmacologici o anche semplicemente psicologici. In tali casi, ad essere chiamata in causa è, proprio, la persistenza in stati di disagio, dovuti a difficoltà legate a fattori ambientali e/o relazionali, che porta a malfunzionamenti affrontabili con interventi mono o multidisciplinari.

    La Socioterapia cerca, dunque, di capire il perché della genesi di tali stati, spesso difficilmente spiegabili attraverso le terapie in auge. Nasce come utilizzo della sociologia, delle sue teorizzazioni e strumenti per interventi terapeutici: passaggio non facile ed estremamente rischioso nel momento in cui venisse percepito come un’indebita ingerenza in campi teorico-disciplinari che hanno, da sempre, considerato tale dimensione come proprio feudo esclusivo dato che, occorre ricordare, esso è anche fonte di grandi risorse.

    Le Lezioni di Socioterapia nascono dalla necessità, da un lato, di rendere più accessibile il complesso discorso contenuto nel mio precedente testo, Malattie mediali, teorico e di fondazione della disciplina, frutto di una meditazione durata oltre dieci anni e necessariamente tradotta in termini teorici di non facilissima lettura, come ben sa chi lo porta come testo d’esame nel proprio curriculum di studi; dall’altro di rendere più chiaro e fruibile uno strumento di comprensione di sé o dell’altro, o degli altri per chi desideri approfondire la conoscenza di questo paradigma, peraltro in continua evoluzione, al fine di farlo diventare l’asso portante di un proprio impegno professionale.

    L’approccio disciplinare socioterapeutico cerca proprio di capire i perché della genesi di alcune situazioni personali che possono essere frutto di condizionamenti e influenze esterne, non spiegabili attraverso le teorie in auge. Faccio un esempio: perché un ragazzo o una ragazza brutti dovrebbero avere problemi? Fisicamente non hanno niente, nessuna malattia, il loro corpo è perfettamente funzionante eppure nessuno li vuole: un mio paziente mi diceva Posso essere amico, compagno, ma non partner, nel momento in cui non sono capace di decodificare l’altro in modo da interessarlo retroagisco su me stesso, sto male, mi intristisco, sono e mi sento fondamentalmente solo.

    In termini tecnici si patologizza e a quel punto sì che possono sorgere una serie di altri sintomi: ma se noi andassimo semplicemente a curare il sintomo, cosa cureremmo? Se ci attaccassimo al sintomo, che senso avrebbe l’intervento? Il sintomo mi interessa ma non mi dice nulla finché non sono riuscito ad impostare un percorso che mi permetta di stabilire se sia la macchina-uomo che si è rotta – e allora lo mando dai tecnici giusti – se sia semplicemente una difficoltà di decodifica di sé o dell’ambiente: allora intervengo cercando di spiegargli chi egli sia, come intervenire sull’esterno, co-costruendo la lettura della sua situazione e il progetto per tentare di uscire dallo stato di disagio.

    Il singolo non dovrebbe essere considerato come un individuo isolato ma come appartenente organico ad un contesto dal quale trarre tutte le risorse per arrivare a dare una forma soddisfacente alla propria identità – a meno di patologie fisiche o psicologiche evidenti per le quali, come già ricordato, si rinvia agli specialisti del caso – ed è soprattutto a questo livello che può incontrare difficoltà nella formazione di tale identità, nel decodificare il proprio ambiente, nel definire il proprio ruolo in esso, nel relazionarsi con gli altri o nella ricerca di un partner, e così via; la stessa tossicodipendenza, in alcuni casi, finisce con l’essere una risposta, sbagliata ma comprensibile, a tali difficoltà … ed è proprio a questo livello che può intervenire il socioterapeuta.

    La Socioterapia nasce da più di venticinque anni di lavoro sul campo, di impegno nel comprendere qualcosa di più sui fenomeni umani ed è partita proprio dalle tossicodipendenze – frequentemente indicate come fenomeno ad origine sociale ed altrettanto frequentemente affrontate con strumenti altri, quali quelli farmacologici, psicologici, psicanalitici ecc. che è come se avessero messo in secondo piano, o negato, tale origine – per estendersi poi ad altri campi e, per farlo, ha utilizzato, appunto, strumenti sociologici. Ha iniziato ad operare laddove i fenomeni apparivano come inspiegabili e si è posta come una disciplina che cerca di leggerli da una prospettiva diversa. Spesso, quando mi chiedono chi siano i tossicodipendenti rispondo di non saperlo: conosco il singolo tossicodipendente, posso farmi un’idea della tossicodipendenza, a volte i tossicodipendenti hanno comportamenti simili ma, anche qui, il simile non mi interessa, occorre ricordare che per chi ha fame la foto di un panino non sostituisce il panino, nonostante la somiglianza.

    Le droghe non si usano da sempre, sono presenti da molto tempo. La cocaina è una sintesi delle foglie di coca, esattamente come l’eroina è una sintesi di un prodotto del papavero. Abbiamo distrutto intere popolazioni con l’alcol distillato, come oggi sono distrutti con le droghe di sintesi (ma non solo) interi strati delle nostre popolazioni. La psicologia ha affiancato a se stessa la psicologia sociale per riuscire a spiegare certe classi di fenomeni: se si deve intervenire per comprendere le fonti di un problema non solo individuale (o non individuale) significa che, in un qualche modo, si deve usare l’approccio sociologico; nel momento in cui una disciplina mette a disposizione strumenti per potere intervenire, non si eliminano le persone che non dovessero rientrare nella teoria, si limita, si elimina o, meglio, si evolve la teoria. Lo stesso vale per la socioterapia perché non è un dogma, è aperta, se per un qualche motivo dovesse non funzionare allora la si dovrebbe modificare o buttare. L’aderenza alla teoria è importante ma la teoria è uno strumento a disposizione delle persone, dell’ambiente, e non viceversa.

    Nel momento in cui mi sono trovato a dover affrontare ragazzi con problemi di tossicodipendenza, ho visto che, in tanti casi, quasi tutti gli approcci psicologici, psicanalitici ecc. sembravano non funzionare. Ovvero vi era una fetta di persone per le quali sembravano funzionare, e qui parlo, ad esempio, dei successi della scuola francese – ad esempio con Olivenstein e Bergeret – mentre un’altra fetta di persone sembravano esterne a questo tipo di approccio.

    Un esempio per tutti: i tossicodipendenti molto spesso dicono bugie, mentono. Per cercare di dare una spiegazione a tale fenomeno mi sono riferito ad una caratteristica che sembra accomunare anche tanti altri giovani e che, in socioterapia, viene presentata sotto l’etichetta del paradosso del mentitore: centinaia di ore di fruizione televisiva, in particolare, e mediale in generale, fanno sì che i ragazzi si ritrovino nella situazione di persone che hanno a disposizione una serie quasi illimitata di immagini corredate di colonna sonora, di effetti speciali, di quanto escogitato dalla produzione per farle accettare ai consumatori, di rappresentazioni che, spesso, si vanno a scontrare con le nozioni di tipo educativo offerte e/o possedute. Nello scontro tra questi due insiemi di immagini, sovente, si ritrovano in difficoltà poiché tali immagini sono staccate da ogni riferimento all’ambiente esterno e questo li mette in condizione di potersi comportare come fossero di fronte ad una sorta di televisione che, nel caso ci fossero trasmissioni non gradite, permette di cambiare canale; oppure, nel caso si trovassero di fronte al canale del genitore permette loro di immedesimarsi in lui e/o di pensarla come lui; nel caso in cui fossero con un amico di pensarla come lui; nel caso fossero di fronte ad un insegnante lo stesso. È questa sorta di identificazioni successive che permette loro di potere sposare le affermazioni di chi hanno di fronte, come fossero le proprie, salvo cambiarle nel momento in cui, semplicemente, dovesse cambiare l’interlocutore. È questo che stupisce tanti genitori nel momento in cui apprendono che i figli, che con loro si comportano in una certa maniera, all’esterno, nella banda o nel gruppo, hanno comportamenti diversi o finanche opposti per cui se li ritrovano di fronte come fossero perfetti sconosciuti.

    Una delle idee base della socioterapia è che alcuni disagi espressi dai singoli possano essere indotti dai cambiamenti comunicativi, secondo una quasi ricorsività legata a quella che, nella nostra disciplina, viene chiamata la deriva storica dei media: ad ogni passaggio da un medium dominante ad un altro – occorre ricordare che tali passaggi sono stati effettivamente pochi nella storia dell’umanità, come vedremo nel prosieguo della riflessione – e si sono verificate crisi sia collettive che individuali, crisi che, pur manifestandosi come casi singoli, finiscono con il risultare incomprensibili se non affrontate in un’ottica più ampia.

    La successione storica dei media è una sorta di successione di fotografie, per cui si passa dai media legati ad oralità prelinguistiche, ai linguaggi, alla scrittura amanuense, alla tipografia e, infine, all’attuale dominio dei neomedia. La deriva in una barca serve a mantenere la direzione, e deriva storica è un modo per spiegare, metaforicamente, la successione dei media, partendo dal presupposto che vi sia un’autonoma linea evolutiva, e non qualcuno e qualcosa che la diriga: i comportamenti che mettiamo in atto in virtù di questa logica evolutiva, possono servire a determinare la direzione dell’evoluzione stessa, direzione che, peraltro, non conosciamo a priori e possiamo solo constatare a posteriori.

    ¹Cfr. Benvenuti L., Malattie mediali, Baskerville, Bologna, 2002, p. 295.

    Lezione 1

    Sulla definizione di alcuni concetti utilizzati in Socioterapia

    1.1

    Socioterapia e metodologia

    Spesso nel linguaggio di senso comune si parla di metodologia senza sapere esattamente cosa essa sia.

    Con tale termine si indica una riflessione di secondo livello sulle discipline esistenti e sui criteri che ognuna di esse adopera per organizzare i propri contenuti: ciò permette di capire che raramente si fanno discorsi autenticamente metodologici ma solo discorsi sugli strumenti o, genericamente, sui metodi ma non proprio di metodo.

    La metodologia è una riflessione che si occupa del modo in cui le teorie, nei vari campi in cui è diviso il sapere scientifico, giustificano i propri asserti: si cerca di capire e di teorizzare sui processi logici che portano le discipline a spiegare certi fenomeni, a giustificare le proprie affermazioni, a considerare una proposizione accettabile o da rigettare.

    Solo nel momento in cui si abbia una forte impronta metodologica, si può agire tanto nei settori conosciuti, applicando schemi consolidati come quello positivista, quanto in quelli per i quali non dovessero esistere né alcun tipo di conoscenza né, ancora e a maggior ragione, teorie consolidate.

    Una delle tante definizioni possibili del positivismo è che esso sia una teoria metodologica, che ha trovato in Galileo uno dei propri punti ideali di inizio, e in Cartesio il proprio teorico, con tipi di approccio che appaiono caratterizzati dal nuovo medium, la stampa, che si era appena affermato. Ad essere chiamate in causa sono: linearità, sequenzialità, certezza, simmetria tra spiegazione e previsione, replicabilità e intersoggettività nell’accertamento delle prove addotte, loro introduzione in testi stampati che permettano a chiunque di potere intervenire in un dibattito che, nel momento in cui avvenisse tra esperti, proprio per questo diverrebbe scientifico. È sufficiente una prova contraria in qualunque parte del mondo o dell’universo per ridurre o per far crollare la certezza di qualunque affermazione teorica.

    Dal punto di vista metodologico, dunque, la stampa può essere vista, da chi si avvicina al nostro approccio teorico, come la fonte di uno standard di formazione della conoscenza. In modo analogo occorre pensare all’oralità: così, ad esempio, si può leggere l’evento storico della stregoneria per cui anche la semplice accusa orale di praticarla aveva valore di prova, proprio perché ci si trovava all’interno di una cultura orale. Era la persona accusata a dovere dimostrare la propria innocenza, in quanto l’essere detti faceva scattare una sorta di presunzione, una prova orale, di colpevolezza. Del resto ancora oggi nei piccoli paesi o nei gruppi informali l’essere parlati alle spalle, l’essere sula bocca di tutti è già un possibile stato di accusa da cui doversi difendere, mentre all’interno di una cultura tipografica, positivista, lo stesso valore viene dato solo a ciò che è scritto (presunzione di innocenza rispetto a quanto oralmente detto e non certificato).

    Un cambiamento importante è stato determinato proprio dall’entrata del positivismo nel diritto, nella filosofia e nella religione: si può pensare che, rispetto alla religione, il positivismo rappresenti il primo passo verso una teoria non religiosa della vita, verso un laicismo introdotto da quel rivoluzionario eppur si muove di galileiana memoria. Fino al Medioevo il nominare Dio o, a seconda dei casi, gli dei era scontato, tutto era riferito ad esso, o ad essi, dopo il cinquecento diviene sempre più raro nelle nostre culture, anche se resta in altre quali, ad esempio, i popoli di fede islamica.

    Nei termini della socioterapia, indubbiamente, si parte da una approccio metodologico positivista, ma si cerca di spiegare anche alcuni fenomeni che sembrano andare al di là di esso: se il mio corpo dovesse stare male, indubbiamente vado dal medico (positivista) e non dallo stregone – anche se oggi stanno aumentando le scelte di tipo diverso – ma se il disagio non è immediatamente riferibile alla dimensione strettamente corporea e riguarda aspetti mentali dovuti ad incapacità di comprensione del proprio ruolo nella società o nella relazione o ad aspetti che non rientrano nelle capacità esplicative del positivismo, allora occorre integrare tale approccio o addirittura andare al di là di esso. Così, ad esempio, essendo noi all’interno di un mutamento culturale introdotto dall’ultimo in ordine di tempo, cambiamento di standard di formazione della conoscenza, occorrerà ricalibrare tutti i nostri comportamenti e le nostre convinzioni: è quello che chiamo il passaggio ad una cultura post-tipografica. Così, nella pratica quotidiana, molto spesso non sono riuscito a trovare approcci teorici che mi permettessero di intervenire in modo soddisfacente rispetto alla tossicodipendenza: le spiegazioni che di volta in volta venivano date, ad esempio nella scuola francese sopra ricordata, pur riguardando solo una fetta delle persone con problemi di dipendenza patologica, finivano comunque per essere importanti ai fini di abbozzi preventivi, proprio perché il modello positivista si basa sulla spiegazione e, simmetricamente, sulla previsione. Spiegare e prevedere: ma come ci si può riuscire per capire la tossicodipendenza? Come si fa a fare prevenzione se non si ha la spiegazione del fenomeno che sia essa stessa simmetricamente utilizzabile in termini previsionali? Il problema metodologico è importantissimo, il salto da fare non è rinnegare il positivismo, che sarebbe banale, ma integrarlo in una teoria più ampia. È vero che nessuno ha la verità in tasca, ma questa non è una giustificazione, una teoria può non essere ancora stata raggiunta, ma questo non vuole dire che essa sia impossibile da costruire: il sentiero che sto tentando di tracciare non riguarda solo la tossicodipendenza, ma riguarda la categoria delle sindromi mediali come malattie della comunicazione che inducono dipendenze mentali e che sono legate, secondo la mia ipotesi, in primo luogo alle difficoltà di comprensione dei cambiamenti comunicativi. Nelle dipendenze patologiche il riferimento finisce con l’essere, di volta in volta, alla droga, potentissima, ad internet, al cibo, all’angoscia, al panico ecc. Perché tutte queste malattie/sindromi? Sull’onda di tanti paesi occidentali, si danno farmaci a tutte le età, anche estremamente precoci, il dubbio è che le nostre società stiano affrontando in termini farmacologici i sintomi dei vari disagi come conseguenza di una sorta di rassegnazione rispetto alle cause, quasi che il prescindere da esse fosse una specie di prezzo da pagare per il nostro modello di sviluppo; un costo apparentemente inevitabile che però ha permesso al positivismo di divenire teorizzazione generale, metodo universale per ogni forma di sapere scientifico e per ogni tipo di organizzazione esistenziale.

    Il tipo di approccio su cui si basa la socioterapia è quello di riuscire a spiegare non solo il positivismo, ma anche tutto ciò che può servire per il suo superamento, qualora esso si dovesse rivelare non utile. Se a monte non c’è una riflessione teorica, si diventa impotenti di fronte ai disagi, mentre si dovrebbe essere tecnici di tutte le forme della comunicazione: in famiglia, nel lavoro ecc. perché siamo esseri comunicanti anche se è necessario sottolineare che non siamo i soli esseri comunicanti perché uomini infatti anche i primati, balene, api, formiche, e tutte le forme viventi hanno propri sistemi di comunicazione.

    Ci sono specie considerate immortali, come i coccodrilli, che hanno subìto pochissime modificazioni dalle epoche preistoriche ad oggi. Secondo voi può un coccodrillo costruire un aereo? Ebbene da socioterapeuta sarei tentato di dire sì poiché, ragionando in termini evolutivi, il coccodrillo può essere considerato come una tappa evolutiva dal brodo primordiale all’uomo: è chiaro che l’evoluzione delle altre specie viventi siamo noi. Metaforicamente, è come se appartenessimo ad una sorte di enorme piramide biologica nella quale, da un certo livello in avanti, il vero strumento distintivo rispetto al non-vivente finisce con l’essere la comunicazione che, unica, permette alla materia vivente di potersi evolvere e riprodurre e per questo usa comunicatori chimici o elettrici o, come fanno gli uomini, comunicatori simbolici. Il nostro cervello è interessante perché ci permette un’evoluzione che non è immediatamente né chimica, né elettrica, pur usandole entrambe, infatti riusciamo a fare, a differenza dei serpenti, dei coccodrilli e degli altri primati, una comunicazione simbolica che diviene rappresentativa, come ha ben messo in mostra Schopenhauer. A seconda delle teorie, o siamo completamente differenti dalle altre specie viventi e quindi ci sentiamo in diritto di distruggerle, oppure ci sentiamo intimamente legati ad esse. La cosa interessante è che abbiamo raggiunto un tipo di organizzazione, in quanto uomini, che ci ha portato a distruggere l’ambiente, laddove anche le cosiddette culture primitive chiedono scusa se prendono un animale dalla foresta per mangiare o un pezzo di legno per scaldare quanto hanno preso: noi ragioniamo come se fossimo i proprietari di tutto. Noi cacciamo per divertirci ed è assurdo perché non c’è nessuna altra specie che lo faccia, neppure nell’addestramento dei cuccioli ci si diverte (il gattino con il topo), i fanciulli non giocano ma imparano, poi siamo noi che li trasformiamo in bambini che giocano, ma loro sarebbero serissimi. In natura chi non riesce a diventare autonomo muore, mentre la lupa morde, delicatamente ma con precisione, l’orecchio al lupacchiotto che sbaglia, noi non lo facciamo con i nostri figli per una serie di motivi che ci hanno fatto ad arrivare all’attuale etichetta di appartenenti ad una società puerocentrica.

    In socioterapia è necessario tradurre i nostri principi, concetti e insegnamenti nei termini della persona che abbiamo di fronte per aiutarla a diventare autonoma in generale o rispetto al particolare disagio da lei posseduto: è questa la terapia. La dimensione terapeutica è quella di far crescere la persona, metterla in condizione di raggiungere il livello di conoscenze minimo per essere o per imparare ad essere autonoma.

    Se le droghe non dessero dipendenza non sarebbero un problema, ma per recuperare la libertà, purtroppo, il tossicodipendente deve limitarla, non genericamente ma all’interno di un progetto:

    egli non è autonomo perché la sua libertà diventa una parola vuota, infatti mentre l’autonomia potrebbe essere una parola dal significato pieno anche senza libertà, non è vero il contrario. Autonomia vuol dire, nei nostri termini, che una rappresentazione di sé – devo sapere, nel modo più completo possibile, quale sia la mia conoscenza di me stesso e dei miei investimenti affettivi – diviene la guida delle nostre azioni che dovrebbero, quindi, essere contemporaneamente corrette dal punto di vista cognitivo e da quello affettivo;

    il secondo aspetto importante dell’essere autonomo è quello di avere un sistema di rappresentazioni del proprio ambiente il più completo possibile;

    terzo punto, la persona dovrebbe raggiungere una forte capacità metodologica perché

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