"L'oblio di Gastón" - Magia per Ritrovarsi
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Gastón sveglia il Reale dopo aver incrociato il suo sguardo con Valeria. Si è dimenticato di se stesso, ma a partire da quello sguardo, e dopo essere quasi morto per l’impatto di quell’instante che lo ha esposto nudo davanti all’Eternità, comincia a sciogliere il cammino del Ricordo.
Juan va in giro cercando, non si può dire che sappia cosa sta cercando, però possiamo dar fede alla Speranza di Juan nell’Arte del Cercare.
Valeria, intanto, guarda il mondo e guarda Juan e Gastón.In lei convivono due realtà. Una, la quotidiana, con un fidanzato formale e amiche e le cose tipiche di una ragazza della sua. L’altra, che è come un ricordo, una rapsodia bohemian di rumori narra il poeta, o una voce nella sua testa che a volte la infastidisce e altre volte la trasporta alla sostanza dell’Essenziale dell’ Anima.
Una piazza strana in una città qualsiasi, una zia cieca e le formiche. E i cani che prendono la città in una Rivoluzione di pulci e odore di cane. Un compleanno e altri paradigmi dell’effimero alterati da questa storia di Amore Vero, più in là del Tempo e dello Spazio.
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"L'oblio di Gastón" - Magia per Ritrovarsi - Juan Pedropablo
Magia per ritrovarsi
Juan Pedropablo
Perché così è stato, è e sarà
Dedicato a tutti quelli che almeno una volta nella vota hanno sperimentato il miracolo della Sacra Comunione nella Mirada Reflejo
E un giorno gli elefanti si riuniranno per dimenticare..tutti, tranne uno
_Rafael Courtoisie_
Se io, Socrate, mi dimentico di me stesso, non sono
_Platone_
Guidato da quella fila di formiche, Gastón arriva ad alcuni tombini nei quali barboni dalle bocche puzzolenti e senza denti lo ricevono con la sprezzante cortesia con la quale sono soliti trattare i loro pari sconosciuti. Ma in pochi minuti percepiscono che l’ultimo arrivato non è un barbone comune a causa di una cert’aria di orgoglio smarrito. Sondano con domande l’ignoto pezzente, com’è andata la raccolta di cartoni, se fosse certo che in tale ospizio avrebbero aperto una mensa per indigenti, se sapeva qualcosa riguardo a un collega che aveva trovato un feto di circa sei mesi di gestazione in un bidone della spazzatura, cosa ha mangiato dopo una minestra bollita di patate, cipolle e zucca. E Gastón li ascolta, attento, però si limita solo ad alzare le spalle, o ad abbassare la testa, che è la stessa cosa, come a dire, non lo so, con il corpo, e ora con la voce, non lo so, non so nulla, non ne ho idea. Succede quindi che i mendicanti si guardino l’un l’altro, masticando polemiche e, soprattutto, disprezzo, giusto prima di scaricare una mitraglia d’insulti e sputi. Ma Gastón se s’intende di qualcosa, è di rifiuti, perciò non gli costa troppo riprendersi dal brutto momento e recuperare il filo sinuoso delle formiche, che ora segue gattonando come un bebè. E gattonando e sbavando piomba in una galleria d’arte che espone quadri dell’avanguardia locale, senza essere visto dal sorvegliante che guarda dritto verso l’orizzonte e non abbassa mai lo sguardo. E quelli lì presenti non solo non abbassano mai lo sguardo, ma guardano anche più su dell’orizzonte, annusando con narici all’insù l’aria delle alture di un’arte per pochi. Per un momento Gastón passa inosservato, raso al suolo, andando e venendo di qua e di là dietro le formiche, finché il capriccioso arbitrio di queste decide una voglia rotonda e lo incastona nelle ambigue zone intime della sottogonna di una signora. Il grido rotto d’indignazione riverbera nel minimalismo della sala turbando l’immobilità del sorvegliante che, paralizzato da tanto guardare all’orizzonte, non può acciuffare Gastón, che scappa.
––––––––
Si riprende subito dall’adrenalina della corsa e ricomincia il suo ostinato inseguimento. Si arrampica quindi con molto sforzo sulla facciata di un’antica costruzione afferrandosi a cornici ed architravi, finché riesce ad arrivare alla balaustra, sulla quale raddrizza il corpo in un equilibrio instabile. E avrebbe continuato come un gatto fedele per la ruggine del tetto di zinco, poiché per di là andavano le formichine, se non avessero attirato la sua attenzione altre formiche. Il formicaio della gente pensa Gastón mentre guarda dall’altura la prospettiva di una via affollata di persone, me lo ha detto Juan, il formichiere del mondo, ricorre nella sua mente. Intanto, di sotto, nella moltitudine, già si mettono le mani nei capelli quattro o cinque persone ferme sul marciapiede di fronte, pregandolo di non buttarsi. Non buttarti, fratello, per favore, trovi subito lavoro, perché c’è rimedio a tutto in questo mondo, a tutto, tranne alla morte, urlano costernati e contagiano la sofferenza a sempre più persone che ora si raggruppano eccitate dalle sirene della polizia e dei pompieri. Ma Gastón li ignora, e delude il morbo della folla con un mezzo giro disinvolto e, camminando con prudenza, attraversa il tetto di zinco arrugginito strisciando su una sporgenza che gli perfora la consumata suola della scarpa. Però non presta attenzione al dolore, e salta a un lotto desolato dove fruga tra le erbacce il cammino delle formiche, ignorando il fastidio delle lappole e delle spine che si attaccano alla tela della sua giacca. Dopo supera l’ultimo scoglio, un muro coperto di muschio, sul quale salta non senza difficoltà, per incrociare poi camminando tranquillamente il passaggio degli pioppi ed arrivare al centro di una pizza nella quale sotto una panchina corrosa dall’umidità c’è il formicaio. Soddisfatto, si accomoda sulla panchina. Chiude gli occhi. Muove la testa due o tre volte e, quando sembra che il sonno lo stia per vincere, fa un grosso sbadiglio e presta attenzione alle statue che popolano la piazza. Ad alcuni metri da lui, una bionda incrocia il suo sguardo, e Gastón si sente nudo, pezzente.
––––––––
Valeria è bionda ,alta, con gli occhi azzurri sorretti da un naso dritto d’autorità, e una piccola asimmetria nella composizione del suo volto le pronuncia una smorfia che a prima vista Gastón immagina di disprezzo. Lavora in una ripartizione dello stato che distribuisce tra i poveri l’elemosina del potere. Sta per laurearsi in Servizi Sociali, e da quando era bambina, quando nel giardino della sua casa di paese proteggeva l’oscillazione attenta dei fiori cullati dal vento, interponendosi con anima e vestitino a fiorellini ai pugni decisi dei suoi cugini praticando box, seppe che il suo lato migliore era il sinistro, e quando i suoi genitori divorziarono ed andò a vivere col suo cane rumoroso e la sua zia cieca in città, in un appartamento di due stanze da letto ad un ottavo piano, capì che la sua passione era il verde e, anche ora, quando salvaguarda i germogli dalle pestate sicure che sua zia cieca propina con indeciso rigore al pavimento della piazza nella quale consumano l’abitudine di passeggiare durante la siesta, prese per braccio e ruminando nostalgie, si convince che il suo colore non è il grigio, perché in città tutto si dipinge di grigio, zia, tutto di grigio, nonostante le pensiline fluorescenti, nonostante il carnevale di gesti e colori nelle facciate, perché nella città si dimentica, zia, ed è come un grigio, ed è lì che nel petto di Valeria affiorano i colori e l’aroma del suo terreno natale, del nostro paese zia, dove mi chiamavano La Valeria, quella del sole nei capelli e gli occhi d’acqua.
––––––––
Però nei tuoi occhi c’era il tuo impero, il tuo sussurro di luce fredda ed ineluttabile, e l’ombra della tua nostalgia spegneva gelo nel tuo sguardo. E fu un vuoto guardarti Valeria, un vuoto al contrario, perché quando sei entrata in me mi sono sentito nudo, pezzente. E sembravi indifeso Gastón, esposto, lì, lanciato come un sacco di ossa in questa panchina della piazza, con l’espressione persa in uno sguardo vuoto, in uno sguardo che sembrava quello di un cieco, perché guardavi molto più in là o in qua di questo mondo che non vedevi. Perché mi hai guardato come per chiedere aiuto. Perché ti ho guardato e ho saputo di essere esposto a te. Perché mi hai guardato e senza volerlo ti ho visto. Perché hai attirato la mia attenzione Gastón, quindi mi sembrò di conoscerti. Perché ho voluto sapere chi fossi Valeria, e sapere chi sono io. E sembravi ubriaco o malato con questa giacca ridicola consumato sui gomiti, sfilacciata nelle tasche e sporca da far schifo, sulla panchina di questa piazza nella quale passavano cento e cento studenti universitari, fermatisi per ridere della tua vecchia giacca, l’ultima della moda, forse, che gli succede, dicevano, giaccone da nonno, e ridevano. Però tu eri estraneo a tutto e a tutti. E nemmeno ti curasti di quelle due signore che avvicinavano il loro viso al tuo bisbigliando che sembravi un drogato e che la miglior cosa sarebbe stata che qualcuno avvertisse la polizia perché poverino, sembra un drogato. Però bastava che ti pulissi con la manica la bava che ti cadeva dalla bocca e che tirassi fuori la lingua come un bebè, balbettando qualcosa, affinché le loro buone intenzioni si mutassero in smorfie d’indignazione, mentre si allontanavano inorridite e gridando che eri un degenerato, di come era ormai persa la gioventù, perché sbavavi Gastón, sbavavi, parlando da solo, estraneo a tutto, fino a quando mi hai guardato. E fu come una ferita senza dolore, un miscuglio di tenerezza di madre e qualcosa di più. E ad averlo saputo Gastón, ti giuro che ti avrei sputato addosso o ti avrei preso a calci, o almeno ti avrei baciato, Gastón, ti avrei baciato.
––––––––
- Stai bene?
- Sì, e tu?
- Io? – Valeria sorride - Io sto bene. Però, non lo so, pensavo che tu non stessi bene.
- Stavo solo guardando... le statue.
- Sì? Fantastico, a me piace dipingere – dice Valeria con un entusiasmo parecchio finto - e a volte faccio alcune cosette in argilla, piccoli oggetti. Tu fai qualcosa?