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Festa immobile
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Festa immobile

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Ad una prima occhiata banale e forse pretenzioso, quasi a voler imitare – forse in modo troppo spudorato per essere vero -, forse più degno di un capo di abbigliamento dal marchio scolorito posto sugli scaffali di un mercatino di provincia, il titolo di questo romanzo, Festa immobile - come anche la citazione che l'autore pone in epigrafe - non costituiscono un banale espediente commerciale né tantomeno una contrapposizione al titolo del romanzo di Ernest Hemingway, Festa mobile – come dall'autore chiaramente esposto nella prefazione.
Cosa quindi di quella frase colpisce l'autore a tal punto da ispirarlo alla scrittura di un romanzo?
È l'insieme dei ricordi relativi al suo soggiorno a Parigi che Ernest Hemingway si è portato con sé durante tutto il corso della sua vita? O è piuttosto da intendersi come un qualcosa legato al divenire dell'autore, come se il suo passaggio in quella città e l'insieme delle esperienze da lui vissute siano una sorta di cartina di tornasole, un libro mastro con il quale confrontare le esperienze passate con quelle future, o addirittura un manuale di vita da consultare al bisogno?
L'autore di Festa immobile spiega il modo in cui quella frase l'abbia ispirato e come apparve ai suoi occhi; non quindi nel suo significato più semplice, ma in un altro, forse più filosofico in cui il passato diventa presente e anche guida per il futuro, formando uno spazio in cui quella mobile si scorpora dal suo tempo per diventare qualcosa di trasportabile, una foto ricordo non soggetta all'usura del tempo, un portafortuna inossidabile da tenere in tasca e toccare nei momenti difficili, una Festa immobile.
In questo ambito, gli episodi di vita vissuti e analizzati in prima persona dal protagonista, diventano spunto per discutere di vari temi: dal senzatetto ormai fuori da una logica normalità, a cui non interessa ottenere qualcosa in cambio di qualcos'altro - e pertanto punito e relegato ad una vita materialmente misera -, alla musica, presenza costante e discreta durante tutto lo svolgimento del romanzo, da alcuni eseguita e ripetuta, da altri suonata e fatta propria aspettando pazientemente, viaggiando su quell'onda solo apparentemente immobile in cui il margine di pre-meditazione che fa la spola tra passato, presente e futuro cessa di esistere aprendo a un nuovo spazio, ad una dimensione nuova a cui tendere. E a metà strada tra la vita del senzatetto, libera e misera, ed una serva, mal remunerata e conforme, esiste la vita di altre persone, verso le quali le pressioni delle istanze prodotte dalla società da una parte, e quelle prodotte dall'individuo, si fanno strada imponendo improrogabili aut-aut.
Questi come altri sono i temi e le in-sofferenze espressi in questo romanzo, in cui non mancano le critiche al conformismo ritenuto dall'autore pericoloso per l'autonomia di pensiero di ogni individuo e per l'accettazione di se stessi, poiché creatore di quel legame nefasto tra l'individuo e un modello a cui tendere, in cui quello stato di tensione non permetterà di vivere felici né oggi né domani, in cui una concezione della vita orizzontale più che verticale e un modo di approcciarsi ad essa occupandosi di ciò che già esiste, di ciò che è intorno a noi e non davanti a noi, diventa istanza fondamentale.
L'ambito di questa nuova geometria si riempie non di un sentimento collettivo, uniformante e inevitabilmente sminuente, bensì individuale, senza tempo, in cui le virtù dell'individuo sono svincolate dalle forme imposte dalla società, dallo sviluppo tecnologico e dall'epoca storica in cui viviamo.
LanguageItaliano
Release dateJan 29, 2017
ISBN9788826009452
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    Festa immobile - Francesco Bongiovi

    Francesco Bongiovi

    Festa immobile

    © Francesco Bongiovi 2017, t utti i diritti riservati.

    Titolo dell'opera: Festa immobile

    I edizione: gennaio 2017; formato: E-book.

    II edizione: gennaio 2018

    Piattaforma utilizzata: Streetlib

    Foto in copertina: elaborazione a partire da un'immagine ottenuta sul sito: freeImages.com/Lize Rixt

    UUID: b3f4cdd8-0c0b-11e8-936c-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Festa immobile

    Premessa dell'autore

    Parigi

    In metro

    Con Xenia e Grigoriy

    Chez moi

    Un problema a prezzo ridotto

    Sul boulevard beaumarchais

    Al Bizuth

    Un amo lanciato nel nostro mare

    A Saint-Germain

    In ospedale

    In compagnia

    Il vicino

    Al Fumoir

    Una festa tra amici

    Le chiavi

    I camaleonti respirano anche quando non li vediamo

    L'été Meurtrier

    Un mariage blanc

    Un chitarrista

    Completamente risvegliato

    Al Québec

    Nuovi incontri

    Miseria e coraggio

    Vecchi amici

    Un modo di vivere

    Epilogo

    Postfazione

    Festa immobile

    «Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile.»

    ERNEST HEMINGWAY, Festa mobile, Mondadori.

    I personaggi e le situazioni contenuti in questo libro non hanno nessun rapporto con la realtà.

    A mia moglie

    Premessa dell'autore

    L'idea di chiamarla immobile mi venne qualche anno fa, quando andammo a vedere Troilo e Cressida, alla Comédie Française. Il teatro, o un concerto, sono i posti ideali per lasciare la mente vagare, e in questo caso, per Festa, non deve intendersi Parigi; i ricordi di Parigi restano sempre vividi nella mente di chi ci ha vissuto, e la citazione di Hemingway è stato un modo per ribadirlo.

    In questo libro si parla di un immobilismo nefasto, le cui origini il lettore non avrà difficoltà ad identificare, e di un immobilismo salvifico, di cui la musica è il catalizzatore. Per quest'ultimo, ho voluto essere volontariamente criptico; chi leggerà si divertirà a identificare parole e frasi ad esso collegate. Se non ci riuscirà, non importa. Forse ho solo voluto che continuasse ad essere il mio piccolo segreto.

    Roma, gennaio 2017, Francesco Bongiovi

    Parigi

    Non saprei esattamente dire come alla fine di una estate mi ritrovai a Parigi. All'epoca qualsiasi spostamento che facevo esisteva nel contesto dell'attività principale che svolgevo. In ogni modo non tardai a ricordare l'aria e le abitudini del posto che qualche tempo prima mi avevano già accolto. Pur considerandosi i francesi un popolo mediterraneo, forse per ragioni linguistiche, spostandosi dall'Italia a Parigi, bisognava sempre calcolare il cambio repentino di stagione. In settembre non faceva mai caldo e neanche veramente freddo, ma l'abbigliamento dei giovani che si accalcavano intorno ai bar di Saint-Germain, pretendeva di essere a tutti costi estivo, intriso di quella noncuranza per il clima che era tipica di quella città. I camerieri del quartier latin erano sempre in strada, pronti a invitare i passanti a sedersi, o intenti a riscrivere il menu del giorno sulle lavagnette dei locali. La rue Saint-André-des-Arts era gremita di gente, ma a differenza delle città del sud, il flusso era piuttosto scorrevole. C'era sempre qualche parigino pure souche , ben vestito che, guardando quasi con disprezzo quella massa informe di gente, si apprestava a guadagnare la Place de Saint-Michel. Era difficile camminare lentamente e anche volendolo, c'era sempre qualche passante a cui, dopo un educato Pardon Monsieur , eri costretto a cedere il passo. Sulla Place de Saint-Michel gruppi di artisti di strada si esibivano tutto il giorno, dai mimi intenti ad attirare l'attenzione dei più grandi ammiccando ai più piccoli, a ginnasti che davano mostra delle loro capacità atletiche. Questi erano sempre giovani e più che dalla loro classe ed eleganza, che erano discutibili, si era colpiti dalla loro motivazione e resistenza al freddo. Poco lontano, tra l'île de la Cité e l'île Saint-Louis , la sera, l'ambiente era meno chiassoso, e la magia del suono di una fisarmonica suonata all'angolo del ponte, e di coppie che discutevano a bassa voce appoggiandosi ai parapetti, erano interrotte di tanto in tanto dal passaggio del Bateau Mouche, e da qualche ubriaco che avrebbe rotto con piacere quel muro di discrezione che i giovani creavano intorno a loro. Per lui, sarebbe stata ogni sera una battaglia persa.

    Era come l'avevo lasciata qualche tempo prima, e il fatto di esserci tornato non rappresentava nulla di straordinario per il normale corso della mia vita. Esistono tante cose che possono destare stupore a un occhio che guarda, e che, per lungo tempo, magari per sempre se si è fortunati, continuano a essere normale consuetudine per un occhio che vive. A Parigi, quello che aveva il diritto e il permesso di cambiare, lo faceva a un ritmo incessante, la cui forza, inesauribile, sembrava rinnovarsi in questo stesso movimento. Ciò che non poteva – o per mancanza di energia o per ottenimento di un nuovo privilegio - acquisiva la possibilità di restare immobile, di non mutare, di mettere in letargo la sua potenza rigenerativa. E così erano i musei, i palazzi ottocenteschi, i cosiddetti hôtels particuliers , le fontane e i monumenti: erano come vegliardi che seduti all'angolo di una strada, potevano finalmente guardarti, studiarti e se lo volevano, esprimere un giudizio. Non che ciò che ruotasse intorno a loro – o anche ciò che in fondo li riguardasse direttamente – fosse statico: erano serviti e riveriti come abbienti vecchietti quasi alla fine della loro vita; erano curati e mantenuti nel miglior modo che il tempo lo avesse ritenuto necessario, ed era bello vedere questi immortali pensionati della città continuare a brillare, seduti in quell'incessante e ordinato movimento del tempo. Magari, in epoche precedenti, quando erano pietra viva, resti concreti di qualche organismo biologico, o caldo e malleabile rigurgito di una terra infuriata, chissà se anch'essi avrebbero osservato – con invidia o con disprezzo – la loro immobile controparte: e chissà qual era. Si erano finalmente guadagnati il diritto di rimanere a cavallo del tempo, sospinti attraverso le epoche dalla loro tenacia e dalla loro immobilità.

    Ero quindi felice di constatare che il caffè principale della piazza esisteva ancora, che il supermercato di zona era nel punto esatto in cui l'avevo lasciato, e che la fermata della metro fosse ancora accessibile. Abitavo in una stanza al sesto piano di un palazzo non lontano da Place des Vosges; era molto piccola, ma dai terrazzini si poteva vedere tutta Parigi. Non era tanto bello l'appartamento, quanto quello che si poteva ammirare fuori e, benché stretto, mi ci dovevo adattare. Il proprietario, un vecchio amico, si era raccomandato di utilizzare con cura le sue padelle; era piuttosto preoccupato per il teflon che le rivestiva e mi confidò che avrebbe gradito che utilizzassi dei cucchiai in legno per evitare di graffiarle. Non fu la prima volta che mi parlarono del teflon, ma non esitai a condividere con lui la mia preoccupazione, fingendomi profondo conoscitore del soggetto. Mi disse poi che avrei potuto usare la sua casa per un po' di tempo.

    Mi piaceva quell'aria informale che tanti italiani riuscivano a stabilire, quegli sguardi, quelle occhiate piene di eloquenza, quella sensazione di continuo déjà vu che ci permetteva – in quanto già visto – il lusso di non aver paura del futuro, quella conoscenza che si stratificava nelle epoche senza interruzione, e a Roma, in quel momento dell'anno, la stagione era ancora calda, e il fine settimana, andavo spesso al mare con Eva, un'amica che, pur avendo vissuto molto tempo a Parigi, aveva deciso di trasferirsi a Roma. In quelle giornate di fine estate, sul litorale laziale, con la spiaggia quasi deserta, ti accorgevi della presenza umana dal regolare passaggio di un cane, che faceva la spola tra noi e il padrone, prima che quest'ultimo infine si manifestasse, in lontananza, preceduto dal bagliore metallico che il guinzaglio rifletteva. Altre volte, le ampie arcate di orme lasciate sul bagno asciuga, e interrotte dalle onde che riuscivano a raggiungerle, ci avvertivano che qualcuno era passato prima di noi.

    L'avevo aiutata come potevo, e anche se dopo mesi fosse ancora disoccupata, dal suo volto non traspariva nessuna preoccupazione. Era piuttosto riservata, e credo che apprezzasse in me il fatto che facessi poche domande. Era fidanzata da tanto tempo con un collega, che viveva in Germania, ma la nostra amicizia non dipendeva dal conoscerla veramente; negli istanti e nei vari momenti in cui la vedevo, la sua presenza mi bastava. Non avevo nessuna domanda da farle, o quelle che ci facevamo non pretendevano mai di trattare contenuti che sconfinassero di più di cinque minuti la fine della conversazione. Non era superficialità e neanche mancanza di interesse la nostra, per noi era tutto normale.

    Ero rimasto in piedi, di fronte alla finestra, dietro di me, poco lontano dalla porta di ingresso, due valigie ancora piene si tenevano in equilibrio una contro l'altra, come macigni appartenenti a un'altra epoca. Erano talmente pesanti che avresti potuto immaginare i segni del loro passaggio al suolo, ma fortunatamente questi non c'erano, e di lì a poco sarebbero state disfatte.

    [1] I francesi usano spesso queste due parole per indicare quelli che non hanno un'ascendenza straniera e che quindi appartengono a famiglie francesi da varie generazioni. Come curiosità les cellules souches sono le cellule staminali.

    [2] Le due isole sulla Senna nel centro di Parigi. Su l'île del la Cité si trova la cattedrale di Notre-Dame de Paris.

    [3] Un hôtel particulier è un immobile antico in cui abitava una sola famiglia. A Parigi di solito gli hôtels particuliers risalgono al medioevo o al '700.

    [4] In italiano: già visto.

    In metro

    Se una città è bella, se gli spazi pubblici sono ben conservati, se vivi da poco in un posto nuovo e la monotonia degli spostamenti non ha ancora avuto il sopravvento su un normale istinto di curiosità, si possono percorrere comodamente svariati chilometri a piedi; poi, stanchezza, fame e altri bisogni fisiologici possono impedirci di soddisfare il nostro bisogno di stare all'aria aperta.

    Il problema della metro non era di certo la possibilità di condurre un numero elevato di persone da un posto all'altro della città, ma era la sua stancante e alienante prevedibilità. Se eri costretto ogni mattina a raggiungere un luogo, dopo circa una settimana eri perfettamente conscio di quello che ti sarebbe aspettato, quando, dopo aver fatto colazione, magari di fretta, ed esserti allacciato le scarpe, il futuro della prossima mezz'ora era già segnato: spintoni, piedi calpestati, spallate – il tutto carinamente intervallato da regolari e ritmici pardon -, ognuno dei quali vissuto come presagio della prossima inevitabile scortesia. E non era tutto: all'ingresso, strisciando pigramente e pesantemente il tuo Navigo, capitava di essere placcato da dietro da qualche mauvais payeurs, che in quel violento amplesso, ti chiedeva cortesemente di essere traghettato dall'altra parte della sbarra. Le prime volte ti giravi sorpreso, osservando il tuo partner - che anche se occasionale, avrebbe potuto meritare un'umana curiosità - nell'attesa del solito prevedibile pardon che inesauribile arrivava; dopo, non facevi neanche più il gesto, e usavi l'abbrivio di quel rapporto scoperto per correre diritto alle banchine.

    In città, quel fastidioso e scomodo mezzo diventava una sorta di nuova unità di misura, il regolo delle attività e dei sentimenti umani più disparati, e il primo che mi fece riflettere a ciò fu il mio capo, che durante gli ambulatori, chiedeva sempre ai suoi pazienti con quale mezzo avessero raggiunto l'ospedale: se rispondevano in metro, non c'era troppo da preoccuparsi per il loro stato di salute. In altri casi, il fattore metro, o più in generale i mezzi pubblici, erano usati a scopo recriminatorio per l'ottenimento di benefici che più che tali, in quella situazione diventavano dei veri e propri bisogni. Mi sembra ancora di sentirli alcuni dei miei colleghi, che ogni

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