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Niente Panico
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Niente Panico

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About this ebook

Quattro donne, di diverse fasce d’età, sono accomunate dall’esperienza del “Disturbo da attacchi di panico” (DAP). Scrivono le loro esperienze, con tono a tratti doloroso a tratti ironico, i loro vissuti, le loro speranze, denunciando finalmente “ dalla parte di chi sta male” quanto, di norma, viene taciuto dagli addetti ai lavori. Si affronta, dunque, anche il periodo che segue il disturbo, chiamato comunemente “strascico”, a cui non viene data, di solito, importanza.

Un filo conduttore lega le diverse esperienze, alcune delle quali si svolgono in tempi diversi.

Si viene così a conoscenza di come questo lungo e subdolo disturbo possa colpire chiunque: dalla giovane studentessa alla madre realizzata, dall’impiegata all’insegnante, coinvolgendo non solo le persone direttamente interessate, ma anche le loro famiglie.

Non manca un finale a sorpresa, sottile metafora della falsità che circonda questo argomento.

Si fa presente che, nel mondo, milioni di persone soffrono o hanno sofferto di questo disturbo. Nonostante ciò, l’informazione è sempre scarsa, superficiale e imprecisa. Perché?

Un romanzo attuale che vuole essere, oltre che una denuncia, anche un aiuto, senza pretese terapeutiche, a tutte quelle persone che stanno vivendo questa terribile esperienza.

Il libro, essendo un romanzo, si rivolge inoltre a qualsiasi tipo di lettore.
LanguageItaliano
Release dateFeb 1, 2017
ISBN9788826012414
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    Niente Panico - Elisabetta Blandino

    Pubblicato online

    nel mese di Dicembre 2016

    Elisabetta Blandino

    Anna Jorio

    Manuela Lilac

    Lucia Zante

    NIENTE

    PANICO

    ROMANZO

    Quattro donne, di diverse fasce d’età, sono accomunate dall’esperienza del Disturbo da attacchi di panico (DAP). Scrivono le loro esperienze, con tono a tratti doloroso a tratti ironico, i loro vissuti, le loro speranze, denunciando finalmente dalla parte di chi sta male quanto, di norma, viene taciuto dagli addetti ai lavori. Si affronta, dunque, anche il periodo che segue il disturbo, chiamato comunemente strascico, a cui non viene data, di solito, importanza.

    Un filo conduttore lega le diverse esperienze, alcune delle quali si svolgono in tempi diversi.

    Si viene così a conoscenza di come questo lungo e subdolo disturbo possa colpire chiunque: dalla giovane studentessa alla madre realizzata, dall’impiegata all’insegnante, coinvolgendo non solo le persone direttamente interessate, ma anche le loro famiglie.

    Non manca un finale a sorpresa, sottile metafora della falsità che circonda questo argomento.

    Si fa presente che, nel mondo, milioni di persone soffrono o hanno sofferto di questo disturbo. Nonostante ciò, l’informazione è sempre scarsa, superficiale e imprecisa. Perché?

    Un romanzo attuale che vuole essere, oltre che una denuncia, anche un aiuto, senza pretese terapeutiche, a tutte quelle persone che stanno vivendo questa terribile esperienza.

    Il libro, essendo un romanzo, si rivolge inoltre a qualsiasi tipo di lettore.

    INDICE

    PARTE PRIMA

    PARTE SECONDA

    PARTE TERZA

    I

    PARTE PRIMA

    AMANDA

    Sono in viaggio; sto partendo per le vacanze con la mia famiglia, ma a essere sincera non mi importa, anzi da molti mesi non mi interessa più nulla, da quando non ho più energie per fare la minima cosa, da quando è l’ansia a comandare le mie giornate, da quando una gastrite e una nausea croniche mi fanno vivere come se fossi perennemente su una barca, in balia di una tempesta, da quando il DAP, il maledetto DAP, si è impossessato di me.

    Siamo in auto, mi sono seduta davanti, ormai il sedile posteriore è solo un ricordo, non riesco più a starci: mi manca l’aria, la macchina pare inghiottirmi!.

    Guardo fuori dal finestrino, ho la nausea e cerco di non muovermi, il paesaggio mi sembra irreale, lontano; vedo macchine incolonnate cariche di gente sorridente, bambini allegri, giovani, scanzonati e felici al pensiero delle vacanze tanto attese e mi chiedo quando tornerò a essere spensierata anch’io.

    All’improvviso squilla il cellulare di mia madre. Risponde… è Sofia. Per un attimo mi si allarga il cuore: è lei, la mia compagna di viaggio, sì, compagna di questo terribile percorso che ci è piovuto addosso praticamente nello stesso periodo, mese più, mese meno… chi lo conta più tutto questo tempo di buio.

    Sofia si interessa subito a me: Come sta Amanda? Come procede il viaggio?.

    Mia mamma risponde, come la sento fare da troppo tempo ormai: Ha la solita ansia, è molto stanca, non ha voglia di partire….

    La prossima settimana Sofia e la sua famiglia ci raggiungeranno al mare; sono ormai anni che trascorriamo le ferie assieme, solo che quest’anno entrambe abbiamo un presentimento: crediamo che nulla sarà come prima. Anzi io lo so, perché è già la seconda estate che sto male.

    Comunque non vedo l’ora che arrivi: non si dice che mal comune è mezzo gaudio?

    Ho voglia di vomitare, vorrei scendere dalla macchina, ma quando ci fermiamo all’autogrill non metto un piede fuori: tanta gente, troppa confusione, una coda immensa per entrare. Preferisco tenermi la pipì per altre quattro ore. Rimango immobile, statica, svuotata.

    Papà e Gino, il mio fidanzato, sono andati a prendere qualcosa da bere.

    Io rimango con mamma, anche lei non è scesa dalla macchina; le guardo il viso, non ha l’espressione felice come gli altri anni, gli occhi sono un po’ spenti. Sento che è tesa, preoccupata e dispiaciuta per me, anche se si sforza di non darlo a vedere; penso che per una madre veder soffrire per così tanto tempo la propria creatura non sia una bella esperienza. Sinceramente non so cosa avrei fatto senza di lei, senza la mia famiglia.

    Anche il gatto di casa, Pongo, mi è stato, a modo suo, di conforto in questo periodo buio; le sue fusa armoniose e il suo soffice pelo candido hanno funzionato quasi meglio di un antidepressivo… anche se purtroppo ho dovuto buttar giù pure quello, la magica pillolina che tanto promette e poco mantiene.

    Per non parlare di quanto casino per trovare il medicinale giusto, senza troppi effetti collaterali; e pensare che Sofia neanche quello può prendere… poveraccia!

    Gino torna con delle bibite ghiacciate e me ne porge una; il liquido gelato che scorre dentro di me mi ricorda che sono viva, che riesco ancora a provare altre sensazioni oltre a quella dell’ansia.

    Vorrei fumare. Apro la porta dell’auto, ma non scendo, proprio non me la sento.

    Abbraccio Gino, che si è avvicinato e cerca di scrollarmi un po’ dalla mia apatia tirandomi dei buffetti… ma io penso solo che ho paura, paura di non uscire più da questa situazione, paura di trascorrere una brutta vacanza e di rovinare anche a lui questo periodo che dovrebbe essere spensierato.

    Torna anche papà, mi fa un sorriso che io a stento riesco a ricambiare.

    Riprendiamo il viaggio, mancano ancora molti chilometri, purtroppo.

    Vorrei essere a casa da sola, nella mia mansarda trasformata, in questo brutto periodo, da dolce rifugio a squallida prigione, nel letto a dormire, lontana da tutto e da tutti; vorrei sentire il mio corpo che sprofonda nel materasso e vorrei non pensare più a nulla, vorrei che il mio cervello avesse un tasto on-off per riuscire a spegnerlo quando i pensieri si affollano, si ingrandiscono, danno il tormento.

    Ricordo che una volta era una festa partire per le vacanze, una gioia i preparativi… ora il pensiero di arrivare al villaggio e disfare i bagagli mi sembra una montagna ripida e impervia da superare: aprire e organizzare la villetta assomiglia a una delle dodici fatiche di Ercole.

    Mi sento come trasportata, in balia dell’energia degli altri, perché la mia è come una fiammella, una piccola candela che ormai non riesce più a illuminare una caverna diventata troppo fredda e buia.

    Finalmente arriviamo al villaggio. Scendo dalla macchina, le gambe intorpidite mi reggono a stento in piedi, il caldo mi dà fastidio, mi sento la pressione bassa… direi che come inizio fa proprio schifo.

    ANNA

    La stessa domanda: Ma succede solo a me?.

    Ciò che sento, quel che vedo, quegli odori che invadono le mie narici, la reazione della mia pelle, il cuore leggero, il cuore pesante, l’allegria, il dolore, i colori…

    È tutto esattamente come ciò che sente quel ragazzo laggiù, seduto in fondo al pullman, che molleggia la testa sul collo al ritmo di chissà quale melodia? O come la signora in piedi, attaccata all’unico appiglio verticale, che le consente di non spargere a terra le arance che ha comprato per il suo nipotino… profumo di borotalco e manine morbide, che la sta aspettando a casa?

    L’altro giorno in montagna sono entrata in un bugigattolo: Produzione propria formaggi e yogurt indicava l’insegna.

    L’ ho fatto con l’illusione di tornare a casa con una borsa piena di memorie, di odore di stalla, di latte tiepido e di calore; ho trovato dentro invece, inaspettatamente, il mio di calore… quel sapore dolciastro delle latterie che mi accoglievano, quando ancora al banco nessuno vedeva me perché i miei occhi non raggiungevano l’altezza della cassa.

    Ha sempre un buon sapore questo viaggio, questo ritrovarmi bambina in un battito di ciglia, come se una forza benevola mi trascinasse indietro con dolce violenza a rivivere il conforto di attimi felici.

    Grembiulino bianco e un grande fiocco blu a incorniciarmi il mento, capelli raccolti in una coda sofferta, chiusa da un elastico di gomma che sembra voler strappare i capelli da ogni neurone del mio cervello.

    Il viso inclinato, lo sguardo un po’ abbassato, come a chiedersi se davvero ho meritato di stare a questo mondo, ma soprattutto se davvero sarò capace di non dare mai motivo a nessuno di chiederselo.

    La stessa bambina, dieci mesi dopo, indossa un altro grembiulino, nero stavolta, con un altro fiocco, rosso stavolta, a incorniciarle il mento.

    La stessa aria da ospite del mondo; i capelli sciolti, unica misera vittoria per il suo cervello.

    Un involucro ingannevole questo corpo alto un metro e trenta, quelle guancine rosse e tonde, i compiti da fare, la focaccia comprata di corsa e ficcata nella cartella… carta stropicciata e briciole sparse tra le pagine dei libri.

    Quattro ore, un’anziana maestra profonda e giusta, con una storia da raccontare per ogni capello bianco, pare voler fuggire ai solchi che disegnano il suo viso, al passo faticoso, alle lenti spesse buttate lì, quasi per gioco, su un delizioso nasino a patata, sfrontato e spiritoso, che ostenta convinto una giovinezza che non c’è più.

    Ultima ora, scienze: le rane e le lucertole.

    Sulle rane ci sono: girini, stagno e odore di marcio; sulle lucertole invece mi attanaglia un dubbio feroce: cosa vuol dire possono perdere la coda ma tranquilli, bambini, tanto poi ricresce?

    E le lucertole che non la perdono? A un certo punto se ne trovano due?

    Finalmente suona la campanella.

    Corri Anna, che quelli della quinta sono più vicini all’uscita, se non ti infili nel portone prima di loro non ce la farai mai.

    Non c’è l’obbligo della fila; corro sgambettando fuori dalla scuola, scommettendo tra una cartella sbattuta sulla spalla e un calcio sugli stinchi.

    Cortile primaverile. Vedo la madre di Luca, la nonna di Giovanna e il pulmino giallo con il solito autista, rassegnato, ormai affetto da sordità selettiva, che guida attento fermandosi solo quando ha raggiunto l’uscio destinato al frugoletto di turno.

    Continuo la mia corsa, sempre più veloce.

    Riconosco i visi che incrociano la mia strada, non saluto. No, non sono arrabbiata… è solo che non posso fermarmi, devo arrivare prima che chiuda, è una questione di attimi.

    Eccomi! Ce l’ ho fatta! Le porte sono aperte: una volta dentro mi posso rilassare o quantomeno prendere fiato.

    Latte, pane e due etti di carne tritata. Mamma mi ha detto di segnare, ma il mese scorso non ha pagato e io ho paura. È terribile sentirsi addosso quello sguardo misto di pietà e indignazione.

    Allora non sapevo che quella brutta sensazione me la sarei portata dentro per molti anni a venire, come un alito pesante, nauseabondo e maledettamente caldo al quale non potevo sottrarmi.

    GIULIA

    Cara Sofia,

    una notte movimentata è stata la mia, una notte di sogni ingarbugliati, un po’ angosciosi, dove indefinite chiazze rossastre si spandevano, contaminando una argentea neve infuocata da un sole autunnale. Lungo la pista due cacciatori e noi. Loro con due cinghiali con le pance straziate, trascinati lungo una traccia di sangue e noi un po’ attoniti a guardare quei cadaveri nel riverbero della luce. Subito non avevo intuito che quella scia era la conseguenza di una battuta di caccia; avevo pensato a un animale ferito, forse da salvare, ma poi eccola lì davanti ai miei occhi la cruda verità … una battuta di caccia, una squallida battuta di caccia. Una madre e un piccolo, coperto dallo zaino, come se un po’ di vergogna avesse colto il cacciatore, che di certo non si aspettava su quel colle innevato in un giorno di novembre, seppur tiepido, di incontrare un gruppo di temerari escursionisti come noi.

    Oh! Poveri avevo esclamato con orrore davanti a quel misfatto e alla risposta un po’ incerta di è un’altra cultura avrei voluto chiedere, con la voce vibrante, se si credeva di appartenere a un gruppo di Boscimani del Kalaari o forse preferiva essere annoverato tra i Pigmei della foresta equatoriale… Quale altra cultura?… Quella di un barbaro, sì, di un incivile membro di un mondo occidentale, dove la carne di tutte le specie si trova nei supermercati, ma sono rimasta in silenzio. Sono stati i miei occhi a parlare per me. Uno sguardo torvo, tagliente come le lame di un coltello gli ha urlato

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