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Agguato di Nostalgia
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Agguato di Nostalgia

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I Reggenti del Distretto di Esse, convinti che i confini lessicali di un popolo siano il presupposto di quelli topografici, e che al venir meno dei primi anche i secondi finiscono col vacillare, incaricano Osvaldo Iannotti, un ‘custode dell’ortodossia del sapere’, di indagare la causa di una inquietante erosione del lessico, e la sua eventuale connessione con la comparsa di crepe nella cinta muraria. Osvaldo, il cui amico Ermanno è da poco scomparso durante una fantasiosa avventura di pesca, nella speranza di conseguire nuova conoscenza, e con essa il suo agognato avanzamento di carriera, si cala nella fascinosa realtà della vita essena, e porta a compimento la sua missione. Al ritorno nella sua precedente Istituzione lo attende però un’amara disillusione, che lo induce ad abbandonare per sempre la sua professione. Allora, acuitasi in lui la nostalgia per l’amico scomparso, egli si dedica alla sua ricerca, ritrovando alla fine anche quella verità che alberga nel cuore, e che meglio si percepisce nella profondità del silenzio.
LanguageItaliano
Release dateFeb 4, 2017
ISBN9788856781847
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    Agguato di Nostalgia - Fortunato Vesce

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8184-7

    I edizione elettronica febbraio 2017

    Presentazione

    Colpisce, fin dalla prima pagina del volume, una indicazione metodologica volta a mettere in guardia il lettore-spettatore entrato in sala al secondo tempo della proiezione del film Agguato di nostalgia, che a partire dall’onomastica dei protagonisti è per molti versi legato alla precedente opera di Fortunato Vesce, La vita come esperienza di pesca, senza però esserle debitore, ma anzi godendo di vita autonoma. Il rimando alla sala cinematografica ha inoltre il pregio di creare il tema e l’atmosfera della rappresentazione. In regime di grande afflato culturale, Vesce intrattiene il lettore sulla identificazione della vita umana con il melodramma, rappresentazione di figure delle quali l’autore è il demiurgo dispensatore. Come un inconscio rimando sale alla mente la lezione di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, dove la noumenica volontà kantiana si manifesta nelle realtà fenomeniche che ne rappresentano il vortice. Non stupisce quindi che i viaggi prediletti dal protagonista Osvaldo siano le ariostesche avventure della fantasia, e scopo del suo operare sia la salvaguardia della comunicazione verbale, fatta salva la comunione delle arti e la corrispondenza tra emozioni musicali e letterarie. Nell’agile e suggestiva grammatica di pagine sapienti, l’autore compila il resoconto dell’avventura di Osvaldo, nominato direttore di un kafkiano dipartimento di cultura popolare che nelle sue valenze metaforiche talora ricorda la buzzatiana Fortezza Bastiani. Ma lasciamo al lettore il piacere di addentrarsi nei rivoli del romanzo il cui plot autorizza a definire filosofico. Attraverso personaggi, dialoghi e riflessioni, Fortunato Vesce dichiara la propria fede nella scienza insieme all’incapacità da parte del pensiero filosofico di chiarire tutto, e la necessità per l’uomo, teso alla perfezione, di rifugiarsi sulla pietosa via della religione. Su questa via Vesce mostra di non condividere il mito biblico della Torre di Babele che la fenomenologia moderna prende a narrazione fondante della diversità dei popoli e dei loro linguaggi. Quel mito potrebbe forse portare pace alla mente di questo scrittore-filosofo, di questo filosofo-scienziato che chiede alla filosofia, alla scienza, alla vita il dispiegamento del mistero che lo opprime e lo affascina. Ma quello dell’indagine e dello studio solitario o della ricerca di equipe è soltanto un aspetto dell’opera, l’altro aspetto è la grande lezione delle poesie. Ecco allora i chiari di luna, le canzoni, la musica, ecco l’immensità del mare, ecco, dalla inadeguatezza della prosa, sgorgare l’inno della donna-idea. Questa alta concezione della donna che ispira, che consola, che corregge, che ama: peccherò forse di indiscrezione affermando che l’idea non giunge all’autore dall’Iperuranio, ma dalle pareti domestiche?

    Stabilite comunque le limitate capacità di espressione e di parola, nota, immagine, il protagonista Osvaldo, che possiede ormai lo statuto di alter ego dell’autore, decide di superare le barriere linguistiche e di rivolgersi direttamente alla natura. Qui in un ultimo capitolo, dove Vesce raggiunge straordinari effetti di suspense, Osvaldo incontra Ermanno, l’antico maestro del precedente romanzo, l’interprete del primo tempo del film, il pescatore vittorioso del grongo. Simile a un oracolo, Ermanno parla per detti sapienziali, e sapienziale e sfuggente è la sua identità che tutto depura come un Gange, il fiume della purificazione ascetica. Tutta da scoprire la conclusione, al critico compete ora il silenzio rotto soltanto da una domanda: A quando il terzo atto della Trilogia?

    Elettra Testi

    Alle donne-idea

    Premessa

    I personaggi di questo libro non sono immaginari, ma hanno ricevuto nomi-schermo per renderli irriconoscibili da parte dei lettori. Inoltre gli eventi che li riguardano sono frutto della fantasia dell’autore, e i loro comportamenti non sono riferibili ad alcuno in particolare, in quanto risultano dall’artificio di costruire caratteri in qualche modo coerenti con la storia narrata. Pertanto ogni tentativo di identificare qualcuno di essi sarebbe del tutto arbitrario.

    Tuttavia, in analogia col costume delle maschere del Settecento veneziano, che non intendeva celare la verità bensì il suo riferimento individuale, la sincerità della narrazione non ne risulta sminuita, ma semmai accresciuta dalla sua universale connotazione umana.

    Tanto non impedirà all’accorto lettore, attraverso estrapolazioni fantastiche, di operare tra fatti e figure accostamenti a suo giudizio plausibili, borbottando sornione: ti conosco, mascherina!

    Solo due personaggi, Elisabetta Baldassarre, pittrice, e Vittorio Placella, medico-spadaccino-poeta, vengono resi manifesti.

    Ad essi esprimo la più viva riconoscenza.

    Fortunato Vesce

    Struggimento

    Pochi conoscono l’evoluzione dapprima cautamente convergente, poi parallela e infine divergente, delle vicende dei protagonisti della nostra storia, Osvaldo ed Ermanno, il professore e il suo maestro, e l’avventurosa partenza di quest’ultimo, che ebbe l’impronta come d’un definitivo distacco. Tuttavia essa potrà essere immaginata almeno in parte attraverso gli elementi della presente narrazione, e cioè gli stati d’animo tipici d’ogni improvviso vuoto affettivo, e la concatenazione degli eventi successivi che preludevano a un lento declino del professore, lo stesso che in talune circostanze rischia di assumere una connotazione luttuosa. Gli era difatti predestinata una serie di colpi dell’avversa fortuna che, in concomitanza con l’affanno spirituale per la scomparsa del suo amico, lo condussero sull’orlo d’una rovinosa disfatta. Come talora avviene agli spettatori che abbiano iniziato la visione d’un film a partire dal secondo tempo, questo racconto potrà aprire ai nuovi lettori scenari sfumati e incerti, ma proprio perciò forse più coinvolgenti.

    Orbene, accadde che tornato a casa dalla riva degli aironi dove s’era recato all’infruttuosa ricerca d’Ermanno, lo scoramento di Osvaldo lasciasse gradualmente il posto ad un fervore esistenziale totalmente asservito alla salvaguardia della sua piccola famiglia. Egli, che negli ultimi tempi molto aveva trasumanato e poco organizzato, decise di ottemperare a questo secondo imperativo, e per prima cosa si diede a riordinare la sua biblioteca. Allora, quando s’imbatteva negli scrittori che aveva amato da ragazzo, ne faceva poi astutamente affiorare le argomentazioni nei discorsi con i suoi cari creando, in tal modo, l’occasione per darne lettura.

    Come in passato, nelle sue acquatiche e terrestri peregrinazioni, aveva riservato a se stesso la compagnia dei poeti, così cercava adesso di condividere con Aida e Arrigo quella di altri grandi della letteratura: l’amore è tanto più fervente quanto la cognizione è più certa, citava, assolvendo a una duplice funzione evocativo-educativa col celebrare l’immortalità dell’arte e dispensarla come nutrimento dell’anima. In tal modo, pur essendo fisicamente in tre, verso la fine del desinare qualche vecchio amico, gradevole conversatore quanto parco commensale, si aggiungeva al desco, Rabelais e Campanile i più assidui.

    Le difficoltà organizzative furono nel suo caso accresciute per l’opportunità che egli colse di distribuire i libri tanto negli scaffali della propria abitazione quanto nella biblioteca della casa avita, dove prese a recarsi mensilmente, sulle colline del sud. Questi viaggi non lo scoraggiavano punto. Sia pure in misura più ridotta, egli li aveva praticati da bambino, al seguito di suo padre che al paesello natio si riconduceva settimanalmente con tutta la famiglia dalla metropoli dove viveva. Ma ancor più lo confortava l’idea che, per consimili finalità esistenziali, altri in passato avevano coperto distanze anche maggiori: i monti mi generarono, la pianura mi rapì, il mare accende adesso le mie brame, si diceva pensando al ramingo errare di Dante e parafrasando Virgilio, suo dolcissimo patre. Così, nel fervore di queste operazioni, distolta l’attenzione dal pensiero della pesca propriamente detta, divenuto meno pressante il ricordo dell’amico Ermanno, egli continuava pur sempre a trasumanare. Ciò nondimeno l’impegno che ne conseguiva, al tempo stesso fisico e intellettuale, gli forniva prospettive di osservazione di grande interesse, e realizzava un’osmosi oltremodo appagante anche con la vita familiare, oltre che con quella lavorativa.

    Al di fuori di queste evasioni, però, cresceva in lui la preoccupazione che nell’ambito professionale i suoi meriti non venissero pienamente riconosciuti. In coscienza egli riteneva di aver tenuto sempre un comportamento leale e generoso, di aver molto prodotto, contribuendo ad accrescere il prestigio dell’Istituto ove prestava la sua opera anche agli occhi di osservatori di rilievo internazionale: ciò che suo padre definiva pittare il sole. Tuttavia, nonostante le apparenze di un’alta considerazione da parte dei gerarchi che lo sovrastavano, il passo conclusivo, quello cioè che gli avrebbe attribuito la facoltà di indirizzare il progresso del sapere lungo linee pazientemente elaborate nel corso di un’intera vita, ebbene, questo avanzamento ancora non gli era stato consentito. Ma ecco che un giorno, quando meno se lo aspettava, gli venne proposto l’incarico di un’importante missione. Egli fu convocato dal direttore del suo dipartimento, il professor Dionisio, levantino di poche parole, ombroso accentratore, non per malanimo o perfidia, bensì per quella precauzione nell’esercizio del comando che spinge molti a tentare di sottrarsi all’altrui giudizio.

    «Caro Iannotti – disse Dionisio – nel corso degli ultimi incontri nazionali ho fatto il suo nome per la carica di Direttore, e sono lieto di comunicarle che il suo curriculum ha riscosso il plauso unanime della cupola. È stato deciso pertanto ch’ella acquisisca un’esperienza di comando in una struttura esterna del tutto autonoma: il titolo che le manca per poter ottenere la funzione apicale in questo Istituto dopo il mio pensionamento. Ella assumerà per tre anni il ruolo di direttore del Dipartimento Nord-Occidentale di Cultura Popolare nel Distretto di Esse».

    «Comprendo – rispose Osvaldo – anche se, per la verità, mi sembra che tale procedura non sia stata mai adottata in precedenza per altri».

    «Ne convengo – ammise pazientemente Dionisio – ma i tempi sono cambiati, e ritengo che questa operazione sia assolutamente necessaria al fine di conseguire in ambito locale quel consenso che non le manca a livello nazionale».

    Ancora una volta, il tono del direttore era di quelli che non ammettono repliche, un carattere sul quale Osvaldo aveva a lungo meditato, convinto com’era della genesi biologica d’ogni forma di comunicazione, e dunque anche di quella verbale in tutte le sue possibili intonazioni, di pace o di guerra, di vittoria o di sconfitta, d’amore o d’odio che fosse. Bisogna dire altresì che tale peculiare convinzione era rafforzata, o addirittura in parte scaturiva, dalla sua passione per la lirica, celebrazione la più alta del trionfo della parola. Quest’ultima, infatti, nel melodramma, grazie a una complessa interazione con la musica, che giunge finanche alla reciproca coercizione, comunica proprio attraverso la modulazione dei toni in modo straordinariamente più completo al confronto con altre forme espressive. Così Osvaldo si compiaceva di scoprire che, fra i suoi interlocutori, il tale aveva inconsapevolmente indossato le vesti di Radames, il tal’altro quelle di don Bartolo o di Sparafucile: inconsapevolmente appunto perché le ragioni di tali reincarnazioni sono di ordine biologico, e dunque riconoscono in se stesse la propria ragion d’essere. Del resto questa stessa chiave di lettura è espressa in locuzioni del tipo di ‘fare la primadonna’, o il ‘don Giovanni’, di uso comune anche da coloro che non abbiano mai frequentato un teatro lirico. Quanto al professor Dionisio, per il quale nutriva il rispetto che ogni sottoposto deve al proprio superiore, talora le sue inflessioni assumevano toni da operetta, e gli rammentavano l’aneddoto secondo cui Giuseppe Verdi avrebbe intimato a un librettista di non tener conto del significato d’una certa frase, ma solo del ritmo che ne sarebbe scaturito, che nella fattispecie egli precisamente così indicava: ‘Corocò, corocò, bistecca!’.

    Questo suo modo di approfondire l’analisi di certi canoni esteriori della comunicazione verbale non sfuggiva al suo direttore, il quale talora se ne mostrava infastidito e abbassava lo sguardo. Dal canto suo Osvaldo ne riceveva premonizioni che gli rendevano meno incerto il futuro, alla stregua degli antichi aruspici che osservavano le viscere delle vittime per trarne vaticini. In quella circostanza gli sembrò dunque che il pensiero celato nell’animo del Dionisio avrebbe potuto meglio essere espresso nel modo che segue:

    Caro Iannotti, nel corso degli ultimi incontri nazionali i membri della cupola, preso atto del suo curriculum e della distinta notorietà conseguita in trent’anni di servizio, mi hanno chiesto in che modo sarei riuscito a liberarmi di lei. Ho risposto che le avrei impartito il comando di accettare un ruolo direttivo in una sede lontana, nella speranza di trovare con calma una via d’uscita. Sappiamo bene infatti che supremo giustiziere è il tempo.

    Sull’onda di tali presentimenti e relative meditazioni, Osvaldo decise comunque di fare buon viso a cattivo gioco: disse che avrebbe valutato con Aida e Arrigo la proposta, e presto avrebbe reso nota la propria decisione.

    Uscito dallo studio del suo superiore, come se la partita fosse già conclusa, si abbandonò al corteo di sensazioni, emozioni e ricordi dei luoghi e degli avvenimenti che fino a quel momento avevano contrassegnato la sua sostanziale serenità, e giunse perfino al punto di figurarsi parole di commiato dall’amico Ermanno, come se questi fosse ancora presente. Di seguito, al fine di anticipare il sottile compiacimento che accompagna la nostalgia, ritornò ai paesaggi dove la natura gli era stata compagna, per rivederla e dirle addio, e per assaporare meglio quella nuova sensazione di un distacco non desiderato, come imposto, non ancora avvenuto e già in qualche misura sofferto, almeno per quel che riguardava la malinconia che avrebbe generato. Passeggiando nei boschi lungo il fiume, sui vasti arenili disseminati di relitti, sugli argini dai quali poteva osservare gli emuli della sua antica passione, la pesca, che continuavano a industriarsi nei loro lanci e improbabili catture, gli tornarono alla mente gli addii che in varie forme letterarie gli avevano toccato il cuore, e ai quali adesso le sue vicissitudini facevano da sfondo, e s’appagò del nuovo accoramento che generavano in lui.

    Infine, pur coltivando nell’animo l’idea di accettare il comando che gli era stato impartito, e della cui spina già sentiva la dolorosa trafittura, depose tutte le sensazioni e i ragionamenti al vaglio di Aida e di Arrigo, e attese serenamente il loro responso.

    Viaggi

    L’interrogativo che Osvaldo poneva a se stesso era di portata più vasta delle implicazioni d’ordine professionale che gli erano state rappresentate dal professor Dionisio. Attraverso l’imposizione del diverso esiglio, quale egli si figurava il suo trasferimento fra gente sconosciuta la cui cultura era chiamato a decifrare ed eventualmente a promuovere, avrebbe avuto inizio non senza sacrificio una nuova stagione della sua vita.

    Anch’egli si considerava certamente, a suo modo, un esploratore. Tuttavia la sua abitudine a spaziare fin da ragazzo con la fantasia attraverso scenari letterari meravigliosi, popolati d’ogni sorta d’umanità, dalla più nobile alla più meschina e solcati dalle più avvincenti vicende d’amore e di guerra, soddisfaceva pienamente in lui quell’ansia di conoscenza che invece aveva spinto i suoi amici a intraprendere frequenti viaggi nei più remoti angoli dell’orbe terracqueo. In che misura poi le sortite di costoro riuscissero a placare l’insoddisfazione, e a lenire la paura dell’ignoto e della morte, egli non sapeva, e nemmeno i suoi amici erano in grado di spiegare. Per lui diremo soltanto che, dopo una fase di fanciullesca curiosità, nella quale aveva sperimentato con Celine le emozioni del ‘primo viaggio’, Boston, Monaco, Vienna, un po’ simili a quelle della prima passione amorosa che tutto trasfigura, pervenuto alla maggiore maturità degli amori successivi al primo, e dopo la luna di miele parigina, s’era per lungo tempo limitato con Aida a lagunari escursioni di fine settimana: a bordo d’un piccolo natante, l’Arianella, s’applicava allo studio delle consuetudini venatorie dei cefali, mentre la sua compagna lasciava che il sole le adornasse la pelle dei suoi riflessi dorati. I rari viaggi che adesso intraprendeva erano giustificati da solide ragioni: un corso di perfezionamento in ‘Esegesi delle fonti’ all’Università di Vienna, il matrimonio di sua cugina Anita a New York, un incontro col professor Hawkins nella necropoli di Cerveteri. È difficile spiegarlo, ma era proprio questa sua necessità di connotarli d’un concreto scopo personale che, estraendo i viaggi dalla genericità delle motivazioni popolari, li legittimava ai suoi occhi. Orbene, poiché l’ansia di conoscere si tramuta col tempo nell’amara consapevolezza dell’umano destino, ecco che, ritornando col pensiero ai viaggi giovanili, Osvaldo si appagava adesso di inserirli come tessere d’un unico vasto mosaico nel viaggio della vita, del quale si figurava la meta finale senza la necessità di ulteriori peregrinazioni, e senza alcun timore per quell’avvenire che tutti ci attende e che tanto spaventava i suoi amici.

    Egli invece coltivava adesso il progetto d’altre divagazioni dello spirito che, a dispetto dell’apparenza, presentavano per lui i segni d’una maggiore solidità al confronto con la sia pur comprensibile voglia di gustare il cuscus in Marocco e i testicoli di cavallo nella steppa circassa.

    Uno dei desideri che lo assillavano era di tradurre in chiave letteraria temi musicali, problema di non facile soluzione a causa della specificità delle percezioni sensoriali, per cui, ad esempio, un concerto sinfonico non può essere ascoltato, e tanto meno decifrato, attraverso recettori olfattori o gustativi, e cioè col naso o col palato. Pur tuttavia egli si figurava che almeno la musica e la letteratura, condividendo anche vie di senso uditive, potessero in qualche modo intersecarsi, mutuando reciprocamente il godimento di cui ciascuna era foriera. Egli aveva conosciuto un esempio straordinario della trasposizione letteraria d’un tema musicale leggendo Sonata a Kreutzer, di cui solo in seguito aveva ascoltato l’originale ordito beethoveniano. Da allora

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