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Il Fuoco Sotto La Pelle
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Il Fuoco Sotto La Pelle

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About this ebook

Annamaria e la sua combriccola hanno quattordici anni, vivono a Marina di Ragusa, a casa nessuno li capisce e a scuola è uno schifìo. Ammazzano le giornate seduti sul lungomare e si annoiano da morire. Per questo si infilano dritti dritti nel primo guaio che si presenta, meglio se illegale, meglio se pericoloso. Rischiando la pelle per un colpo più grande di loro, si imbattono in una storia terribile e antica, che giace sul fondo di una vallata che una diga, trent’anni prima, ha trasformato in un lago. Una spaventosa vicenda ancora aperta, lontana nel tempo eppure così vicina: la storia di Agata e della sua famiglia. Braccati da criminali incalliti e da un inquietante Fantasma Nero, Annamaria, Toni, FumaTuri e CarburaTuri cercano di cavarsela con le loro forze, di schivare la paura per riuscire a rimanere vivi. O meglio, per non stare qui a bruciare senza significato. Per sentire davvero quel fuoco che scorre veloce sotto pelle e che, se fai attenzione e arrivi a tanto così da bruciarti, può farti intravedere la tua vera luce.
LanguageItaliano
Release dateFeb 13, 2017
ISBN9788893370981
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    Il Fuoco Sotto La Pelle - Marcello Pezzi

    me

    #17. Con o senza pelle \ 1980

    «Papà! Vieni a vedere! Che cos’è?»

    «Oh, Gesù!»

    «Che cos’è, papà?»

    « Nun taliare, figlia mia, nun taliare

    «Ma è una persona, papà?»

    «Mio Dio! Mio Dio!»

    «È il diavolo, papà?»

    «No, angelu miu, ma non guardare!»

    «Perché dorme con gli occhi aperti, papà? È morto?»

    «Senti, figlia mia! La vuoi fare una cosa importante?»

    «Sì».

    «Allora corri! Vai a chiamare lo zio e digli che viene con il carretto!»

    «Sì, papà».

    «Corri veloce come il vento, angelo mio, corri!»

    «Sì, papà, corro veloce!»

    «Mio Dio, che cosa sei capace di fare. Questo poveretto è ancora vivo».

    #3. Muro \ 1980

    L’odore buono dell’erba nuova solletica il naso e si infila giù, in profondità, fin dentro il cuore pulsante della terra. È il profumo dolce della primavera.

    Il sole rilascia i suoi raggi d’oro sulla vallata, sopra l’aria fresca del pomeriggio e sopra gli uccelli del cielo che volano attorno alle nuvole bianche.

    L’intera vallata è uno splendore, con le sue colline selvagge, attorno, se non si guarda là in fondo, dove i lavori continuano senza sosta.

    Lavorano sodo, per quel muro innaturale di cemento che taglia via tutto con un colpo di accetta.

    È un peccato, questa storia della diga, un vero peccato.

    È un peccato che loro debbano andarsene da qui, lasciare tutto e ricominciare da un’altra parte solo perché qui ci deve venire un lago grandissimo, che deve dare acqua alle case degli altri, alle case di quelli che ce l’hanno ancora una casa, di quelli a cui non la portano via per qualche stupido lavoro pubblico.

    Il cielo è terso e pieno di vita e lei lo guarda felice, respirando a fondo quell’odore buono, che sa di casa.

    È un peccato perché le piace stare qui, perché qui è della sua famiglia, da sempre.

    Ma deve cominciare a pensare che presto questo posto non ci sarà più, che sarà sommerso dall’acqua e dal fango.

    Presto un gorgo d’acqua scura si prenderà le cose, la sua casa e tutto il resto.

    Per questo sarà meglio andarsene per tempo e non aspettare lo spettacolo tremendo della vallata che viene divorata, insieme a quello che resta della vita sua e della sua famiglia, un morso alla volta, lentamente.

    L’aria è dolce, oggi, come un fico d’india bello maturo, come un cannolo con la ricotta di pecora la domenica, dopo la messa.

    Sembra impossibile che tutto cambierà così in fretta, non appena quel muro, grigio come un cattivo presagio, sarà finito.

    Qualcuno si avvicina, correndo, agitando una cosa con la mano.

    Lei non lo sa ancora, ma in realtà tutto è già cambiato.

    #18. Gli amici al parchetto \ 2010

    «Che camurrìa

    La bolla di noia avvolge il corpo magro di Annamaria Sciacchitano, mentre ondeggia lento su uno di quei giochi a molla per bambini, in un improbabile parco giochi di pietra bianca, a pochi metri di distanza dalle rocce di Punta di Mola, in mezzo a un quartiere che è un unico abuso edilizio.

    Marina di Ragusa, la cittadina lì attorno, ha origini antiche, nobili. Ai tempi in cui gli arabi la chiamavano Mars Arillah, Porto di Allah, aveva conosciuto un periodo di splendore. Ma dell’antico fasto era rimasto solo quel nome, che nei secoli era stato sicilianizzato in Mazzarelli.

    Poi anche il nome, con l’avvento del fascismo e gli albori della cultura da tintarella, fu cambiato in uno meno nobile e impersonale: Marina di Ragusa, appunto, cancellando quasi completamente il ricordo della fondazione della città. Quasi perché, fortunatamente, un piccolo cimelio linguistico è sopravvissuto a ricordo dei tempi andati, e così, ancora oggi, gli abitanti di Marina si chiamano Mazzariddari.

    Annamaria ha le ginocchia al petto, strette dal braccio destro che tiene insieme il suo corpo lungo, e guarda il suo braccio sinistro steso, alla cui estremità una sigaretta si sta fumando da sola.

    Non sa un bel niente della storia che sta dietro al suo essere Mazzariddara, né del motivo fascista che fece diventare Ragusa provincia, invece della sua città gemella Modica.

    Per lei "Ragusa provincia e Modica ’sta mincia" è solo un modo di dire carino, un modo per sentirsi meglio degli altri. Meglio di che cosa, poi?

    Ad Annamaria piace guardare la sigaretta fumarsi da sola, tra le sue dita. È per questo che fuma, in realtà, perché le dà quel fascino maledetto che si è vista molte volte allo specchio.

    In giro ha la fama di una gran bottana, ma in realtà gli amici con cui va peri peri non sembrano preoccuparsene molto.

    Anche perché:

    Antonio Gianporcaro, detto Toni PiedeDiPorco, è un teppistello pluri schedato per vandalismi vari;

    Turi Mezzasalma, detto FumaTuri, passa più tempo a farsi le canne che a scuola;

    Turi Scarnato, detto CarburaTuri a causa della sua passione per i motori, è un noto ladruncolo di autoradio e motorini.

    La storia della bottana, invece, viene dal fatto che il corpo acerbo e magro di Annamaria è proprio bello, quasi da modella: un metro e settanta di gambe lunghe e piccole curve perfette, da donna quasi fatta. Solo il viso, altrettanto bello, dimostra davvero i suoi quattordici anni.

    Le danno della bottana perché tutti vorrebbero fotterla, per questo.

    Ma comunque, quale che sia la ragione per quel soprannome, il lungo pomeriggio di aprile deve passare, è già caldo ma non c’è nessuno in giro perché è martedì, e così lei continua a lasciare che le sue sigarette si fumino da sole, dandole quel fascino in più, di cui crede di avere bisogno.

    Intanto Turi si sta rollando una canna, Toni cerca di smontare la panchina del parco giochi, anzi cerca di distruggerla in realtà, mentre CarburaTuri attira a sé la seduta di un altro di quei giochi e poi osserva la grossa molla elicoidale che si allontana e poi ritorna, si allontana e poi ritorna, finché l’effetto della sua spinta finisce e la molla si ferma dopo aver vibrato alcune volte molto veloce.

    Poi innesca un nuovo movimento e resta lì a guardare. E a pensare che tutte le azioni riportano indietro qualcosa. Ma fino a un certo punto.

    Dopo un po’ non torna più niente.

    Osserva il resto della scena, mentre la grossa molla vibra di nuovo velocissima, prima di fermarsi: le gambe lunghe di Annamaria richiuse su di lei, gli sforzi di Toni che ormai ha piegato la povera panca di ferro, e lo sguardo quieto di Turi, che si sta godendo la sua canna.

    «Che camurrìa!» ripete Anna. Sarà la centesima volta da quando sono lì a cercare di ammazzare quel pomeriggio.

    CarburaTuri guarda Annamaria.

    «Che, me la dai una sigaretta?»

    La ragazza non si scuote dalla sua posizione. Ritira solo il lungo braccio sinistro e trova il pacchetto stretto fra le ginocchia ossute e le piccole tette. Lo tira a CarburaTuri. Lui non lo afferra nemmeno e lo lascia cadere a terra. Poi tira di nuovo verso di sé la molla e la lascia andare. Adesso gli sembra anche di sentire un lieve cigolio, nel suo movimento.

    «Che camurrìa!» ripete Anna, di nuovo.

    Toni si alza, asciugandosi il sudore dal viso con l’avambraccio, come avesse sconfitto il suo dragone.

    «Ehi!» chiama gli altri, con voce soddisfatta.

    Gli altri, lentamente, si girano verso di lui.

    «TA DA!» esclama indicando la panchina demolita.

    «Wow!» dice Annamaria come riavendosi dalla sua voraginosa apatia in un attimo. Ci ripiomba subito.

    Nessuno potrà più sedersi lì sopra, questo è certo.

    «Bello» dice Turi, con la voce impastata.

    «Utile» sentenzia CarburaTuri.

    Qui Toni si incazza.

    «Ehi grannissime facce da culu! Faticai como un mulu, pè fare ’sta cosa».

    «A-ha» giunge dalla bocca di Annamaria. La sua espressione non esprime niente e il suo sguardo è tutto rivolto al fumo che sale dalla sigaretta nella sua mano. È sempre la stessa?

    «Siete un branco di fannulloni! Non volete mai fare una minchia!»

    «A parte che» interviene Turi «non capisco dov’è il gusto a fare delle cose così a cazzo, poi ha ragione CarburaTuri, a cosa serve tutta ’sta fatica?»

    «A sfogarmi serve, che sennò scoppio!»

    Adesso CarburaTuri ha afferrato il pacchetto di Annamaria e si è acceso una sigaretta. La guarda bruciare, dopo la prima boccata. Pensa che in fondo anche loro stanno bruciando.

    Toni è in piedi, freme tra l’apatia smunta dei suoi compari. Il cielo è azzurro, il sole scalda bene, la brezza è dolce e il mare vicino, ma loro non se ne curano.

    «Fatti ’na canna» consiglia Turi.

    «Non mi va. Vorrei fare qualcosa, io».

    «Andiamo al mare» consiglia CarburaTuri, ridando un ulteriore slancio alla molla e sparandogli il fumo all’interno. Il fumo si disperde tra le spire larghe, com’è giusto che sia.

    «Ci stiamo sempre, al mare. Che palle, il mare. Che fetenzìa ’sto paese di babbi

    «Che camurrìa» riassume Annamaria, inespressiva, ondeggiando appena sulla sua molla.

    «Facciamo qualcosa, allora» dice placido Turi.

    «E cosa?» chiede Toni, con i muscoli tesi.

    «Sentite questa» dice Turi prima di aspirare a fondo l’ultimo tiro di canna. Poi espira, lentamente.

    Quando il fumo è uscito tutto, guarda gli altri a turno, uno per uno. La molla di CarburaTuri cigola un secondo, impercettibilmente.

    «So dove Cirillà tiene la roba».

    Gli sguardi degli altri si stringono nel silenzio avido. Anche Annamaria la smette di fissare la sigaretta ormai finita.

    Cirillà, a dispetto del nome ragusano, è un africano enorme e nero che fa dentro e fuori di galera da sempre, fin da quando una famiglia di fruttivendoli ragusani lo adottò, molti anni fa.

    Almeno così si dice. In realtà la storia dell’adozione non è molto chiara e c’è chi sostiene che sia una grandissima fesseria. Ma in ogni caso corrisponde a verità il fatto che lui preferisca vendere altre tipologie di frutti: cose buone dal mondo.

    «Vuoi fumare ancora di più?» chiede Toni che non è molto sveglio, con la testa.

    Annamaria sì. Annamaria è sveglia e il suo sguardo è vivo, adesso. E mette in luce i suoi bellissimi occhi chiari da siciliana normanna, per la prima volta nel pomeriggio.

    «Vuole rivenderla, cretino!» spiega lei.

    «Ah» fa Toni, un po’ in imbarazzo. Si siede. Poi fa un’altra domanda stupida.

    «E come si fa?»

    «Si va lì e si prende» spiega di nuovo lei, in zero secondi.

    Annamaria non ha coscienza della sua bellezza, si vede bruttina ma sa di essere intelligente. Non ha ancora la percezione che, se le danno della bottana, è proprio per via della sua bellezza. E anche perché Ciccio Schininà ha raccontato in giro di tutti i pompini che lei gli ha fatto, invece del bacio senza lingua che è riuscito a ottenere, prima di essere mollato dopo un fidanzamento lampo di quindici minuti.

    Poi Annamaria punta il suo sguardo penetrante su Turi.

    «Dov’è?»

    «È meglio non parlarne qui» risponde lui secco, «ma la notizia è sicura».

    « Si ci va facilmente?»

    «Un gioco da ragazzi».

    Giochi da ragazzi grandi, però. Sono delinquentelli, loro, ladruncoli, vandali, ma non hanno mai fatto niente di più grosso di un piccolo furto.

    Annamaria nemmeno quello, lei non ha conti aperti con la giustizia. Si limita a cercare di immedesimarsi in quelle bellezze anni trenta dei film di Hollywood e a cacciare la noia feroce che la opprime. Non ci riesce mai.

    «Sai che Cirillà ci fa fuori, se ci becca, no?» chiede a Turi.

    «Eh?» emette inavvertitamente Toni per la paura.

    «Non ci becca» risponde Turi.

    «Perché?» imbecca Annamaria.

    «Perché noi ci andiamo quando lui non c’è».

    «E perché lui non c’è?» chiede CarburaTuri.

    «Nella fattispecie» Turi fa una pausa a effetto «non c’è perché al momento sta in galera».

    «In galera?» chiede Annamaria.

    «In galera. Domani c’è il processo. Torna dentro sicuro».

    «E la roba si trova là comunque?» chiede CarburaTuri.

    «Certo. Mica può spostarla, dal carcere. E se trovavano quel posto, altro che sei mesi gli davano. Però bisogna fare in fretta, prima che i suoi amici vadano a riprendersi la roba».

    «Andiamo stanotte» dice Annamaria guardandoli negli occhi uno a uno.

    Toni abbassa lo sguardo prima di annuire con la testa, Turi fa segno di sì. CarburaTuri ricambia semplicemente lo sguardo mentre Annamaria a gesti gli chiede le sigarette. Lui gliele tira.

    Annamaria non si muove da quel seggiolino da ore. Le sue gambe ormai sembrano di legno.

    Butta a terra il mozzicone dimenticato che si è spento da un pezzo, si accende una nuova sigaretta e distende il braccio, per guardarla meglio.

    CarburaTuri gioca con la sua molla.

    Il vespro arriva puntuale come ogni sera, insieme all’odore di melanzana arrostita che si spande nell’aria. Toni deve tornare a casa per cena, sennò suo padre lo mazzìa. Lo sciàuru di melanzana è meglio dei rintocchi dell’orologio.

    «Ci vediamo dopo, ragazzi» saluta.

    Nessuno risponde, ma tutti lentamente si mettono in piedi, tranne Annamaria.

    Non c’è bisogno di darsi un appuntamento. Passano nello stesso posto ogni minchia di serata.

    Annamaria guarda la sigaretta, poi se la mette in bocca. Tira forte, troppo. Tossisce.

    Poi compie un balzo felino, impossibile per una che è rimasta tre ore ferma con le ginocchia piegate, e atterra in piedi con quel corpo bello, stretto in un paio di pantaloni chiari troppo larghi e in una canottierina azzurra troppo corta, abiti adatti a sua sorella, non a lei.

    «Che camurrìa!» dice con gli occhi a terra verso il punto dove ha gettato la sigaretta.

    Si disperdono, ognuno verso casa sua, però con un nuovo brivido lungo la schiena. Il brivido di cose nuove, di cose pericolose.

    #19. L’arrotino \ 2010

    «Donne, è arrivato l’arrotino! L’arrotino! Donne! Noi ripariamo le vostre cucine a gas. Se il fornello non funziona, noi lo sostituiamo! Donne! È arrivato l’arrotino e l’ombrellaio...»

    Una voce con un accento indefinibile si spande nelle vie dai vecchi altoparlanti abbarbicati sul tetto del grosso furgone con le tre ruote sgonfie sotto il carico esagerato di roba. Chissà di chi è poi quella voce finta, che si sente che sta su quel nastro da decenni.

    Carmelo odia quel lavoro ma ha dovuto sostituire il padre, che a casa sua i pìccioli non cadono dal pero.

    Gli piace andare in giro con quella moto-ape gigantesca, non è questo il problema. È bello gironzolare per le vie di quelle fetenzie di paesi, che poi sono i paesi della sua terra.

    È che non sopporta le massaie, non le sopporta proprio. E non le sopporta perché sono altezzose nei loro vestiti scollati coi fiorelloni sopra la ciccia sbordante ripiena di parmigiana e cannoli.

    E anche perché lui, l’arrotino, non lo sa fare. E nemmeno l’ombrellaio. E nemmeno le cucine a " gasse" sa riparare. Fa solo disastri,

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