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Uccidere ha delle conseguenze
Uccidere ha delle conseguenze
Uccidere ha delle conseguenze
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Uccidere ha delle conseguenze

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About this ebook

Descrizione del libro:
 

“Uccidere ha delle conseguenze” è il secondo libro della serie “Amicizia e Onore.” 

So che sembra strano sentire la parola omicidio nella stessa frase con amicizia e onore, ma è esattamente questa discordanza che viene esplorata in questa serie. Si tratta di due ragazzi che sono cresciuti come migliori amici, quasi fratelli, ma uno è diventato un poliziotto, l’altro un sicario. 

Vi siete mai domandati quanto si possa spingere in là un’amicizia prima che si spezzi? 

Trent’anni prima, quattro ragazzi fecero il giuramento di essere amici per sempre e di guardarsi sempre le spalle reciprocamente. In “Uccidere richiede tempo”, il primo libro della serie, quel giuramento spinse uno dei ragazzi a una morte precoce e un altro a nascondersi. Solo due hanno continuato la propria vita ma il giuramento rimane.

Le parole di Nicky Fusco dettano il tema per il secondo libro: 

“I giuramenti sono qualcosa che fai quando sei giovane e desidereresti non aver fatto una volta diventato adulto.”   

Quanto vi spingereste oltre per onorare un giuramento fatto quando avevate otto anni? Quanto sacrifichereste? E se onorarlo comportasse rompere una promessa che avete fatto a vostra moglie? O a Dio?

Quando il Detective Frankie Donovan finisce nei guai e la legge non può aiutarlo, si rivolge al suo migliore amico, Nicky Fusco. Il problema è che Nicky ha promesso alla sua famiglia e a Dio che avrebbe rigato dritto. 

La maggior parte della gente non crede che i criminali abbiano onore; queste storie potrebbero far loro cambiare idea. 

LanguageItaliano
Release dateFeb 14, 2017
ISBN9781507173473
Uccidere ha delle conseguenze
Author

Giacomo Giammatteo

Giacomo Giammatteo lives in Texas, where he and his wife run an animal sanctuary and take care of 41 loving rescues. By day, he works as a headhunter in the medical device industry, and at night, he writes.

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    Book preview

    Uccidere ha delle conseguenze - Giacomo Giammatteo

    I giuramenti sono qualcosa che fai quando sei giovane e desidereresti non aver fatto una volta diventato adulto.  ̴ Nicky Fusco

    Introduzione

    Wilmington, Delaware

    Le azioni hanno delle conseguenze e io l’ho imparato tempo fa.

    •  L’ho imparato quando avevo cinque anni e mi beccarono a rubare delle sigarette.

    •  L’ho imparato quando Mikey The Face Fagullo ci fece il culo per non avergli dato una fetta delle sigarette che avevamo rubato da un carro merci.

    •  L’ho imparato quando Padre Tom ci beccò a giocare a carte anziché essere a messa.

    •  Ma più di tutto, l’ho imparato quando ho sparato a Freddy Campisi. Quella lezione mi è costata dieci anni in prigione.

    Azioni diverse producono conseguenze diverse. Fare qualcosa di sbagliato ed essere sbattuti in prigione. Questo è un tipo di conseguenza. Se finisci in prigione, sconti la tua pena ed esci. Tutto qui. Finisce qui.

    Ma c’è un altro tipo di conseguenza, ben peggiore, quella con la quale devi convivere ogni giorno della tua vita. Il tipo di conseguenza per cui ti prenderesti a schiaffi. Il tipo di conseguenza che non se ne va. Io ho scontato la mia pena per aver ucciso Freddy Campisi. Con le altre cose che ho fatto ci devo convivere. Quelle rimangono fra me e Dio. Sono la mia croce sul cuore.

    Nicky Fusco

    Capitolo 1

    Restrizione

    Wilmington, Delaware

    Guardai fuori dalla finestra che dava su Front Street, poi allungai la testa finché non riuscii a vedere il campanile della Chiesa di Sant'Elizabeth. In una buona giornata, quando la finestra era aperta, riuscivo a sentir suonare le campane. Tutto quello che riuscivo a sentire oggi era il traffico. Sollevai la cornetta e feci il numero di Angie; mi stava aspettando per cena. Adattarmi alla mia nuova vita era stato difficile. Avevo scambiato l'eccitazione e il pericolo con una routine famigliare e un lavoro stabile. Tutto sommato era stato uno scambio buono, ma alcune volte non vedevo l'ora di fare qualcosa. Angie rispose al quinto squillo. Li contavo sempre perché avrei riagganciato se nessuno avesse risposto dopo il quinto squillo.

    «Pronto.»

    Angie aveva la voce più bella del mondo. Forte ed energica ma . . . anche dolce.

    «Ehi, tesoro, devo controllare un lavoro stasera, quindi arriverò un po' in ritardo. Tu e Rosa mangiate pure senza di me.»

    «Io ti aspetterò» rispose. «Rosa mangia con un'amica.»

    «Okay, come vuoi. Ci vediamo più tardi.»

    Afferrai la valigetta di sottile pelle nera che Angie mi aveva regalato per il mio compleanno, vi infilai i progetti e mi avviai verso la porta. «Sheila, dì a Joe che sono andato a controllare quel nuovo cantiere.»

    «Quale?»

    «I nuovi condomini.»

    «Okay, ci vediamo domani.»

    Odiavo mentire a Sheila. E odiavo ancor di più mentire a Angie, ma questo era qualcosa che doveva essere fatto. Controllai l'orologio e misi in moto l’auto: le 16:45. Avrei avuto tempo sufficiente per arrivare sul posto prima che Marty Ferris uscisse dal lavoro. Era lo spregevole ex patrigno di Rosa e aveva bisogno di una lezione. Questo significava che mi sarei dovuto alzare presto per controllare quei condomini prima di andare al lavoro il giorno dopo, ma andava bene così. Mi piaceva andare a vedere i cantieri, controllare che non vi fossero sorprese. Non era solo questione di calcolare quanti mattoni e malta, ma anche quante impalcature e quante assi e pilastri sarebbero serviti. Tutto il necessario.

    Stavo pensando a quanto ero fortunato ad avere questo lavoro quando improvvisamente mi resi conto che stavo arrivando in Union Street. Misi la freccia, svoltai a sinistra e mi diressi verso sud, infilandomi in un parcheggio appena a nord di Sixth Street, il mio chiosco preferito per il sorbetto. Dopo aver controllato di nuovo l’ora, scesi, presi una bibita e poi tornai in macchina. Marty Ferris sarebbe uscito presto. Avrebbe pagato per quello che aveva fatto a Rosa. Erano passati già sei mesi e io mi ero attenuto a tutte le regole che il mio vecchio mentore, il sicario Johnny Muck, mi aveva insegnato. Non importava quello che avevo promesso a Angie, era tempo che Marty Ferris imparasse una lezione.

    ***

    Marty Ferris uscì dal bagno, si lavò le mani due volte, le asciugò e gettò la salvietta di carta nel cestino. Era quasi ora di andare e niente lo rendeva più felice. Un altro giorno passato a tagliare pezzi di carne con una mannaia gli aveva fatto guadagnare abbastanza per pagare i suoi conti settimanali e qualche birra al Teddy’s. Neanche lontanamente quello che si meritava per dover trattare con quegli stronzi che entravano domandando dei tagli particolari o dei ritagli di grasso, ma era il meglio che potesse fare considerando l’economia. A volte aveva voglia di prendere uno dei coltelli e tagliar via un po’ di grasso dai clienti, specialmente dalla Signora Mariano. Era una vera spina nel culo. Quella donna non era mai soddisfatta. Entrava in negozio ogni martedì, camminando come se avesse un bastone infilato su per il culo.

    Non si dimentichi di tagliare via tutto il grasso, Marty. Tutto.

    Quella voce petulante gli strideva contro i nervi e lo accompagnava per molto tempo anche dopo che se n’era andata. Quella stupida troia avrebbe dovuto capire che era il grasso che dava un buon sapore alla carne, ma lui non glielo avrebbe mai detto.

    Marty finì di avvolgere alcune cotolette per il cliente che stava aspettando, pulì i coltelli e aspettò che finisse la giornata. L’orologio batté l’ora; erano le cinque e trenta del pomeriggio, la prima cosa dall’ora di pranzo che fece spuntare un sorriso sul volto di Marty. Si slacciò il grembiule e andò nel retro. «È ora che vada, Sal. Ci vediamo domani.»

    «Ci vediamo, Marty.»

    Dopo essersi fregato le mani uscì dall’edificio, salì in macchina e si diresse verso sud su Union Street. Voleva andare a casa e farsi una doccia, ma non beveva birra da martedì sera e non vedeva l’ora di berne una. Pensò di fermarsi al bar ma poi si ricordò che era giovedì, il giorno del panino imbottito di Casapulla’s.

    ***

    Ero seduto in macchina un isolato più a nord di dove lavorava Marty e stavo ancora sorseggiando il mio sorbetto per rinfrescarmi. Non c’era niente di meglio di un sorbetto in una giornata calda. Mentre pensavo questa cosa, mi stupii dell’idea geniale di combinare zucchero, ghiaccio e limone in una bevanda che era dannatamente vicina a diventare una dipendenza, sapeva di buono e di fatto spegneva la sete. Il sorbetto era una delle cose che gli erano mancate di più quando viveva a New York e ancor di più in prigione. Non ho mai visitato tutto il paese, ma finora non ho trovato nessun posto che facesse un sorbetto come quello di Wilmington. Per una città piccola come questa aveva molte cose speciali, in particolare in fatto di cibo.

    Qualcuno che non riconoscevo stava camminando verso nord su Union Street. Avevo capito che mi conosceva dal modo in cui mi guardava, chinandosi leggermente per avere una visuale migliore di chi sedeva dietro al volante. Il suo volto mi era familiare ma non riuscivo a dargli un nome. Frankie era sempre il migliore in questo. Credo che non esista nessuno che Frankie abbia dimenticato una volta incontrato. Persino dieci anni più tardi riusciva a sputar fuori subito un nome. Avrei sempre voluto essere capace di farlo, ma non ci sono mai riuscito. Feci un sospiro quando il tizio si diresse verso di me. Non c’era verso che mi venisse in mente il suo nome in tempo.

    Il tizio si chinò un po’, si sporse verso l’auto e sorrise. «Ehi, Nicky. È bello rivederti.»

    Io gli tesi la mano e strinsi la sua, poi iniziai a fingere un momento di mi sono scordato il tuo nome, ma finii per fare quello che facevo sempre quando mi trovavo in queste situazioni. «So che dovrei ricordarmi il tuo nome, ma non ci riesco.»

    Il tizio rise, probabilmente per coprire l’imbarazzo di essere stato dimenticato. Se soltanto la gente avesse capito che non era colpa loro ma solo una cosa che mi accadeva di continuo.

    «Sono Howard. Ti ricordi, in prima superiore, Sorella Louise?»

    Ci pensai per un momento, poi scossi la testa. «Non me lo ricordo, Howard. Mi dispiace. Ricordo a malapena Sorella Louise.»

    Lui sorrise ancora un po’. «Non importa. Mi ha fatto piacere rivederti comunque. Stammi bene.»

    «Sì, stammi bene anche tu, Howard.»

    Mentre camminavo per la strada, mi ripetevo il nome nella testa, sperando di ricordarmelo nel caso ci incontrassimo di nuovo. Entro pochi secondi tornai a cercare Marty, concentrandomi sulle auto che si dirigevano verso sud su Union Street. Un minuto più tardi vidi la sua, la lasciai passare prima di uscire e poi rientrare qualche isolato dietro di lui. Passammo Front Street, superammo il parco e la strada dove abitava, poi superammo il ponte fino a Elsemere. Non appena puntò verso il ponte, seppi dove stava andando; di giovedì Marty di solito si concedeva una cheesesteak al Casapulla’s. La maggior parte della gente credeva che Philadelphia avesse le cheesesteak migliori, ma la piccola vecchia Wilmington, Delaware, faceva i migliori panini imbottiti e le migliori bistecche, nessuno escluso e il Casapulla’s ne era il re. Lo era stato per più di cinquant’anni.

    In origine avevo programmato di torturare Marty, ma qualcosa dentro di me non voleva che lo facessi, perciò, mentre aspettavo in macchina, decisi che gli avrei solo fatto un discorsetto. Se questo non avrebbe funzionato, gli avrei sparato e sarebbe finita lì. Avevo programmato di farlo prima che si prendesse da mangiare, ma nonostante l’odio che provavo per quel tizio, non riuscivo a giustificare il fatto di ucciderlo a stomaco vuoto. Tutti meritavano un buon ultimo pasto.

    Per non rischiare di essere visto, mi spostai e decisi di aspettarlo a casa sua. Tornai indietro attraverso il ponte e fui attratto da un cartellone di McDonald che si vantava dei miliardi che avevano guadagnato. Mi lampeggiò sulla sinistra, così svoltai in un parcheggio e aspettai. Marty viveva a Canby Park, proprio dall’altro lato della strada e da lì avrei potuto vederlo arrivare. Se manteneva la sua routine, sarebbe tornato a casa a farsi una doccia e poi sarebbe uscito a farsi qualche birra. Perfetto. Avrei aspettato che uscisse dal bar e lo avrei preso allora.

    Dopo circa mezz’ora iniziai a preoccuparmi. Non avrebbe dovuto metterci tutto quel tempo per prendersi un sandwich, nemmeno se fossero stati indaffarati. Aspettai altri dieci minuti e poi avviai l’auto e guidai fino al Casapulla’s. L’auto di Marty non c’era.

    Merda! Come ho fatto a perderlo? Girai l’auto e tornai di nuovo davanti a casa di Marty. Non era nemmeno lì. Forse non era destino. Non ho mai guardato le cose da questo punto di vista, quindi forse era un presagio. Angie continuava a ripetermi costantemente di non fare niente di illegale e, mentre le promettevo che non lo avrei fatto, c’era questa cosa che avevo promesso a me stesso molto tempo prima, e quindi non la consideravo.

    Forse aveva ragione lei. Persino gente come Marty meritava un secondo esame. Tirai il freno, misi l’auto nel parcheggio e presi una moneta da un quarto di dollaro dalla vaschetta per le monete sotto la radio.

    Croce.

    Lanciai la moneta, un tiro per decidere del destino di Marty.

    Testa.

    Annuii. D’accordo, Marty vivrà. Misi in moto l’auto e mi diressi verso casa, con una bella sensazione nella pancia. Sorella Mary Thomas sarebbe stata orgogliosa. Mentre guidavo verso casa mi domandai cosa avrei fatto se dal lancio della moneta fosse uscito croce.

    Impiegai meno di cinque minuti per tornare a casa. Angie e io ci eravamo trasferiti in una villetta singola su Beech Street. Si trovava a pochi isolati da dove eravamo cresciuti, ma le case erano più carine ed erano ancora nel distretto della scuola di Sant’Elizabeth. E mi ero anche avvicinato di qualche isolato al luogo dove i ragazzi si ritrovavano e giocavano a carte. Doggs era ancora in giro e gestiva ancora le partite e c’erano anche Patsy the Whale e Charlie Knuckles. Mikey the Face languiva in prigione e Pockets era stato ucciso durante una rapina a mano armata. Qualcuno degli altri se n’era semplicemente andato.

    Parcheggiai l’auto, gettai la borsa nel baule e camminai sul marciapiede verso casa, poi salii i gradini della scalinata d’ingresso due alla volta. Quando raggiunsi la cima delle scale, aprii la porta principale. Angie era in piedi al centro della stanza e stava abbracciando Rosa. Stavano piangendo.

    Mi misi quasi a correre verso di loro. «Cos’è successo? State bene?»

    «È per Marty» disse Angie. «Rosa lo ha incontrato per un panino imbottito e si sono messi a discutere. Lui l’ha picchiata.»

    Il mio corpo si mise in tensione. Strinsi i pugni. Quel fottuto stronzo la pagherà.

    Rosa si divincolò da sua madre e si strinse a me, abbracciandomi. «Papà, non fare niente. Io sto bene. Non è successo niente. Non fargli del male, okay?»

    Io la tenni stretta a me. Le diedi delle pacche sulla schiena. Tutto quello a cui riuscivo a pensare era quello che Mamma Rosa ci diceva sempre quando le cose andavano male. «Non ti preoccupare, Rosa.»

    «In inglese!» gridò. «Parla in inglese.»

    «Ho solo detto di non preoccuparti.» Dentro di me, però, ribollivo. Immagini di cosa avrei fatto a Marty quando lo avrei preso e di quanto lo avrei fatto soffrire. Pensai a chiodi e viti e martelli e acido . . .

    Poi la sentii farmi un pizzicotto. «Papà. Papà, mi stai ascoltando?»

    Io abbassai lo sguardo su di lei e le strofinai la testa. «Cosa?»

    «Mi hai sentito quanto di dicevo di non fargli del male? Ero seria.»

    Aveva gli occhi rossi per il pianto le guance chiazzate, ma il suo volto era quello di un angelo. Come potevo rifiutare. «Va bene, Rosa. Ma ti giuro . . .»

    «Non ti preoccupare. Non succederà mai più. Ho smesso di vederlo per sempre.»

    La attirai a me e la abbracciai. Hai ragione, Rosa. Non succederà mai più.

    Capitolo 2

    Raduno

    Brooklyn, New York

    Tom Jackson supponeva di essere un assassino da sempre. Era nato assassino, come diceva sempre suo padre parlando di Beau, uno dei loro cani da guardia. Tom si ricordava di aver pianto quando Beau uccise il suo pollo preferito, ma quando lo riferì a suo padre, questi fece quello che faceva sempre, gli insegnò una lezione. Andò in cucina, tornò con un coltello da macellaio e lo diede a Tom.

    «Fai quello che devi, ragazzo», disse e indicò Beau.

    Quando Tom ferì Beau, il cane emise un guaito dolciastro che fece piangere Tom ancor di più e che costrinse suo padre ad andare al capanno. Quando tornò con il bastone per le fustigate, Tom si asciugò le lacrime velocemente: in casa Jackson, più piangevi e più venivi fustigato.

    Quel giorno, suo padre picchiò Tom ferocemente; era il tipo di punizione che suo padre dava ai cani se disobbedivano, del tipo che faceva uscire sangue e ferite per giorni. Tom imparò la lezione. Anni più tardi, dopo che sua madre morì, Tom usò quello stesso coltello per tagliare la gola a suo padre, però non pianse quando lo uccise. Dopodiché lo seppellì accanto a Beau, sistemò tutti i conti della fattoria, impacchettò le sue cose e se ne andò.

    Ripensando a quel giorno, Tom si domandò se l’aver ucciso Beau fosse stato l’episodio che aveva segnato la sua strada nella vita. Si trattava di uccidere Beau o di entrare nell’esercito. Se avesse scelto l’esercito, ne sarebbe uscito un buon lavoro. A Tom piaceva uccidere più di ogni altra cosa, persino più del sesso.

    Il pensiero del sesso gli fece venire in mente sua moglie, Lisa. Gli vennero in mente immagini delle sue curve morbide, della leggera rotondità del suo ventre. Tom odiava le donne troppo magre. Di questi tempi metà delle donne non era nient’altro che un mucchio di ossa. Questo gli fece ricordare di mangiare un’aletta di pollo. Lisa aveva la quantità giusta di carne addosso e a lui piaceva avvolgere le braccia attorno a lei di notte e sentire quel leggero oscillamento.

    Un dolore pulsante nella gamba lo costrinse a muoversi. Strofinò il punto intorno alla ferita, dove la pallottola lo aveva colpito. Era quasi guarita ma zoppicava ancora leggermente. Il dottore aveva detto che avrebbe potuto andare avanti così anche per un anno, anche se Tom ne dubitava. Lui era sempre stato uno che guariva in fretta. Persino quando suo padre lo picchiava veramente forte, i lividi sparivano in un giorno o poco più. Immaginava che fosse quello il motivo per cui suo padre colpiva Tom quasi sempre di venerdì sera: quello o bere.

    Un sobbalzo sulla strada scosse Tom, innescando altro dolore. Guardò fuori dal finestrino del taxi e osservò la gente che si affollava, tutti di fretta. E le auto, stipate insieme coi clacson che suonavano. Era passato molto tempo da quando aveva visto qualcosa del genere. «Quanto manca?» chiese al tassista.

    «Circa quindici minuti.»

    Tom prese lo zaino di tela ed estrasse i fogli di congedo. Con disonore. Cosa cazzo pensavano? Dopo tutto quello che aveva fatto per loro. La parte peggiore della cosa era che lo avevano licenziato per aver ucciso quello che loro definivano un sant’uomo. Quei figli di puttana non avevano nessun sant’uomo. Sono tutti fottuti pagani. Avrebbe dovuto sparare all’intero villaggio, bambini e tutto. Allora non sarebbe rimasto nessuno a raccontare quello che Tom aveva fatto. Questo era ciò che avrebbe fatto se avesse potuto, ucciderli tutti.

    Non si era reso conto di quanto fosse teso finché un altro dolore acuto gli si arrampicò su per la gamba. Respirò profondamente, si rilassò e lasciò andare la mente alla deriva. Avrebbe dovuto pensare a cose rilassanti, ma la sua mente si concentrò su Lisa. Il pensiero di lei, però, lo rese ansioso e rigido. Non desiderava nient’altro che afferrarla e gettarla sul letto, ma temeva che si sarebbe vergognata di lui. Era sempre stata così orgogliosa di quello che aveva fatto nell’esercito, gli aveva persino suggerito di riarruolarsi se glielo avessero permesso.

    Il tassista arrivò al suo edificio, scese e aiutò Tom a raggiungere la porta portandogli le borse. Tom pagò la corsa, lasciandogli una buona mancia, poi prese l’ascensore fino al quarto piano e si avviò verso il n. 412. Bussò, ma non si aspettava di trovare a casa qualcuno; era ancora presto. Quando lei non rispose, si sedette sul pavimento contro il muro, sognando la serata che avrebbero trascorso insieme, ma preoccupandosi di doverle raccontare cosa era successo. Mentre pensava a tutti i modi per iniziare il discorso, si ricordò che lei teneva una chiave di riserva nascosta nel locale lavanderia.

    Qualche minuto dopo tornò con la chiave e aprì la porta, gettando le borse sul pavimento. Bevve un sorso d’acqua e poi andò in camera da letto per farsi una doccia. La stanza da letto era piccola ma aveva un bell’armadio, abbastanza capiente da contenere gli abiti di entrambi, sebbene nessuno dei due fosse un fanatico dei vestiti. Si tolse la camicia e andò all’armadio desiderando annusare il profumo di lei. Era passato tanto tempo.

    Tom restò di sasso. Non credeva ai suoi occhi. Appesi accanto ai vestiti di lei c’erano diversi abiti, camicie e cravatte. E sul pavimento tre paia di scarpe da uomo.

    «Cosa cazzo . . .»

    Si rimise addosso la camicia, senza preoccuparsi di farsi la doccia, poi si prese a pugni in faccia, forte. Poi ancora. Dopodiché si sedette sul bordo della vasca e pianse. Per quasi dieci minuti si domandò dove aveva sbagliato, cosa l’avesse portata a fargli questo. Senza risposte, si alzò in piedi e camminò per il soggiorno, chiuse a chiave la porta, poi prese le borse e le infilò nell’armadio in camera da letto. Prese il coltello e la pistola e si sedette sul letto in attesa.

    Un gatto serpeggiò per la stanza, un piccolo gatto nero con una voce sottile. Si strofinò contro la gamba di Tom e miagolò, ma così sottovoce che lui quasi non lo udì. Tom lo raccolse, si sedette sul letto e gli strofinò la testa. All’inizio lo accarezzò dolcemente, poi i suoi muscoli si tesero. Immaginò che il gatto appartenesse a quell’uomo. Le mani di Tom si strinsero intorno al suo collo, ma proprio quando fu sul punto di spremergli la vita fuori dal corpo, emise un altro leggero miagolio. Il gatto lo guardò con occhi innocenti.

    «A chi appartieni?» chiese Tom e mollò la presa. Avrebbe aspettato e lo avrebbe scoperto. Non c’era bisogno di farlo ora.

    Un’ora dopo la porta principale si aprì. Il suono della risata di una donna risuonò nell’ingresso. Era Lisa, avrebbe riconosciuto la sua risata dovunque. Tom sorrise, ma solo per un istante. Calda, sulla scia della sua risata, risuonò la voce di un uomo. Il pugno di Tom si strinse intorno al manico del coltello e le vene della mano pulsarono. Ci volle tutto il suo autocontrollo per trattenersi, per evitare di fiondarsi nel corridoio e tagliare la gola dell’uomo. La pazienza di Tom durò per altri quindici minuti, soffrendo quando ridevano e parlavano di esperienze che avevano condiviso e di cui lui non sapeva nulla. Si sforzò di fare dei respiri profondi. Respiri lenti, semplici e controllati, seguendo il sentiero del qi.

    «Vado a farmi una doccia», disse Lisa.

    «Non senza di me», rispose l’uomo. «E pensa, ho l’intera settimana libera. Qualche idea si quello che potremmo fare di tutto quel tempo?»

    Tom chiuse gli occhi, teso.

    Quando la porta della camera da letto si aprì, afferrò il braccio di Lisa e la strattonò di lato. Avanzò, muovendosi verso l’uomo e gli affondò il coltello nel ventre. Lisa gridò ma Tom spinse la lama in tutta la sua lunghezza sotto le costole e nei polmoni. L’uomo portò le mani alla ferita, rantolò e cadde a terra. Sarebbe morto in pochi minuti.

    Tom si voltò verso Lisa e le mise il coltello vicino al viso. «Fai un altro rumore e ti uccido.»

    A quel punto lei dotte averlo riconosciuto. Prese fiato e le mani le corsero alla bocca. «Tom! Oh mio Dio. Cos’hai fatto?»

    Avrebbe voluto ferirla. La sua mano tentennò, accennò a muoversi, ma riuscì a mantenere il controllo. La spinse sul letto. «Silenzio.»

    L’uomo sul pavimento fece qualche ultimo faticoso respiro. Un rivolo di sangue gli gocciolava dalla bocca.

    «Mio Dio, lo hai ucciso.» Lisa si mosse verso l’uomo, ma Tom la trattenne.

    «Cosa ti aspettavi che facessi?»

    «Cosa ci fai qui? Perché . . .»

    Il pugno di Tom si strinse attorno al coltello. «Ti farò una domanda.» La prese per la gola e premette il coltello contro la sua gola pulsante. «C’è qualche ragione per cui non dovrei ucciderti?»

    Voleva colpirla, ma non ci teneva molto a colpire le ragazze, almeno finché si comportavano bene. Questo era quello che gli aveva insegnato suo padre, ma era stato appena prima di picchiare la madre di Tom a morte. La picchiò così forte che la sua testa si spaccò come un melone marcio. Un paio di settimane più tardi collassò. Suo padre quel giorno fece prendere a Tom la pala e lo fece iniziare a scavare.

    «Deve essere profonda», gli disse suo padre. «Molto profonda. Non voglio che i coyote la trovino.»

    No, signore. Tom non colpiva le femmine. Se una donna era il bersaglio, lui le avrebbe sparato con una calibro cinquanta, le avrebbe staccato mezza testa, ma picchiare una donna non aveva alcun senso. Aveva visto suo padre farlo fin troppo spesso.

    «Calmati, Lisa. Smetti di piangere.»

    Il pianto passò da un uggiolio incontrollato al singhiozzio, poi iniziò a tirare su col naso. Alla fine si sedette sul letto, tremante.

    Tom le si avvicinò, col sangue che gli ricopriva la mano, il braccio e la parte davanti dei suoi abiti. «Non volevo turbarti, ma . . . beh, lui doveva morire. Lo capisci, vero?»

    Lisa annuì, asciugandosi gli occhi con la manica della camicetta.

    Finisci il lavoro. La frase gli risuonò nella testa, un ricordo del suo addestramento. Ma non lo avrebbe fatto, non poteva farlo. In nessun caso avrebbe ucciso Lisa. La attirò a sé, col sangue della camicia che le macchiava la fronte. Lei tremò. Lui avvertì la sua reticenza ma la tenne ferma. «Dovrai essere coraggiosa. Io non ti farò del male finché farai quello che ti dico.»

    Lei singhiozzò più forte. «Okay.»

    «Bene, perché dobbiamo ripulire questo casino ed è importante che ripuliamo tutto per bene.»

    «Okay» sussurrò in mezzo ai singhiozzi.

    «Prendilo per i piedi a aiutami a infilarlo nella vasca.»

    Lisa pianse per tutta la strada verso il bagno. Tenne la testa voltata di lato, rifiutandosi di guardare il corpo, ma lo fece senza vomitare ed era un bene. Lui tolse le tende della doccia, così non si sarebbero rovinate, poi fece scorrere l’acqua prima di infilare il corpo nella vasca. Lisa rimase in piedi accanto a Tom, tremante, a guardarsi le mani insanguinate.

    «Devo lavarmi» disse.

    «Non ora» rispose Tom. «Prendi il seghetto.»

    Tom rimosse la testa, ma fece rimuovere a Lisa i piedi e le mani. E il pisello, ovviamente. Lei vomitò diverse volte e svenne una volta per qualche secondo, ma riuscì a finire. Infilarono le parti del corpo in borse di plastica separate. Avvolse i sacchetti tre volte, li infilò entrambi dentro alle valigie e li ricoprì con altri sacchi di plastica. L’ultima cosa che Tom voleva era qualche fuoriuscita. Incise qualcosa sul dorso di una delle mani appena prima di metterle entrambe insieme al pisello in un sacchetto diverso.

    Tom si rivolse a Lisa. «Togli quei vestiti dall’armadio e ringrazia che non metto anche te in uno di questi sacchi.»

    Quando ebbe finito, Lisa corse al lavandino e iniziò a fregare.

    «Non ora» disse Tom. «Devi pulire quella vasca. Bisognerà strofinarla per bene.»

    Tom tagliò il tappeto dove il sangue aveva lasciato una macchia. Infilò i pezzi in dei sacchi che mise accanto agli altri. Poi fece strofinare i pavimenti a Lisa e poi la vasca, cinque volte con la candeggina. Quando ebbe finito, le disse di entrare nella vasca.

    La paura le riempì gli occhi. Iniziò a piangere.

    «Non voglio farti del male» disse. «Lavati.»

    Mentre lo faceva i suoi occhi non lo lasciarono per un attimo. Dopo la terza volta, si risciacquò e fece per spegnere la doccia. Lui la fermò.

    «Non sei ancora pulita. Continua a strofinare.»

    Lei restò nuda, con le braccia avvolte intorno al corpo, rabbrividendo. «Sono pulita.»

    Lui scosse la testa. «Non ancora.»

    Lei si lavò altre cinque volte prima che Tom le permettesse di fermarsi. Le accostò il coltello alla pelle, sopra i peli pubici. «Questo non ti farà male» disse, e fece scorrere la lama su di lei, disegnando una linea sottile di sangue.

    Lisa soffocò un urlo.

    «Questo è per purificarti» disse lui. «Il sangue purifica l’anima.»

    Lisa tremava così forte che sembrava dovesse rompersi a metà.

    Il sangue gocciolava dalla parte anteriore del suo corpo, confondendosi con i peli. Quando pensò che ne fosse uscito abbastanza, le lanciò un asciugamano pulito. «Asciugati con quello. Assicurati di farlo entrare dentro. Ti voglio pura.»

    Lei si pulì per quindici minuti, piangendo tutto il tempo. Dopodiché, lui pulì il taglio, le fece una medicazione e le fece indossare una camicia da notte mentre guardavano la TV.

    «Devo chiamare qualcuno. Devo dire che non andrò al lavoro domani.»

    «Stronzate» rispose lui. «Tu devi andare al lavoro. Non puoi saltare il lavoro per una cosa del genere.» Saltò da un canale all’altro e poi la guardò. «Ripensandoci, sarebbe meglio che tu chiamassi. Avrò bisogno di aiuto con queste valigie. Ho deciso di metterle da qualche parte per attirare l’attenzione.»

    «Forse dovrei andare» disse Lisa. «Potrebbero chiedersi . . . »

    «Tu verrai con me.» La voce di Tom aveva assunto un tono duro. «Chiama e lascia un messaggio. E sbrigati. Voglio guardare una trasmissione.»

    Lisa fece la telefonata, poi tornò a sedersi sul divano con Tom. Si sedette a un’estremità, più lontano che poté da lui. Lui la attirò più vicina. Lei scivolò di mezzo cuscino verso di lui.

    «Di chi è il gatto?»

    Lei annaspò e corse verso la camera da letto. «Buster! Buster, dove sei?»

    «Non gli ho fatto male» disse Tom. «Ti ho chiesto a chi appartiene.»

    Lisa tornò con il gatto rannicchiato fra le braccia. «L’ho trovato per strada.» Disse lei gettando uno sguardo veloce verso la porta, poi di nuovo verso Tom.

    Lui sorrise. «Se vuoi che Buster resti in vita, devi fare tutto quello che ti dico.» La voce di Tom assunse di nuovo quel tono duro e disse: «E se guardi di nuovo verso quella porta, farai la fine del tuo fidanzato. Ti farò a pezzi io stesso e ti darò in pasto a Buster.»

    Lisa cadde sulle ginocchia davanti a lui in lacrime. «Farò tutto quello che vuoi, Tom. Ti prego, non fare male a Buster. Lui non ha fatto niente.»

    Tom le prese il gatto dalle braccia e lo mise sul divano. «Fa’ quello che ti dico e non gli succederà niente di male.»

    Guardarono la televisione per quasi due ore prima che Tom dicesse che voleva andare a letto. Quando entrarono in camera, Lisa si tolse la camicia da notte e afferrò un pigiama verde dal cassetto. Era cosparso da piccoli gattini bianchi.

    «Dormi nuda» disse Tom. «Mi piace che dormiamo nudi.»

    Lei annuì e salì silenziosamente sul letto, con la paura che tingeva ogni suo movimento. Non appena si tirò su le coperte, le gambe di Tom la circondarono e la abbracciarono da dietro. «Mi manca quella tua pancetta. Sei diventata troppo magra per me.»

    «Ho fatto esercizio» disse Lisa con voce tremante.

    Tom restò in silenzio per un po’, pur continuando ad accarezzarle la pancia

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