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Invincibile
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Invincibile

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About this ebook

Finalmente Jazmine è felice, ma che succede quando tutte le persone che ha intorno iniziano a cambiare?

«Quando ero più piccola pensavo che a un certo punto della mia vita avrei raggiunto la vetta della montagna. Sapete, il momento in cui finalmente sarei stata felice. La sera in cui ho ricevuto quello scroscio di applausi dopo la recita scolastica ho raggiunto la vetta. Il problema è che nessuno mi ha mai detto che da quella montagna sarei dovuta scendere.»

Finalmente tutto va tutto per il verso giusto per la tredicenne Jazmine Crawford. Dopo essere stata invisibile per tanti anni, ora si è fatta degli amici, parla con sua madre e sta insieme a Liam. Ma che succede quando tutti quelli che la circondano iniziano a cambiare? Rientrare in contatto con sua nonna la aiuterà o peggiorerà solamente le cose? E chi sarà alla fine a dare a quell’arrogante di Angela ciò che si merita?

Invincibile è l’attesissimo seguito di Invisibile, semifinalista dell’Amazon Book of the Year Award nel 2014.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateFeb 16, 2017
ISBN9781507173688
Invincibile

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    Book preview

    Invincibile - Cecily Anne Paterson

    Sommario

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Ringraziamenti

    Messaggio dell’autrice

    Capitolo 1

    È il giorno dopo che comincia tutto, che inizio a sognare.

    E non dico sognare nel senso di insegui i tuoi sogni o sogna in grande per vivere alla grande, come in quegli slogan che la gente scrive sulle foto prima di postarle su tutto il web, in cui si vedono montagne che squarciano le nuvole o gattini che sfidano enormi gomitoli di lana. Parlo dei sogni veri, quelli che fai la notte sotto le coperte. Sogni in cui parli, lotti, scappi. Sogni che ti piombano addosso, ti trascinano per i capelli, ti legano al letto e poi ti saltano sul petto fino a farti male.

    Incubi.

    Dopo aver perso mio padre, in teoria nei miei sogni avrei dovuto rivivere la sua morte. Dopo gli innumerevoli traslochi che avevamo fatto, avrei dovuto rivedere tutte le nostre vecchie case. Dopo quella brutta storia di bullismo a scuola, il mio cervello avrebbe dovuto avere un bel po' di materiale da rielaborare durante il sonno.

    E invece no. Dal giorno del funerale di papà non ho più sognato, o meglio, non ho fatto sogni che riuscissi a ricordare il giorno dopo. La mia mente è rimasta vuota e silenziosa per quattro anni. Mi sono messa a letto, ho chiuso gli occhi, mi sono rigirata un po' e mi sono alzata la mattina dopo.

    Ma ora non è più così.

    Ora sto recuperando il tempo perduto. È come fare un giro a tutta velocità nella casa stregata di un luna park. Ogni notte in una diversa. Mi sveglio al buio, esausta e senza fiato, spaventata o inorridita a seconda di quali sono state le particolarità del giro appena concluso. 

    Certe notti delle persone senza volto mi rincorrono per un centro commerciale e cercano di uccidermi.

    Altre notti dei mostri con code verdi e occhi neri traboccanti di pus mi inseguono in una foresta e cercano di uccidermi.

    Altre ancora cammino insieme ai miei amici; Gabby da una parte e Liam dall'altra. Io rimango indietro per un attimo, li chiamo indicando uno strano albero dalle vivaci foglie azzurre. E quando loro si voltano, hanno uno sguardo da invasati e cercano di uccidermi.

    Certe notti poi, se non sogno di essere uccisa o in generale di morire, mi ritrovo comunque in mezzo a una tempesta su uno spuntone di roccia, in cima a una montagna. Il vento ulula e la pioggia per poco non mi fa cadere, ma io rimango lassù e guardo i nuvoloni sotto di me. Quelle notti capisco di aver vinto, ma il sogno non finisce così. No, c’è una parte in cui mi arrampico sulla parete rocciosa, aggrappandomi a massi ricoperti di muschio, e attraverso a fatica la foresta melmosa e umida, finché non vedo la luce in mezzo agli alberi.

    Mi sveglio alla luce del sole, sudata, esausta e un po’ affannata.

    Quando mi alzo, il pavimento di linoleum è stranamente rassicurante sotto i piedi. Provo una sensazione appiccicosa a ogni passo, come se avessi le punte dei piedi prensili. Come se le piante dei miei piedi volessero aggrapparsi a qualcosa di solido. A qualcosa di caldo. A qualcosa di reale. 

    La mattina dopo la prima di queste esperienze, racconto tutto a mamma. Lei è seduta a tavola, ancora in vestaglia, e stringe assonnata una tazza di tè, davanti a me una ciotola di cereali intatta.

    «...E poi è stato come se, non lo so, come se fosse tutto vero, ma in realtà non lo era, capisci che intendo?» le dico. «È troppo difficile da spiegare. E poi quella specie di squalo si è trasformato in una persona, era il mio peggior nemico e io lo sapevo, anche se non ci avevo mai parlato in realtà.» Scuoto la testa.

    Mamma sgrana gli occhi. Fa una faccia perplessa. «Sembra davvero terribile» commenta. «Ti senti bene, Jazmine?» Me lo chiede anche nel linguaggio dei segni, perché non porto l’apparecchio acustico e sto leggendo le labbra. Ti senti bene?

    «Sì» rispondo. Ma in realtà non lo so, perché è tutto così strano e vivido. Il mio corpo sembra carico, reattivo. Come se qualcuno mi avesse spazzolato i capelli cinquecento volte. Mi avesse punto la pelle con mille spilli e mi avesse puntato una luce negli occhi.

    Se mi sento bene? Di certo mi sento... qualcosa. Solo che non so cosa.

    Quando scendo dall’autobus ed entro nel cortile della scuola, mi porto dietro gli strascichi delle avventure folli di quella notte ancora per un po’, finché non vengono calpestati, distrutti e sepolti nel terreno da migliaia di piedi incuranti. Liam ha preso l’abitudine di aspettarmi al cancello ormai, così possiamo entrare insieme. Gabby di solito è in ritardo, ma il suo ingresso non passa mai inosservato. Oggi porta un calzino a righe colorate legato intorno alla testa. Si capisce che è un calzino e non una fascia per capelli, perché ha la forma del piede. Le pende vicino l’orecchio.

    «Visto che amore?» mi fa, indicandosi la testa. «Un’idea geniale, eh?»

    «Gabby, è un calzino» dice Liam. «Ti sei messa dell’intimo in testa.»

    «Intimo?» ripete Olivia, che è lì vicino.

    Caitlin, la sua gemella identica, ridacchia. «Hai appena usato la parola intimo

    «Mia mamma lavora da Myer» ribatte Liam. Sembra offeso e non capisco se stia solo facendo finta oppure no. «Sono preparato. Conosco tutti i vari reparti dei grandi magazzini. Intimo, casalinghi, merceria...»

    Erin, seduta accanto alle gemelle, alza gli occhi al cielo e Dan, l’amico di Liam, mugugna. «Intimo? Merceria?»

    «Io lo trovo carino, Gab» intervengo. «Ti sta bene.»

    «Ah. Visto?» esclama Gabby trionfante. «Posso sempre contare su di te per avere l’opinione giusta» mi dice. «A differenza di qualcuno.» Rivolge un’occhiataccia a Liam, ma non in modo cattivo. Poi assume una posa. «Capito? Sto lanciando una moda. Alla fine della giornata tutti» e indica l’intera area della scuola «porteranno un calzino sulla testa.»

    Le sorrido. «Sei matta.»

    Arriccia le labbra e finge di mandarmi un bacio, prima di scacciare Dan che tenta di afferrare il calzino. Vuole strapparglielo via. «Sparisci!» strilla. «Questo non si tocca. Deve rimanere sulla mia testa.»

    Guardo i suoi occhi, che brillano di ironia. Anche quelli di Liam. Sta cercando di punzecchiare Gabby cercando di scalzarla, ma in modo simpatico. E amichevole. Mi sento un po’ sollevata. Non che pensassi davvero che volessero uccidermi, ma da quando ho iniziato a fare quei sogni, c’è una domanda che mi ronza nella testa.

    Posso davvero fidarmi di loro? E anche un’altra, che forse mi fa ancora più paura: Come può il mio subconscio anche solo pensare una cosa simile?

    Liam interrompe i miei pensieri. «Okay, ci vediamo dopo allora? Vai a mensa a ricreazione?»

    «Uhm, no» rispondo. «Mamma mi ha fatto portare un panino con uova e bacon da casa.»

    «Ci vediamo fuori dalla palazzina C allora» dice lui. «Tu hai inglese, giusto? Possiamo fare la strada insieme.»

    Mi acciglio un po’. Certi giorni non mi dispiacerebbe andare da sola. «Okay» rispondo, ma non sembro molto convinta.

    Lui non ci fa caso e s’incammina. «Ti mando un messaggio.»

    Storco la bocca, ma annuisco comunque. Il cellulare è diventato un problema. Prima, quando ero la Piccola Emarginata Sociale, lo usavo solo al bisogno, vale a dire quasi mai. Ora mamma inarca le sopracciglia ogni volta che le chiedo altro credito, cioè molto spesso. Poi mi dà i soldi, ovviamente. Credo che l’idea di dirmi di no la spaventi a morte. Per lei ormai fare in modo che Jazmine sia felice e inserita è diventato un dovere. Una ragione di vita. Una missione che non ha alcuna intenzione di abbandonare. A volte mi chiedo quanto durerà, ma forse anche lei. E non parlo del telefono. Parlo della felicità.

    Ma non c’è motivo di credere che sia solo temporanea. Dal giorno dello spettacolo, Liam e Gabby mi sono stati sempre accanto, anche dopo la scuola. A scuola faccio parte del gruppo ormai. La gente mi conosce. E mi manda messaggi.

    Come Gabby, per esempio: Ehi, tu ce l’hai dei calzini a righe colorate? Ti va di mettertene uno con me domani? Baci, bacini, baciotti.

    O Liam: Perché non vieni da me oggi pomeriggio? Possiamo andare a casa insieme.

    O ancora Gabby: Incredibile! Non immagini quello che è successo. Te lo dico a ricreazione.

    Controllo i messaggi di nascosto sotto il banco. La batteria si sta scaricando, ho il sei per cento. Ho dimenticato di mettere a caricare il telefono ieri sera. In teoria non si dovrebbe portare il cellulare in classe, ma lo fanno tutti. La maggior parte degli insegnanti fa finta di non vedere, ma la signorina Patel quando se ne accorge diventa una iena, e al momento io ho già abbastanza guai. Cerco almeno di evitare che mia madre debba venire a prendermi nell’ufficio del preside. Dopo che abbiamo superato tutti quei problemi il trimestre scorso, mi ha fatto promettere che non avremmo più avuto crisi.

    «Prometti di spiegarmi sempre cosa succede» mi ha detto, quando è venuta dietro le quinte alla fine dello spettacolo. Mi ha abbracciata, ancora commossa dalla pioggia di applausi e dal trionfo della rappresentazione. «È tutto ciò che ti chiedo. Ho bisogno di sapere cosa succede.» Anche se è qualcosa di brutto, ha aggiunto poi con il linguaggio dei segni, affinché potessi capirlo solo io.

    «Anche tu.» Le ho stretto le braccia. «Non voglio mai più avere segreti.»

    E così abbiamo ricominciato da capo. Vita, fase due. È tutto più semplice quando non ti nascondi.

    A parte gli incubi.

    Espiro con forza quando ci ripenso, un tantino nauseata. Non è una cosa di cui posso parlare con i miei amici. Ehi, indovinate un po’? Stanotte sono stata inseguita da un inquietante umanoide con la faccia di cuoio e gli occhi infossati. Mi ha aggredito in mezzo ai negozi e ha minacciato per tutta la notte di conficcarmi un coltello nella gola, finché non mi sono svegliata. La notte prima invece ero su una barca a remi durante una tempesta infernale, su un’onda gigantesca, in un oceano che diventava ogni secondo più cattivo, assordante e spaventoso. Ah sì, martedì ho sognato che voi stavate per uccidermi. Alloooora... pensate che sia normale?Abbastanza, no?

    Immagino Erin che socchiude leggermente gli occhi, distoglie lo sguardo e poi cambia argomento. Le gemelle ribatterebbero subito raccontando per filo e per segno uno dei loro sogni (apparentemente collegati) di quattro anni prima. Liam potrebbe farmi un paio di domande per educazione, ma gli altri ragazzi inarcherebbero le sopracciglia, griderebbero qualcosa di volgare e poi farebbero finta di accoltellare qualcuno sull’erba, aggiungendo particolari truculenti.

    Gabby... beh, non so cosa farebbe Gabby.

    Forse mi azzarderò a chiederglielo. Devo solo aspettare che faccia una pausa tra una frase e l’altra, perché al momento, anche se sta mangiando dei cracker con il formaggio, sta parlando a macchinetta.

    «Ti giuro che non ci crederai. Cioè. Mi aspettavo che Angela dicesse qualcosa. È normale, no? Che facesse qualche commento con quella voce snob... non so neanch’io quale. Ma poi la signorina Eltham mi ha richiamata. Insomma, non potevo crederci. Mi ha guardato la testa e ha detto: Togliti quel coso Gabby, così, con questo tono severo... ha detto proprio: Togliti Quel Coso Gabby e allora le ho chiesto perché e lei ha risposto: Non fa parte della divisa della scuola

    Gabby lancia lo zaino sull’erba con un gesto teatrale e dà un altro morso al cracker. Dovrebbe proprio darsi alla recitazione. Sarebbe fantastica. Io rimango impalata aspettando che continui. Non ci vuole molto.

    «Allora ho detto alla signorina Eltham, proprio così con questo tono, molto garbato eccetera: Ma signorina Eltham, gli accessori per i capelli sono consentiti. Giuro che sono stata educatissima, ma lei ha risposto: Gabby, hai un calzino sulla testa. Al che io ho detto: «No, signorina, sto lanciando una nuova moda", e lei ha concluso dicendo che se non me lo toglievo subito avrei dovuto lanciare una nuova moda nell’ufficio del vicepreside.»

    Fa una smorfia, si ficca in bocca l’ultimo pezzo di formaggio e si lascia cadere sulla panchina del tavolo da pic-nic.

    «Oh, e ovviamente quella smorfiosa di Angela stava ridendo di me, perciò mi sono girata e le ho lanciato l’occhiataccia più cattiva che sono riuscita a fare. È proprio una...» Si gira da un lato e la sua voce diventa un borbottio impercettibile. Sussurra qualcosa e, anche se non riesco a leggerle le labbra, capisco cosa sta dicendo. Angela sta tormentando Gabby dallo scorso trimestre, principalmente perché ce l’ha con me per via dello spettacolo e di tutto quello che è successo. Io cerco di non farci caso, ma Gabby se la prende parecchio.

    «Ti sei tolta il calzino?» chiede Olivia preoccupata.

    «Sempre meglio che essere mandata dal signor Barry» aggiunge Caitlin. Sembra davvero impaurita.

    Gabby si toglie le briciole dalla bocca, poi tira fuori dallo zaino il calzino colorato e lo sventola davanti alla faccia delle gemelle. «Non ho avuto scelta. Ho dovuto toglierlo. Ma non riuscivo a crederci. Cioè, sì, d’accordo, è un calzino, ma se me lo metto in testa diventa una fascia per capelli, no? È un accessorio.»

    «Mi dispiace per te» dico. E sono sincera. «A me sembrava carino.»

    Fa il broncio. «Lo so. Sarebbe stato un successone. La prossima settimana tutti – compresa quella stupida di Angela – avrebbero portato un calzino sulla testa.»

    «Vuoi dire un accessorio» la correggo, sorridendo. Sto decisamente migliorando nel fare battute.

    Gabby mi frusta con il calzino. «Certo. Un accessorio.»

    Segue un breve silenzio. È uno di quei momenti della conversazione in cui si chiude un argomento ma nessuno ha ancora qualcosa di nuovo da dire. Non è normale per Gabby. Lei parla a raffica. A volte penso che non abbia nessun segreto. Dice tutto quello che le passa per la testa. Forse dovrei imparare da lei. Drizzo la schiena e decido di raccontare dei miei sogni. Sono convinta. Apro la bocca, prendo aria e mi preparo a parlare, ma qualcuno m’interrompe. È Liam. Si china su di me e mi dà un buffetto sul ginocchio per essere sicuro che lo senta.

    «Allora, vieni?» chiede. Mi guarda intensamente. «Oggi pomeriggio. Dovresti venire.»

    Mi sistemo un po’ l’apparecchio acustico. La sua voce non è alta come quella di Gabby.

    «Dovrò mandare un messaggio a mamma» rispondo. «Ma penso che vada bene.»

    «Bene» fa lui. Sorride e i suoi occhi azzurri mi trafiggono il cuore.

    «Fantastico.» Sorrido anch’io con aria ebete. «Sarebbe fantastico.» Mi sforzo di confinare tutti i miei incubi, di qualsiasi forma e misura, in uno sgabuzzino della mia mente in cui stanno uno addosso all’altro, compressi e accalcati. Chiudo la porta e giro la chiave.

    Ci penserò più tardi.

    ––––––––

    Capitolo 2

    Quando vado a casa di Liam il pomeriggio, lascio sempre che mi prenda la mano non appena siamo abbastanza lontani da scuola e siamo sicuri che non ci veda nessuno. Oggi però me la tiene in modo diverso.

    «Dove andiamo?» gli chiedo. «Non attraversiamo qui?»

    «Vedrai» risponde. Sembra misterioso e sicuro di sé.

    Dopo un po’ che camminiamo mi trascina in un parchetto. Ci sono passata davanti in macchina con mamma, ma non mi ci sono mai fermata.

    «Guarda qui» dice. «Ti piacciono i giardini, vero?»

    Davanti a noi c’è un grande albero dai rami intricati. Ma non ha nemmeno una foglia. Solo un enorme e magnifico ammasso di minuscoli fiorellini rosa e bianchi. Sembra un abito da cerimonia.

    «Oh!» esclamo. Non riesco quasi a trovare le parole. Mi avvicino, mi fermo sotto l’albero e alzo lo sguardo. Nei minuscoli spazi tra i fiori si vede l’azzurro del cielo primaverile. Prendo un respiro lungo, profondo. Riconosco l’odore, ma non riesco a ricordare dove posso averlo sentito.

    «Sembra zucchero filato» osservo con aria sognante. «Sono fiori di ciliegio?»

    Allungo una mano e stacco con cautela un rametto pieno di minuscoli fiorellini. «Lo porto a casa, così controllo» dico. Mi volto verso Liam, ma a un tratto me lo ritrovo accanto. «Visto che belli?»

    Gli mostro i fiori, ma lui non li guarda nemmeno. Piuttosto mi afferra per la vita e avvicina il viso al mio.

    «Non mi importa dei fiori» risponde. «Preferisco guardare qualcos’altro.»

    Si sporge in avanti per baciarmi e io riesco a pensare solo che probabilmente questo bacio, sotto questa calotta di luce e colore, sarà il più romantico della mia vita. Invece è bello, ma non del tutto. Mi sento un po’ a disagio. Voglio alzare di nuovo lo sguardo e godermi questo posto, tenere per mano Liam e magari anche ballare un po’ con lui, ma Liam preme le labbra sulle mie con maggiore insistenza. Cerco di staccarmi e di prendere aria, ma lui me lo impedisce.

    «Non ti fermare» dice, tirandomi per la camicia e circondandomi con le braccia. La sua voce è attutita.

    Sento una leggera sensazione di panico formarsi nello stomaco. Lo allontano con fermezza, ma cerco di scherzarci sopra.

    «Tua madre ci avrà dati per dispersi» la butto lì in tono spensierato. Mi asciugo la bocca con il dorso della mano. «Forse è meglio se andiamo.»

    «È tutto quello a cui riesci a pensare?» mi chiede. Fa una faccia indifferente. «Figurati, mia madre. Se ci fosse papà mi preoccuperei di più, ma lui non c‘è. E lei è tranquilla. Possiamo fare quello che vogliamo.» Ritorna alla carica. «Dai.»

    Gli tolgo le mani dalla mia vita e gliele stringo. «Non lo so» dico. E sono in imbarazzo. Non è che non mi piace baciarlo. Mi piace eccome. La sera in cui abbiamo messo in scena Il Giardino Segreto lo scorso trimestre, quella terribile sera, la sera della verità, delle lacrime, delle risate e della felicità incontenibile, Liam mi ha baciata per la prima volta.

    Siamo scesi dal palco con le ali ai piedi, i sorrisi smaglianti e il cuore colmo di gioia.

    «Evvai!» Liam ha dato il cinque agli altri

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