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Goccia dI luna
Goccia dI luna
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Goccia dI luna

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GOCCIA DI LUNA (Personalità enigmatiche)

Un nuovo caso si profila all’orizzonte dell' investigatore privato Valter Marras. A Torino, un esponente della mafia locale, vuole riavere un oggetto che, a suo dire, gli è stato sottratto. Per questo motivo viene ucciso un professionista, ma inutilmente. La polizia indaga intorno al delitto, ma sembra impantanata nel nulla, in assenza di un movente o di una prova. Intanto, il destino di un ragazzo, Matteo, si incrocia con quello di un vecchio mendicante, dal quale riceve un gravoso testimone: recuperare la "Goccia di Luna" che dovrà custodire al suo posto. Quando i malviventi, scoprono il caso di omonimia, tra il veterinario e il clochard, escogitano altri sistemi pur di raggiungere il loro scopo. Un caso apparentemente semplice di omicidio, a scopo di rapina, vede l'investigatore privato Valter Marras ancora in azione, mentre vive un momento magico. Forse ha incontrato la sua donna ideale; ma lei, in preda ad una crisi d’identità che la fa soffrire, ubbidirà al suo istinto prorompente. Questa indagine, si presenta subito inquinata dai sentimenti dei vari personaggi coinvolti che, vivono momenti carichi di emozioni, trascinati in un vortice di amori, ritorsioni e suspense, fino alle battute conclusive, in cui la situazione precipita. A quel punto, ogni dubbio è chiarito e Valter sembra essere arrivato al capolinea, mentre è pronto a ripartire.
LanguageItaliano
Release dateFeb 16, 2017
ISBN9788826024615
Goccia dI luna

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    Goccia dI luna - Lombolo Soleado

    fantasia.

    Primo

    Quel pomeriggio aveva smesso di piovere ed era ancora chiaro.

    A Moncalieri, sul piazzale antistante la parrocchia, alcuni ragazzi giocavano a calcetto.

    Oltre la strada, un mendicante con una lunga barba incolta, stava seduto per terra sul marciapiede opposto e li osservava con vivo piacere.

    Un vermiciattolo sbucato dal selciato per effetto della pioggia, a fatica stava scalando i pantaloni lisi del vecchio che, di tanto in tanto, lo guardava divertito e lo lasciava proseguire.

    Matteo, il più piccolo del gruppo, quando un calcio maldestro mandava il pallone in direzione di quell’uomo, era sempre pronto a correre per recuperarlo, perché temeva potesse irritare quei pochi passanti che, impietositi, gli regalavano una monetina. Più volte aveva sbirciato, incuriosito, quello che ormai era abituato a considerare un simpatico barbone, unico spettatore e affezionato tifoso; sempre seduto nello stesso posto ad elemosinare la carità degli altri. Matteo era un ragazzo intelligente, corporatura normale, occhi vispi di un verde acceso, capelli chiari e lisci. Dimostrava un po' più della sua età per i suoi modi educati e, contrariamente alla sorella, era adorato dai nonni oltre che dai genitori.

    Quel giorno i giocatori erano un po’ frastornati. Non potevano dimenticare Bruno, un loro coetaneo, col quale non avrebbero più giocato. La settimana prima, si era lasciato trascinare in discoteca, da sconosciuti più grandi di lui, per partecipare ad una sorta d’iniziazione detta in gergo Io ballo con sballo, dov’era deceduto per overdose. Per questo motivo la palla finiva spesso oltre la strada. Imperterrito il ragazzino, si precipitava a rincorrerla per evitare che colpisse quel disgraziato. Poi, con un sorriso disarmante, facendo spallucce, lo guardava manifestando il proprio disagio. Cercava così di scusare tutti gli amici per il disturbo arrecatogli.

    A Matteo quel vecchio riusciva simpatico e quest’ultimo, dal canto suo, quando lo vedeva avvicinare, non dimenticava di elogiarlo per lo stile di gioco e per l’educazione.

    Intanto il cielo si faceva buio e non prometteva niente di buono. Le nuvole sembravano gonfiarsi e minacciose si spostavano come grossi otri carichi d’acqua, alla ricerca del posto ideale dove svuotare il loro contenuto.

    I calciatori per niente intimoriti, continuavano a giocare sfruttando quei minuti di svago, nell’attesa di ricominciare a studiare.

    Alcuni passanti si erano fermati ad ammirare un dribbling molto efficace di Matteo, che sembrava voler dare il meglio di se in quella partita.

    Due, iniziarono ad applaudire, un terzo prese a fischiare, attirando così l’attenzione di altri curiosi. Trascorsi due minuti andarono via, mentre uno di loro mimava le azioni dei giocatori e un altro commentava a voce alta ogni movimento dell’amico, come in una radiocronaca.

    Dopo mezzora di gioco, un lampo accecante squarciò l’aria, lasciando tutti interdetti. Subito dopo, seguì un fortissimo tuono e quasi nello stesso tempo, qualcuno su nel cielo squarciò gli otri, che rovesciarono sulla terra una quantità d’acqua impressionante.

    In fretta i giocatori si salutarono e di corsa abbandonarono il campo da gioco disperdendosi per le vie, in cerca di riparo ognuno nella propria abitazione.

    Anche Matteo iniziò a correre, scansando i rivoli d’acqua color caffelatte, che già s’ingrossavano fra le pietre del selciato.

    Dopo una cinquantina di metri però, pensò al mendicante, si voltò indietro per guardarlo e da lontano, vide che era rimasto sotto la pioggia senza cercare riparo. Stava tossendo e non ce la faceva a smettere, quindi decise di aiutarlo. Tornò indietro, cercando invano di proteggersi almeno la testa usando il pallone.

    «Tu stai male. Se rimani qui con questa pioggia, ti ammalerai. Vieni con me ti porto a casa mia e ti darò un bicchiere di latte caldo. Su…vieni…vieni.»

    L’anziano malconcio seguitava a tossire. Udì quelle parole e le paragonò a fiorellini sbocciati da un cocktail d’ingenuità mista a infinita bontà; e al suo male si aggiunse così tanta emozione che non fu capace di rispondere.

    «Su, vieni. Abito qui vicino.» Lo afferrò per un braccio e a fatica lo aiutò ad alzarsi.

    «Mamma ascolta, quest’uomo sta male» disse il ragazzo sulla soglia di casa. «E’ quello che vediamo sempre nei pressi della parrocchia. Non ricordi?» Intanto si strizzava il viso con le mani per togliersi l’acqua che gli impediva di vedere bene.

    «Chiamo subito un’ambulanza, così potranno curarlo a dovere» suggerì pronta la madre di nome Rina. Provava tanta commiserazione per quello sventurato, ma non al punto da ospitarlo.

    «No, ti prego, diamogli una tazza di latte caldo e lasciamolo riposare un pó nella stanza di Roberta, tanto lei è a Roma e starà via per molti giorni. Ti prego.»

    Un'occhiata della madre sembrò fulminare Matteo, che si sentì gelare il sangue.

    «Signora non lo punisca non lo merita» intervenne il poveretto, come risvegliato dal torpore della propria fiacchezza «suo figlio è un ragazzo d’oro.» Non smetteva di tossire e sembrava soffrire un lancinante male al petto.

    Mamma Rina rimase interdetta per un attimo, sentendo quelle parole che percepì come un ammonimento insolente. Riprendendosi, stava per rimproverare a quel disgraziato il suo sentenziare da sapientone, ma capì che, davanti al figlio, avrebbe detto qualcosa di spiacevole, così tacque. Li fece entrare e irritata si avviò verso la cucina, ma prima di sparire disse in direzione del ragazzo:

    «Quando arriverà tuo padre decideremo sul da farsi.»

    Il vecchio approfittò dell’assenza della madre per bisbigliare:

    «Accompagnami sul marciapiede della chiesa, è quello il mio posto.»

    «Non temere, capiranno» rispose sottovoce lo studente, convinto di conoscere bene i propri genitori.

    Secondo

    A Torino continuava a piovere e le strade erano quasi ricoperte di acqua fangosa. La carreggiata in alcuni punti era diventata una pozzanghera.

    Il passaggio delle auto alzava un’onda d’acqua tale, che camminare sui marciapiedi era diventata un’impresa rischiosa.

    In un vecchio rione popolare dell’estrema periferia sud, confinante col comune di Moncalieri, Carmelo Cosimo Cusumano, soprannominato 3C per via del nome, stava telefonando.

    3C aveva un aspetto inconfondibile, che richiamava alla memoria un pirata dei fumetti. Alto, con grandi occhi magnetici. La pelle del viso rugosa e arrossata, come scottata dai fumi di un acido, era ricoperta da una lunga barba lasciata crescere forse per nascondere la sua bruttura. Il volto segnato da solchi profondi, il naso aquilino molto prominente campeggiava sopra una bocca, come paralizzata con espressione di perenne incazzatura. Faceva fatica a mostrarsi di buonumore.

    Parente stretto di uno dei più potenti capi della mafia siciliana, nell’ambiente della malavita torinese era considerato il suo luogotenente, rispettato e temuto come un padrino emergente.

    3C, subodorava di essere costantemente sorvegliato dalle forze dell’ordine, per questo parlava da una cabina telefonica, situata nei pressi della Pizzeria Ristorante Polifemo dov’era stato a pranzare. Non voleva lasciare traccia di quella conversazione nel suo cellulare.

    «Giovanni? Sono 3C. Sai come rintracciare lo sfregiato?»

    «Certo capo.»

    «Bene allora muovetevi. Ho per voi un lavoretto pulito senza rischi. Mettetevi in macchina e venite a Torino. Portate con voi i ferri del mestiere, solo roba leggera, non andate a caccia grossa.» Stava chiamando due persone fidate.

    «Di cosa ci occupiamo questa volta?»

    «Dovete rintracciare un uomo a Moncalieri, un certo Giulio Vetrini, per farvi consegnare con le buone maniere o con le cattive, se necessario, un oggetto che mi ha rubato.»

    3C, voleva riprendersi ciò che secondo lui gli spettava di diritto. Voleva farla pagare all’uomo che lo aveva truffato.

    A Giovanni Musumeci, diede solo una spiegazione approssimativa di cosa recuperare, esaltandone l’enorme valore simbolico. Uscì dalla cabina, soddisfatto per l’ossequioso rispetto manifestato dal suo interlocutore e la immediata conferma di collaborazione ottenuta.

    Dovette però fermarsi per qualche istante, con la vista offuscata, perché si ritrovò inzuppato d’acqua sporca, sollevata dal passaggio di una vecchia Alfa Romeo, con a bordo dei ragazzi che intanto sghignazzavano vedendolo gesticolare come un forsennato.

    «Vaffanculo! Vi ammazzo tutti, figli di puttana!» urlò col volto rosso, gonfio di rabbia e striato di fango. Velocissimo estrasse la pistola che teneva nascosta sotto il giaccone e cercò di mirare per colpire l’auto in corsa, ma l’abbondante acquazzone formava una parete opaca oltre la quale l’Alfa Romeo si dileguò.

    Giovanni Musumeci, con parecchi precedenti penali, quali spaccio di stupefacenti, rapina a mano armata e favoreggiamento della prostituzione, aveva da poco finito di scontare due anni di carcere per concorso in omicidio. Troppo impulsivo, non spiccava per la sua acutezza d'ingegno. Stava cercando una nuova sistemazione e intanto sfruttava l’ospitalità del suo braccio destro e complice di malaffare Pino Giarratana, detto lo sfregiato, per una brutta cicatrice che gli segnava il volto. Quest’ultimo, dal carattere rancoroso e perfino vendicativo, conviveva con Maria, un’ex prostituta brasiliana, non tanto bella ma con un fisico sensuale.

    Giovanni si precipitò a casa del compare che, approfittando della sua assenza, stava praticando nuovi giochi amorosi col corpo sodo della sua amica dalla pelle olivastra.

    «Pino il lavoro ci attende, e sai che il capo non sopporta aspettare» disse a voce alta all’amico, da dietro la porta della stanza da letto. «Infila i pantaloni mentre io tiro fuori la macchina dal garage. Si va a Torino.»

    Maria non voleva interrompere quello che stava portando a termine in quel momento e iniziò a protestare con violenza. Da quando Musumeci si era sistemato in casa loro, lei si lagnava di non poter più trascorrere, con la sua dolce metà, dei momenti intimi. Inoltre, non sopportava rimanere sola in casa, quando il suo Pino era impegnato in quelle che lei stessa definiva trasferte. Ma lui, in quelle occasioni, escogitava sempre un modo per tranquillizzarla.

    «Tesoro, ti prego di pazientare ancora un po’, questa forse è l’ultima trasferta, dopodiché andremo a vivere in Florida.»

    «In Florida?» chiese incredula. Maria era cosciente del fatto che, il suo uomo le stava raccontando l’ennesima frottola. Ancora una volta finse di crederci, perché s’illudeva davvero che, prima o poi, avrebbe mantenuto la promessa.

    Lui invece sapeva bene che questo era solo un espediente per evitare il peggio e lasciarla sperare.

    «Sì in Florida, e vivremo di rendita.» Le diede un ultimo bacio, mentre si allacciava i pantaloni, impaziente d’uscire.

    Terzo

    Davide Castelli, padre di Matteo, quella sera tornò dal lavoro un po’ prima e più avvilito del solito. Sulle sue spalle curve, sembrava portare tutto il peso delle lamentele ascoltate dai clienti, amareggiati per la paura di non riuscire più ad alimentare bene i propri figli. Da quando era sopraggiunta la psicosi della crisi economica mondiale, nella sua macelleria entravano pochi clienti. Gli affari andavano sempre peggio. Le persone compravano meno carne e lui ce la faceva sempre meno a pagare i fornitori.

    Appresa dalla moglie la notizia del barbone, saltò su tutte le furie e le chiese di chiamare il figlio, che in quel momento faceva compagnia all’inatteso ospite e vigilava sulla sua salute. Un impeto di rabbia assalì Davide. Quando vide arrivare Matteo mogio mogio e intimorito pensò: Mi dispiace, ma devi imparare a comportarti da ometto.

    «Matteo questa è la prima e l’ultima volta che porti in casa un estraneo senza il nostro consenso. Per questo riceverai una giusta punizione. Intanto lo sorveglierai tu, mentre sta dentro questa casa e in ogni modo, domani andrà via. Non m’importa dove. Mi sono spiegato o devo ripetertelo? Ora vai e vigila quell’uomo!»

    Il ragazzo non era mai stato rimproverato con tale impeto da suo padre, specie con l’approvazione della madre, che in precedenza aveva sempre cercato di coprire ogni sua marachella, in verità mai tanto grave.

    Entrato in camera, faceva fatica a concentrarsi per continuare il compito di matematica, interrotto prima di andare a giocare coi compagni.

    Udiva i genitori litigare, prima sommessamente, dopo sempre più forte. Temeva che potesse udire perfino il mendicante, sistemato nella camera della sorella in fondo al corridoio, lontano dalla cucina, dove si stava svolgendo la prima vera lite seria fra papà e mamma, per un suo errore.

    Tutto d'un tratto si sentì solo, gravato dalla responsabilità di un gesto caritatevole, per il quale semmai si sarebbe immaginato un elogio o comprensione o un apprezzamento e mai una minaccia di punizione.

    Si rese conto di essere stato forse troppo impulsivo, solo quando, nella camera della sorella, cominciò ad avvertire un odore cattivo e pungente, come un puzzo marcescente. Era sprigionato da quel corpo stanco e sudato, che immaginò lercio come gli abiti che indossava da chissà quanto tempo.

    Aveva desiderato perfino di convincerlo a docciarsi, e poi offrirgli degli indumenti del padre; puliti e stirati, come sua madre li faceva trovare a lui tutte le volte che serviva; ma dopo il rimprovero ricevuto, dovette abbandonare quei pensieri.

    Spesso, in chiesa aveva ascoltato il prete, mentre parlava di carità cristiana e di aiuto umanitario e di soccorso ai più deboli. Lui credeva a queste cose. Ora invece, demoralizzato, si domandava se seguire quella dottrina, servisse solo per attirare su di se le ire del padre e come se non bastasse anche della madre.

    Viveva male quella situazione, ma ormai, non aveva più il coraggio, di suggerire a quell’infelice che era meglio farsi accompagnare in ospedale.

    Avvertì un improvviso accesso di febbre.

    Quarto

    Quella sera sembrava più buia delle altre. Aveva di nuovo smesso di piovere ma faceva ancora molto freddo. Il cielo concedeva una tregua, sebbene fosse tutto coperto e foriero di nuovo maltempo.

    Una Citroen C4 Picasso arrivò a Moncalieri, nel quartiere residenziale Le Magnolie, composto in buona parte da villette unifamiliari. L’auto si fermò in un angolo della strada confinante con l’elegante Villa Vetrini. Due uomini vestiti di scuro, guardinghi e con passo sicuro, si avviarono verso l'ingresso. Si fermarono poco distante dal cancello e rimasero appostati nel punto più buio, riparati da alti arbusti sporgenti che delimitavano la proprietà.

    «Forse è meglio rimanere a questa distanza» disse Pino, il più giovane dei due.

    «No, avviciniamoci di più al cancello. Dobbiamo essere certi di non sbagliare il bersaglio.» Giovanni sembrava impaziente di portare a termine quell’incarico e voleva dimostrare di essere il più sveglio benché fosse più anziano.

    «Ma cosa ti salta in mente? Vogliamo rischiare di farci scoprire e mandare tutto a catafascio?» protestò Pino, che già da qualche tempo pativa i consigli del compare che giudicava ingombrante.

    «Zitto, o sarai tu con le tue ciance a cacciarci nei guai e allora dovrai giustificarti col capo e sai che non perdona mai.»

    Pino, dal carattere istintivo, mal sopportava l’irruzione dell’amico nella sua vita privata; odiava vederlo girare per casa e usare maniere galanti con Maria. Forse per questo pretendeva almeno della gratitudine; in ogni modo, sperava che dopo quel lavoro, se ne andasse ad abitare da qualche altra parte.

    «Stiamo calmi. Forse il nostro uomo sta venendo» incalzò Giovanni.

    «E’ lui. Era ora!» borbottò Pino Giarratana in fastidito, mentre schiacciava le spalle contro gli arbusti, per non farsi vedere.

    Il veterinario Giulio Vetrini, proprietario della villetta, stava rincasando dal suo consueto giro di visite. Mentre infilava la chiave nella toppa del cancello, Musumeci tirò fuori la pistola munita di silenziatore e prese la mira. L’ignaro individuo s’accasciò sulla massicciata di cemento ai piedi del cancello.

    «Perché gli hai sparato, razza di rincoglionito! Potevamo solo immobilizzarlo.»

    «Non lamentarti sempre!» rispose Musumeci con faciloneria. «Vedrai che l’ho soltanto ferito.» Si avvicinarono all’uomo che giaceva immobile.

    Pino gli palpò la vena giugulare con l’indice e il medio. Capì subito che non c’era più niente da fare. La pallottola gli era entrata nel cervello.

    «E bravo Giovanni che lo ha solo ferito!» sbottò Pino a denti stretti con sguardo ostile. «Meno male che hai mirato per lasciarlo in vita! Allora per ucciderlo gli avresti sparato ai piedi?»

    «Scusa…io…»

    «Scusa un cazzo! E ora chi ci dice dove tiene l’oggetto che cerchiamo? Ci serviva vivo e non stecchito! Hai capito Giovanni? Vivo! Vivo! Vivo!» lo interruppe Pino rabbioso.

    «Lo troveremo, vedrai. A costo di mettere la villa sottosopra. Il capo mi ha assicurato che la moglie e il figlio di questo disgraziato sono morti da qualche tempo, quindi suppongo non ci sia nessun altro in casa e potremo lavorare indisturbati. Portiamolo dentro» si affrettò a commentare Giovanni Musumeci evitando la disputa.

    Pino prese a mugugnare e bestemmiare, ma annuì senza replicare. Usando le chiavi del cadavere aprirono il cancello, successivamente la porta d’ingresso e lo trascinarono dentro casa, dove non c’era nessuno come si auguravano. Tutto era in ordine, fin troppo per essere l’abitazione di un single, senza una donna; ma questo non lo percepirono. Sapevano in modo approssimativo cosa cercare: - Un tale di cui conoscevano il nome, e una pietra cristallina simile nella forma ad un limone, rubata a 3C -; questo è quanto era rimasto impresso nei loro cervelli privi di raziocinio. La persona l’avevano uccisa sicché volevano impossessarsi della pietra.

    Rovistarono ogni angolo della villa per almeno due ore, continuando a bestemmiare e a spronarsi, accusandosi l’un l’altro di non cercare con cura ogni angolo della casa. Poi, presero ad insultare quel corpo esanime, per il

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