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Il sangue non si lava. Il clan dei Casalesi raccontato da Domenico Bidognetti
Il sangue non si lava. Il clan dei Casalesi raccontato da Domenico Bidognetti
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Il sangue non si lava. Il clan dei Casalesi raccontato da Domenico Bidognetti

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Domenico Bidognetti è stato prima uno dei più spietati killer e, poi, uno dei più importanti boss del clan dei Casalesi. Soprannominato 'o Bruttaccione, è stato battezzato “uomo d'onore” a soli 25 anni, ma ha poi tradito - almeno secondo le logiche dei Casalesi - quel giuramento nel 2007, quando ha deciso di collaborare con la giustizia, dopo 7 anni di carcere duro al regime di 41bis. È diventato, così, il più importante testimone interno dell'organizzazione criminale, tanto che nel 2008 fu ucciso il padre, per tentare di fermare la sua collaborazione. Ancora oggi testimonia in Tribunale contro i suoi ex alleati e affiliati, benché molti di loro fossero suoi amici sin dall'infanzia.
In questo libro ripercorre la storia del clan dei casalesi sin dalla sua nascita, ricostruisce le dinamiche del traffico illecito di rifiuti e di tutti gli altri affari in cui il clan era coinvolto. Racconta, dalla posizione privilegiata che può avere soltanto chi è stato ai vertici dell'organizzazione criminale, i più importanti omicidi, compreso quello di Don Peppe Diana, le più sanguinose guerre di camorra e le più note stragi, come quella di “San Gennaro” a Castel Volturno. Tratteggia, infine, i profili dei più noti boss della camorra napoletana e della mafia casertana, descrivendone caratteristiche che può rivelare solo chi li ha conosciuti personalmente.
 
LanguageItaliano
Release dateFeb 16, 2017
ISBN9788865512401
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    Il sangue non si lava. Il clan dei Casalesi raccontato da Domenico Bidognetti - Fabrizio Capecelatro

    mafioso.

    PREFAZIONE

    di Giovanni Conzo

    Una preziosa e decisiva collaborazione fu quella offerta da Domenico Bidognetti a noi magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli e, in particolare, a quelli del pool che seguiva il clan dei Casalesi. Erano gli anni non così lontani in cui il clan, nato sulla carcassa del clan Bardellino, aveva raggiunto l’apice del suo potere criminale, politico ed economico, tanto da essere classificato perfino dal Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, come una delle quattro organizzazioni criminali più pericolose presenti nel mondo.

    La sua testimonianza, arrivata dopo tanti anni di carcerazione al regime di 41 bis, ci permise – seppur unitamente ad altre – di infliggere un duro colpo all’organizzazione criminale, consentendoci di identificare gli autori di centinaia di efferati omicidi, di ricostruirne le dinamiche, di procedere al sequestro e alla confisca di beni provento di reato di ingente valore; di comprendere l’enorme ma al contempo fitta rete di amicizie e collusioni che il clan dei Casalesi aveva stretto con altre organizzazioni criminali similari e con l’imprenditoria e la politica.

    La sua sofferta scelta di collaborare con la giustizia, dapprima per la necessità di coinvolgere parenti e amici d’infanzia nelle sue dichiarazioni e poi per le gravi conseguenze personali che ha dovuto subire, fu una nostra vittoria. Fu una vittoria della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, una vittoria della Giustizia e quindi dello Stato.

    Ma soprattutto fu una vittoria raggiunta, insieme ad altre, grazie alla precisa strategia, messa in atto dai magistrati della Procura della Repubblica di Napoli, con la sapiente guida del Procuratore coordinatore della D.D.A. dottor Franco Roberti, addetti al contrasto del clan dei Casalesi, di restringere radicalmente la possibilità dei boss di comunicare con l’esterno, dopo essere stati arrestati.

    L’applicazione del regime del carcere duro, previsto dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, in aggiunta al sequestro dei patrimoni illeciti sottratti alle famiglie, all’applicazione di severe condanne e quindi alla prospettiva di non uscire mai più dal carcere, ha infatti portato, oltre a una perdita della possibilità di leadership all’interno dell’organizzazione criminale, molti boss a non vedere altra via d’uscita rispetto alla collaborazione con la Magistratura.

    Anche nel caso di Domenico Bidognetti furono l’impossibilità di esercitare quel necessario controllo educativo sui figli, conseguente alle misure di allontanamento previste dal 41 bis, e quindi la presa di coscienza che sperare per loro in un futuro non criminale pur restando fedeli all’organizzazione criminale sarebbe stato impossibile, a convincerlo a passare dall’altra parte. E, quindi, a maggior ragione fu una vittoria di quella strategia di totale allontanamento ed estraniamento dalla realtà.

    Un allontanamento talvolta drammatico, approfonditamente raccontato in ogni suo dettaglio in questo libro, a riprova di quanto esso sia severo e straziante, tanto da essere diventato per Bidognetti un passaggio fondamentale e non trascurabile nella ricostruzione della sua vita. Ed è così che, con questo libro, diviene preziosa la testimonianza di Domenico Bidognetti anche al di fuori delle aule di tribunale.

    Ora, infatti, il collaboratore di giustizia non offre la sua collaborazione a inquirenti che, tramite le sue dichiarazioni, vogliono assicurare la giustizia in questo Paese, ma a un giornalista, Fabrizio Capecelatro, che invece ha come scopo quello di mostrare ai suoi lettori i lati oscuri e peggiori delle organizzazioni criminali.

    Ed è per questo che il racconto parte da molto lontano, dalla nascita del clan dei Casalesi e – forse per la prima volta – ne ricostruisce l’intera storia, sapendo di poterlo fare dal punto di vista assolutamente privilegiato di chi vi ha partecipato, di chi è stato protagonista degli eventi e, quindi, può raccontare i fatti e spiegare le dinamiche dall’interno.

    Ripercorrendo la storia del clan dei Casalesi, il racconto mette in evidenza la capacità pervasiva e distorsiva dell’organizzazione criminale, la vigliaccheria dei suoi compenti, la fragilità delle alleanze e delle amicizie, spesso nate esclusivamente sulla scia del mero interesse economico o del rafforzamento militare e proprio per questo pronte a cambiare o finire per futili, se non insistenti, motivi.

    Il racconto di Bidognetti arriva, quindi, al destino che inesorabilmente attende chiunque decida di entrare a far parte di una qualsiasi organizzazione criminale di tipo mafioso. Quel destino che egli stesso ha subìto e che ha visto verificarsi tanto per i suoi amici quanto per i suoi nemici. Ma soprattutto quel destino che, dopo essersi reso conto di quanto fosse impossibile sfuggirvi, ha voluto evitare ai suoi figli.

    «Il destino di ogni criminale – spiega Bidognetti, che lo sa bene, a Capecelatro – è al camposanto o in galera». E così, dopo aver testimoniato. con la sua stessa sofferenza che lo ha portato poi a voler collaborare con la Giustizia, l’utilità dell’istituto di cui all’art. 41 bis o.p. nel contrasto al fenomeno mafioso, in questo racconto dimostra, a prescindere da seppur doverose motivazioni di carattere morale, quanto sia in realtà sconveniente fare il criminale.

    Dopo un periodo più o meno breve in cui l’attività criminale porta dei vantaggi soprattutto di tipo economico, essa si trasforma infatti sempre e comunque in una condanna. Una condanna, come dice Bidognetti, a morte o al carcere, spesso a vita.

    «Ed io – prosegue Bidognetti – questo non lo volevo per i miei figli, nessuno di noi Casalesi lo voleva per i propri!». Qui il collaboratore di giustizia offre una nuova e differente visione sulla successione, tradizionalmente ritenuta dinastica, ai vertici dell’organizzazione criminale.

    Se fosse stato vero che la maggior parte dei boss Casalesi non voleva il loro stesso futuro per i propri figli, perché molti hanno poi fatto quella fine?

    «Quello che gli altri non capirono, o non vollero capire, era che per salvare i nostri figli non sarebbe stato sufficiente tenerli lontano dai nostri affari ma bisognava tenerli lontano, anche con la forza, dal nostro mondo. Attraversare, in altri termini, la barricata e passare dall’altra parte». È questa la risposta di Bidognetti.

    Ed è questo che Domenico Bidognetti ha deciso di fare, vincendo la sua personalissima battaglia.

    Tanto che il Presidente di Libera, Don Luigi Ciotti, durante il Meeting dei Giovani che si tenne il 4 Maggio del 2008 a Castel Volturno (CE), disse di lui: «Credo che questa comunità debba ringraziare dal profondo del suo cuore Mimì Bidognetti, figlio di Umberto, che è stato ucciso perché Mimì ha trovato la forza, il coraggio di collaborare con la giustizia».

    La comunità di cui parlava Don Ciotti era sicuramente quella campana che, grazie alla collaborazione di Mimì – come lo chiamò lui – si vide liberata da molti oppressori, quali erano e sono i mafiosi per la Campania.

    Ma, volendo tener per buono il suggerimento del Presidente di Libera, a ringraziare Domenico Bidognetti per il suo coraggio dovrebbero forse essere tutti i cittadini italiani, visti i danni che il clan dei Casalesi ha creato e, in parte, ancora crea all’intera nazione.

    A maggior ragione ora che ha deciso di portare la sua testimonianza fuori dalle aule di tribunale per trasmettere, tramite questo libro, un messaggio basato sulla sua esperienza diretta e indiretta, ben chiaro: fare il criminale, alla lunga, non conviene. Mai.

    Un messaggio che proprio come la lettera – di cui questo libro è una naturale evoluzione – che io stesso gli chiesi di scrivere per la cerimonia di commemorazione di Don Peppe Diana, si rivolge soprattutto ai giovani, all’epoca di Casal di Principe (come i suoi figli) e oggi di tutta Italia.

    Fabrizio Capecelatro ha inoltre scelto di non raccontarci le dichiarazioni di Domenico Bidognetti ma ha lasciato parlare lui in prima persona, così come se potesse rivolgersi a ciascun lettore e raccontargli i lati peggiori di quel mondo di cui ha fatto parte.

    Questo libro, facendo da tramite, pone quindi idealmente il criminale direttamente di fronte al cittadino e io, leggendo queste pagine, sono tornato con la memoria agli interrogatori in cui, attonito, ascoltavo i suoi racconti; e alle aule di tribunale da cui, in videoconferenza, egli testimoniava (e testimonia tuttora), a noi magistrati e alla società tutta, lo sciagurato mondo della criminalità organizzata.

    Racconti che, senza questo libro, sarebbero rimasti chiusi negli archivi dei palazzi di giustizia e invece ora possono diventare di monito per chiunque.

    Così, questo libro-testimonianza assume un valore sociale ancora più forte. È come se Domenico Bidognetti dicesse: «Il destino di ogni criminale è al camposanto o in galera. E io questo non lo voglio… per nessuno».

    Capitolo I

    «Anche se siedo al tavolo con voi, non dimentico quello che avete fatto».

    «E allora siamo in due, Dottò». Risposi così al dottor Raffaello Falcone, della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Sì, perché se una cosa è certa è che io, più e prima di tutti, non posso e non voglio dimenticare quello che ho fatto e chi sono stato.

    Non dimentico perché l’odore del sangue non svanisce. Ti penetra nel naso, nelle narici; ti sale su, sempre più su, fino al cervello. Prima ti inebria, ma poi ti ripugna, ti nausea, ti fa ribrezzo, e allora vorresti mandarlo via ma non puoi, perché il sangue non si lava.

    E allora non dimentico quando, nel Maggio del 1988, per la prima volta andai a bloccare un cantiere che non ci aveva pagato il pizzo.

    Osservavo tutto dalla macchina, perché già avevo scelto per me la responsabilità di guidare e, quindi, di dover riportare a casa sani e salvi i miei compagni anche se ci fossero stati inseguimenti ed eventualmente una sparatoria. Il guidatore, infatti, è quello che deve restare molto attento e sempre lucido.

    Arrivammo in quell’enorme cantiere con tre macchine. I miei compagni si aggiravano tra gli operai e, con le pistole in pugno, li minacciavano. Poi, rivolgendosi al capocantiere, gli intimarono di andarsene e fermare i lavori. «È meglio per tutti», dicevano. Quelle persone, in realtà, stavano lì per guadagnarsi la giornata, come si dice dalle nostre parti.

    Osservavo tutto dalla macchina, ma mi ci sentivo io al posto di quegli operai. D’altronde anche io avevo lavorato nei cantieri fino a pochi giorni prima. Mi venne in mente mio padre che, per una vita intera, si era alzato presto per andare a lavorare, onestamente, e che sarebbe rabbrividito se solo avesse saputo che i miei compagni se la prendevano in quel modo così brutale anche con gli operai.

    Ma quando risalirono in macchina dovetti gettar via quel pensiero. Bisognava assolutamente ripartire, e in fretta. Eravamo in tre auto e, come poi sarebbe diventata consuetudine, io guidavo quella davanti alle altre.

    Facemmo rientro in via Firenze, a Casal di Principe, in quella che successivamente sarebbe diventata la nostra base operativa: la casa di mio cugino Francesco. Io già pensavo che la prossima volta avrei impedito che si utilizzassero atteggiamenti simili nei confronti degli operai. Già pensavo che avrei voluto cambiare le cose.

    Era appena nato il clan dei Casalesi e dovevamo fare in modo che tutti i cantieri smettessero di pagare il pizzo a ciò che era rimasto del clan Bardellino, per pagarlo a noi. Era cambiato il direttore d’orchestra, ma la musica rimaneva la stessa: gli imprenditori dovevano sempre e comunque pagare. Dovevamo anche minacciarli di non dare soldi a Capacchione, Antonio Salzillo, il nipote di Antonio Bardellino, che stava cercando di organizzare la resistenza, dopo la morte dello zio e di suo fratello Paride Salzillo.

    Arrivò l’estate e mio cugino Francesco, diventato poi noto come Cicciotto ‘e Mezzanotte, decise di trascorrere le ferie fra l’Abruzzo e le Marche, in un paesino tranquillo dove non c’era neanche una caserma e passavano sempre pochissimi carabinieri.

    Andammo anche noi con lui e alcuni erano già ricercati dalle Forze dell’Ordine. Prendemmo tre ville in affitto, poco distanti l’una dall’altra. La sua si trovava su una collina e aveva un grande giardino in cui noi giocavamo a calcetto.

    Fu lì che mi venne affibbiato il soprannome. Quando, giocando a calcetto, mi arrabbiavo, mi gonfiavo e diventavo rosso in volto. Così gli altri affiliati iniziarono a sfottermi dicendo che «mi facevo brutto». Da lì divenni ‘o Bruttaccione.

    La sera scendevamo sul lungomare, Cicciotto passeggiava con la moglie e le figlie. Cinque di noi gli stavano davanti e gli altri dietro, per guardargli le spalle. Era un bel momento quello e non ci sentivamo nemmeno delinquenti, perché eravamo noi stessi. Ciascuno si spogliava delle vesti che indossava a Casale e sembravamo tutti fratelli, un’unica famiglia. Io, che avevo 22 anni, il sabato sera li portavo in discoteca, mentre Anna, la moglie di Cicciotto, spesso restava a casa con le bambine. Ero molto legato ad Anna e proprio quell’estate qualcosa ci legò ancora di più.

    Anna, infatti, era incinta del loro primo figlio maschio e una sera, mentre tutti erano andati in paese, io ero rimasto a casa con lei, se non che verso le tre del mattino le vennero le doglie. La portai subito all’ospedale della città più vicina e lì fu controllata da un dottore che mi disse che aveva ancora due o tre ore di tempo prima di partorire. Volle approfittare di quel tempo per essere portata alla clinica Santa Maria di Caserta, dove era stata seguita durante tutta la gravidanza. Affrontai quel viaggio con un’incredibile paura mescolata all’emozione.

    Fortunatamente riuscii ad arrivare in clinica ma, non ci fu neanche il tempo di farla sdraiare sulla barella e portarla in stanza, che nacque Gianluca Bidognetti. Era mio nipote, ma per me divenne subito più di un figlio. Il giorno dopo le portai

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