I figli del gelo: E altri racconti
By Jack London
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About this ebook
Jack London
Jack London (1876-1916) was an American writer who produced two hundred short stories, more than four hundred nonfiction pieces, twenty novels, and three full-length plays in less than two decades. His best-known works include The Call of the Wild, The Sea Wolf, and White Fang.
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Book preview
I figli del gelo - Jack London
19
Jack London, I figli del gelo
1à edizione Landscape Books, marzo 2017
Collana Aurora n° 19
© Landscape Books 2017
www.landscape-books.com
Titolo originale: Children of the Frost and Other Stories
Traduzione di Ida Lori dall'edizione Bietti 1929, riveduta e corretta.
ISBN 978-88-99403-28-7
In copertina: The Frozen Sheepherder
, di Frederic Remington.
Progetto grafico service editoriale il Quadrotto.
Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB
www.waytoepub.com
Jack London
I figli del gelo
Presentazione dell’opera
La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.
Children of the Frost
è la terza raccolta di racconti pubblicata da Jack London e la prima in cui l'autore inizia a esulare dai temi che avevano caratterizzato i suoi esordi, e cioè la Corsa all'Oro e la vita di frontiera.
Siamo nel 1902, London ha iniziato a godere di una certa fama e sta anche iniziando a mettere da parte i primi guadagni della sua attività letteraria: oltre all'indiscutibile talento, lo aiuta anche il boom delle riviste letterarie, che in America e in Inghilterra si diffondono in grande quantità grazie al drastico calo dei costi di stampa. Sono proprio queste riviste a finanziare
l'attività di London, che riesce a vendere le sue opere sia in patria che nel Regno Unito (dove è da subito molto apprezzato).
Le varie short stories pubblicate nell'arco dell'anno solare vengono poi raccolte in un volume, come accade anche per questo I figli del gelo (in altre edizioni tradotto come I figli del ghiaccio), che raccoglie dieci racconti pubblicati tutti nel corso dell'anno, con l'unica eccezione de La legge della vita
che è invece dell'anno precedente e non era stata inclusa nella raccolta Il Dio dei suoi padri.
Jack London ha ormai archiviato il suo passato da cercatore d'oro, e mette al servizio delle storie la sua profonda conoscenza dell'animo umano, unita a quella dei territori più nascosti e selvaggi del continente americano; è per questo che nella raccolta troviamo una varietà di temi e scenari più vasta, e in particolare una grande attenzione al punto di vista e alle tradizioni dei nativi americani. Spicca in questo senso il racconto La malattia di Capo Solitario
, ambientato tutto all'interno di una tribù indiana senza la mediazione – come a volte accaduto in passato – di un punto di vista più vicino al lettore.
Mentre London dà alle stampe questi dieci racconti, pubblica i suoi due primi romanzi lunghi, La crociera del Saetta e La figlia delle nevi, passati quasi inosservati, ma soprattutto inizia a scrivere Il richiamo della foresta, che lo tiene occupato per quasi tutto l'anno successivo (tanto da rallentare la produzione di racconti) e che gli darà la prima grande fama internazionale.
Nelle foreste del Nord
Molto lontano, al di là degli ultimi striminziti boschi cedui, nel cuore stesso delle lande deserte dove si crede che il sordido Nord abbia respinto la Terra, ci sono grandi foreste e fertili terre. Il mondo incomincia a saperlo solo ora. Gli esploratori, di tanto in tanto, se ne erano accorti, ma nessuno di loro era mai tornato per raccomandarlo al mondo civile.
Le lande deserte sono le solitudini artiche, le regioni del circolo, la lugubre patria del bue muschiato e del magro lupo delle pianure.
Tali si presentarono a Avery Van Brunt, senz’alberi, tristi, con scarsi ciuffi di muschio e di lichene. Ma quando si spinse più in là delle bianche radure segnate sulla carta geografica, Avery Van Brunt incontrò magnifiche foreste di abeti e delle tribù eschimesi ignorate. Il desiderio della fama e della gloria l’aveva spinto a cercar di esplorare quelle bianche regioni squallide e a identificarne le catene di monti, i bacini, i laghi e i corsi sinuosi dei fiumi; e ora era tutto felice di vedere che poteva anche speculare su probabili foreste e villaggi.
Avery Van Brunt, o per dargli tutti i suoi titoli, il professor Avery Van Brunt di geologia, era comandante in seconda della spedizione generale, e comandante in prima di quella sotto-spedizione che aveva guidato per circa cinquecento miglia in un giro di esplorazione lungo uno dei rami del Ttelon, e alla testa della quale ora entrava in uno di questi villaggi ignorati. Dietro di lui camminavano lentamente otto uomini, due voyageurs franco-canadesi e sei tarchiati Cree del Manitoba. Avery Van Brunt solo era sassone e aveva il sangue orgoglioso della sua razza. Clive e Hastings, Drake e Raleigh, Heorgest e Horsa marciavano con lui.
Primo fra gli uomini della sua razza, egli stava per entrare in quel solitario villaggio del Nord, e a questa idea si sentiva invadere da una tale esultanza che accelerò il passo, dimentico della stanchezza.
Tutto il villaggio si riversò all’aperto, e una gran folla venne a incontrarlo: davanti c’erano gli uomini che stringevano in pugno minacciosi gli archi e le lance, e dietro camminavano timidamente le donne e i bambini. Van Brunt levò in alto il braccio destro e fece il segno della pace, quel segno che tutti i popoli conoscono, e gli abitanti del villaggio risposero in ugual maniera. Ma con suo gran dolore, un uomo vestito di pelli si fece avanti e gli tese la mano esclamando: «Olà!». Era un uomo barbuto col volto abbronzato, e in lui Van Brunt riconobbe un suo simile.
«Chi siete?», chiese afferrando la mano protesa. «Andrée?»
«E chi è Andrée?», domandò l’uomo di rimando.
Van Brunt lo guardò più attentamente.
«Ma diamine! Siete qui da molto tempo?»
«Da cinque anni», rispose l’uomo con un lampo d’orgoglio negli occhi. «Ma venite, parleremo poi! Si accamperanno vicino alla mia capanna!», aggiunse dopo vedendo che Van Brunt guardava indeciso i suoi uomini. «Il vecchio Tantlach si occuperà di loro. Venite».
E si avviò a lunghi passi, seguito da vicino da Van Brunt.
Gli abituri di pelle d’alce erano sparsi irregolarmente tutt’intorno e sorgevano nei luoghi dove il terreno era più favorevole. Van Brunt li esaminò con occhio pratico e fece alcuni calcoli.
«Duecento circa, senza contare i piccoli!», decise.
L’uomo fece un cenno d’assenso:
«Press’a poco. Ma ecco dove vivo io… un po’ lontano da tutti… son più comodo. Sedetevi. Mangerò con voi quando i vostri uomini avranno cucinato qualche cosa. Mi son quasi dimenticato il sapore del tè… Cinque anni… e non ho mai potuto né assaggiarlo e nemmeno sentirne l’odore… Avete tabacco?… Ah! Ah!… Grazie, e una pipa? Benone. Un fiammifero adesso, e sentiamo un po’ se è diventato più buono o più cattivo!»
Accese il fiammifero con tutte le precauzioni di un boscaiolo, curò e sorvegliò la piccola fiamma come se nel mondo non ce ne fossero state altre, e poi tirò la prima boccata di fumo. L’assaporò per un momento e poi lentamente la mandò fuori attraverso le labbra semichiuse. Si appoggiò allo schienale della seggiola, raggiante in volto, e sospirò beato; poi improvvisamente esclamò:
«Mio Dio! Che buon sapore!»
Van Brunt fece un cenno di assenso.
«Cinque anni, avete detto?»
«Cinque anni!», sospirò l’uomo di nuovo. «E naturalmente desiderate sapere qualche cosa di me; si è sempre un po’ curiosi; e questa è davvero una situazione ben strana. Partii da Edmonton alla ricerca di buoi muschiati, e come Pike e tutti gli altri, ebbi mille disgrazie e persi i miei compagni e tutto il mio equipaggiamento. Sempre la solita storia, sapete bene… fame… privazioni… fatiche… ero l’unico superstite, e alla fine giunsi in questo villaggio di Tantlach trascinandomi carponi, stremato di forze».
«Cinque anni!», mormorò Van Brunt tra sé e sé come se ripensasse a tutto quello che gli aveva raccontato il compagno.
«Sono stati cinque anni il febbraio scorso. Attraversai il Great Slave ai primi di maggio…»
«E allora siete… Fairfax!», lo interruppe Van Brunt.
L’uomo disse di sì.
«Aspettate… ecco: John Fairfax credo».
«E come lo sapete?», chiese tranquillamente Fairfax tutto assorto nelle spirali di fumo che si elevavano nell’aria.
«I giornali ne parlarono diffusamente quando Prevanche…»
«Prevanche!», esclamò Fairfax subitamente interessato. «Si perse nelle Smoke Mountains».
«Sì, ma riuscì a salvarsi».
Fairfax tornò a riprendere la comoda posizione di prima e ricominciò a fumare.
«Ne sono ben contento», disse. «Prevanche era un allegro e bravo compagno, nonostante le sue idee. E dite che riuscì a salvarsi? Ne son proprio felice!»
Cinque anni… Van Brunt continuava a pensarci e a poco a poco sorse davanti a lui il viso di Emilia Southwarte. Cinque anni…
Uno stormo di galline selvatiche passò schiamazzando delle loro teste, e nel vedere l’accampamento si diressero rapide verso il nord scomparendo nel sole.
Van Brunt non poté seguirle con lo sguardo. Consultò l’orologio. La mezzanotte era già passata da un’ora. Verso nord le nuvole erano di un color rosso sangue e i raggi del sole illuminavano di tinte sanguigne i boschi tenebrosi. Non c’era alito di vento, e tutti i rumori dell’accampamento risuonavano chiari e distinti. I Cree e i voyageurs, pervasi dalla calma che regnava intorno, canticchiavano in tono sommesso, e persino il cuoco inconsciamente cercava di attutire il rumore delle sue pentole. Si sentiva un bimbo piangere, e dalla foresta giungeva il lamento doloroso e monotono di una voce femminile: «O-o-o-o-o-o-o-o a-a-a-a-a-a-a. O-o-o-o-o-o a-a-a-a-a-a».
Van Brunt rabbrividì e si fregò le mani.
«E allora mi diedero per morto?», chiese lentamente il suo compagno.
«Ma capite bene; non siete mai ritornato, così i vostri amici…»
«Mi dimenticarono alla svelta».
Fairfax rise sdegnoso.
«Ma perché non vi siete mai fatto vivo?»
«Un po’ perché non ne avevo voglia, immagino, e un po’ per un seguito di circostanze indipendenti dalla mia volontà. Quando lo conobbi, Tantlach era immobilizzato per una frattura alla gamba, e io gliela accomodai. Poi mi stabilii qui per rimettermi un po’ in forze. Ero il primo uomo bianco che avessero mai visto, e naturalmente mi giudicarono un essere straordinario, e io insegnai loro molte cose. Tra l’altro, li addestrai nell’arte militare, così che riuscirono a vincere quattro altri villaggi (che non avete ancora visto) e a governare su tutta la regione. E finirono per volermi tanto bene che quando decisi di andarmene, non mi vollero lasciar partire. Furono anche troppo ospitali. Mi misero accanto due guardie con l’ordine di non perdermi di vista né di notte né di giorno. Poi Tantlach mi offerse tante cose per indurmi a restare, e siccome andare o stare era per me la stessa cosa, finii per restare!»
«Conobbi vostro fratello a Freiburg. Mi chiamo Van Brunt!»
Fairfax gli strinse la mano:
«Eravate l’amico di Billy, allora! Povero Billy! Mi parlava spesso di voi!»
«Che strano luogo d’incontro, il nostro!», aggiunse lanciando un’occhiata sul paesaggio e ascoltando il canto lamentoso della donna.
«Suo marito è stato afferrato da un orso!»
«Che vita!», Van Brunt fece una smorfia di disgusto. «Immagino che dopo cinque anni di questa esistenza, la civiltà vi sembrerà dolce. Che ne dite?»
Il volto di Fairfax prese un’espressione dura:
«Oh non lo so! Dopo tutto, sono gente onesta e vivono secondo i loro punti di vista. E sono anche straordinariamente semplici. Le loro emozioni, i loro sentimenti non sono complicati: non hanno centomila ramificazioni. Essi amano, odiano, temono, si infuriano; sono felici, così, semplicemente e chiaramente. Sarà una vita bestiale, ma è così facile il viverla! Niente amor platonico, niente civetteria. Se una donna vi ama, ve lo dice senza falso pudore. Se vi odia, ve lo dichiara, e allora, se volete, potete picchiarla, ma l’importante è che tanto lei quanto voi conosciate le vostre idee reciproche. Non ci si può sbagliare: non si possono avere false interpretazioni. E dopo la vita febbrile della civiltà, questa esistenza selvaggia ha un certo qual fascino! Mi capite?
«No, è una vita bella!», riprese dopo una breve pausa «Abbastanza bella per me, e non intendo abbandonarla!».
Van Brunt chinò il capo in preda a profondi pensieri e un sorriso impercettibile comparve sulle sue labbra. Niente amor platonico, niente civetteria, niente false interpretazioni! A quanto pareva, Fairfax aveva sofferto solo perché Emilia Southwarte era stata per sbaglio afferrata da un orso. E dopo tutto Carlton Southwarthe non era un cattivo orso.
«Ma voi verrete via con me!», esclamò Van Brunt in tono deliberato.
«No».
«Sì».
«Vi dico che la vita è troppo facile qui», dichiarò Fairfax. «Capisco tutti e sono capito. L’estate e l’inverno si alternano come il sole che filtra attraverso le assi di una palizzata, le stagioni sono una macchia di luce e d’ombra, e il tempo passa, e la vita passa, e poi… un gemito nella foresta e l’oscurità. Ascoltate».
Alzò la mano: il lamento doloroso della donna echeggiò nel silenzio. Fairfax ripeté la nenia funebre.
«O-o-o-o-o-o a-a-a-a-a-a. O-o-o-o-o-o a-a-a-a-a-a. Ma non sentite? Non capite? Le donne che piangono? I canti funebri? I miei bianchi capelli da patriarca? Le mie pelli che mi avvolgono in un rozzo manto? La mia lancia accanto a me? E chi osa dire che questa vita non è bella?»
Van Brunt lo guardò freddamente.
«Fairfax, siete pazzo. Cinque anni di questa esistenza sono sufficienti per abbattere un uomo, e voi vi trovate in condizioni di spirito morbose. Inoltre Carlton Southwarthe è morto!»
Van Brunt riempì la pipa e l’accese. Fairfax si rizzò a mezzo sulla seggiola con gli occhi lampeggianti, i pugni stretti, poi tornò a sedersi e parve meditare. Michele, il cuoco, avvertì che il pasto era pronto. Van Brunt gli fece cenno di aspettare. Il silenzio era assoluto, e il giovane si mise ad analizzare i vari profumi della foresta, il lezzo della vegetazione ammuffita e fradicia, l’odore resinoso delle conifere, gli effluvi aromatici che esalavano i numerosi fuochi dell’accampamento. Per due volte Fairfax lo guardò senza dir