Operaio in mare aperto: Conversazioni su lotta, uguaglianza, libertà
By Gianni Usai and Loris Campetti
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Book preview
Operaio in mare aperto - Gianni Usai
978-88-6579-152-3
Il libro
Il Sessantotto ha svegliato coscienze e intelligenze e gli anni Settanta del secolo scorso hanno cambiato il Paese, nella cultura, nei costumi, nella politica. Molte delle speranze di allora si sono rivelate illusioni, altre sono entrate in modo profondo e incancellabile nella vita delle persone. Gianni Usai era in quegli anni sindacalista a Torino, impegnato in fabbrica e nella politica. Poi sono venuti riflusso, delusioni, cambiamenti. Ma non è stata una sconfitta, bensì un lungo percorso culminato nel ritorno in Sardegna e nella costituzione di una cooperativa di pescatori, originale, vitale, anche allegra. L’intreccio della vicenda individuale con quella collettiva di una generazione è il cuore di questa lunga conversazione di Usai con Loris Campetti, altro testimone di quegli anni da un osservatorio privilegiato e particolare come quello del quotidiano il manifesto.
Gli autori
Gianni Usai, emigrato dalla Sardegna a Torino, lavora alla Fiat Mirafiori fino al 1980. Era operaio, poeta, sindacalista nell’esecutivo del consiglio di fabbrica. Ha lavorato alla costruzione e alla crescita della cooperativa pescatori di Su Pallosu e collabora con l’istituto di Biologia marina dell’Università di Cagliari. Alla sua esperienza si richiama lo spettacolo di Sabina Guzzanti, Le ragioni dell’aragosta.
Loris Campetti, marchigiano, dopo la laurea in Chimica ha svolto vari lavori, collaudatore di automobili e informatore medico-scientifico, per approdare all’insegnamento nella scuola media. Dal 1978 al 2012 giornalista al manifesto, dove ha ricoperto praticamente tutti i ruoli. Tra i suoi libri, Non Fiat (Cooper Castelvecchi) e Ilva connection (Manni). Collabora con testate italiane e straniere, scrive libri e fa il nonno.
Indice
Il battesimo del sangue
Il cielo sopra Torino
La prima tessera Fiom
L’autunno caldo
Il potere dell’immaginazione
La politica, il tradimento, la violenza
Il terrorismo
Prove di ritorno
Il ritorno
Il pescatore all’università
S’aligusta
Galleria d’arte marina
È il cinema, bellezza
Radici e catene
Ritorno al futuro
In barca all’isola
Capo Mannu
Libri, film e canzoni citati nel testo
«La diceria che di intenzioni è lastricato l’inferno è maligna.
Deludenti ed effimeri sono gli esiti.
I buoni proponimenti sono invece un polline che non fiorisce mai ma profuma l’aria».
Luigi Pintor, La signora Kirchgessner
Il battesimo del sangue
G. Mamma diceva ai due figli maggiori: «Zitti voi che siete monarchici». Perché io, invece, sono nato nel primo giorno della Repubblica, il 3 giugno del 1946.
L. Siamo ad Arbus, una ventina di chilometri all’interno della Costa Verde. È qui che nasce Gianni, il repubblicano. Il suo primo ricordo lo riporta al 1950 da zia Assunta, dove la famiglia Usai andava ogni anno per il rito della macellazione del maiale.
G. Del maiale non si butta niente. Per raccogliere il sangue, che successivamente sarebbe stato messo a cuocere con uvetta e pinoli per fare il sanguinaccio, veniva usata una bacinella di terracotta. Io assistevo con emozione a tutte le operazioni ma, in un momento di distrazione, ero caduto dentro la bacinella con le conseguenze che puoi immaginare. Devo essermi preso anche uno scapaccione da mamma, ma non me lo ricordo con certezza.
L. Quello di Gianni sembra il racconto di un’infanzia infiocchettata di bei ricordi e sentimenti puliti, compreso il battesimo del sangue. Ricordi quasi senza macchia. Quasi.
G. Casa nostra era in paese, all’inizio un alloggio piccolo dove vivevamo in sei, mamma, babbo e quattro figli maschi. Poi cominciarono ad aggiungersi altre stanze, una alla volta, mano a mano che entravano un po’ di soldi. Alla fine era una casa normale, comoda e accogliente per tutti noi. Che nostalgia provai quando, nel ’62, fummo costretti a trasferirci a Torino in una casa di ringhiera di 30 metri quadrati, ammucchiati come galline, con un gabinetto sul ballatoio in comune con altre famiglie.
L. Prima che Gianni continui il suo racconto con la scoperta del mare, lo invito a ricordare quell’ombra che per tanto tempo ha gravato sulla sua famiglia da ben prima della nascita dei figli, e che si è proiettata fin nella sua infanzia. Una vicenda molto sarda che qualche volta aveva fatto la sua comparsa fuggitiva in una delle tante chiacchierate che hanno consolidato la nostra quarantennale amicizia. La storia del prozio bandito.
G. Eravamo dieci, quindici cuginetti e ci divertivamo ad accompagnare nonna Anna nell’orto, seguendola come in processione. Ci faceva raccogliere un po’ di legnetti per fare il fuoco e accanto alle braci si metteva il pane a tostare. Quel pane aveva un gusto speciale, a volte lo mangiavamo con i pomodori dell’orto, a volte con le olive. E, mentre curava le sue verdure, nonna ci raccontava la storia di quel suo fratello finito in gattabuia con l’accusa di cinque omicidi. Sì, era diventato un bandito, ma lei ne parlava con comprensione, con amore, senza giustificare, senza dare giudizi. Forse ammorbidiva un po’ la realtà, non saprei dire. Nonna raccontava di un torto subìto
, una pensione come invalido di guerra rimediata nel primo conflitto mondiale che però un bel giorno, non ho mai saputo perché e percome, gli venne tolta e lui se la prese con un funzionario delle poste, individuandolo come responsabile dell’ingiustizia. Una notte lo aspettò nella vigna e lo uccise, anzi uccise un altro uomo, un innocente che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nel momento sbagliato nel posto sbagliato: la vigna del funzionario delle poste.
L. Le parole di Gianni evocano un passaggio de Il bandito e il campione di Francesco De Gregori: «Fu antica miseria / o un torto subìto / a fare del ragazzo / un feroce bandito / ma al proprio destino / nessuno gli sfugge / cercavi giustizia / ma trovasti la Legge». Così quel prozio diventa bandito e incomincia la sua latitanza. Inizia con i furti, prima da solo poi come componente di una banda, e nel corso della sua attività
raccoglie una bella refurtiva.
G. Un giorno il prozio chiamò un suo nipote e lo portò nella grotta dove si rifugiava per dirgli che se gli fosse successo qualcosa di male tutta quella roba, il frutto delle rapine, sarebbe diventata sua. Purtroppo accadde che quel nipote decise di approfittare in anticipo dell’opportunità. Un bel giorno svuotò la grotta e scappò. Non abbastanza lontano, però, da non essere raggiunto dallo zio bandito che lo punì nel più feroce dei modi tagliandogli la gola. Poi fu la volta di una nipote che in paese si vantava di conoscere il nascondiglio del ricercato, sostenendo che prima o poi l’avrebbe denunciato.
L. Le notizie circolano, arrivano alle orecchie persino di chi, seppur latitante, continua a tenere un occhio fisso sul paese.
G. Anche la nipote è stata sgozzata. A questo punto i ricordi dei racconti di nonna nell’orto si fanno confusi. Credo che il bandito avesse ucciso un carabiniere durante uno scontro a fuoco. Tutti in paese avevano un soprannome e lui lo chiamavano Pabedda, che vuol dire spalletta, per le conseguenze di un colpo di arma da fuoco che gli aveva offeso una spalla. Pabedda è anche il modo in cui veniva chiamata la cicatrice che rimaneva sul braccio dopo la vaccinazione antivaiolo. Pabedda fu arrestato, e dopo tanti anni di galera a Porto Azzurro nell’isola d’Elba l’autorità giudiziaria avrebbe voluto rimetterlo in libertà per buona condotta, ma perché ciò fosse possibile sarebbe stato necessario il consenso dei familiari delle vittime. Un consenso che fu negato e Pabedda morì in carcere. Il mio babbo, Pietro, era rimasto in contatto con lui, si scrivevano. Ho letto le lettere di Pabedda, erano tutte uguali, diceva che stava bene e, fatto l’elenco di tutti i parenti, chiedeva di portare loro i suoi auguri di buona salute.
L. Ma le disgrazie non vengono mai sole.
G. Proprio così. Il comandante dei carabinieri di Arbus decise che tutta la famiglia di Pabedda dovesse essere punita per le colpe del bandito: nonna venne mandata al confino in un paesino vicino a Bari per tre o quattro anni, dal 1927 al 1930 o ’31, babbo che era un bambino fu affidato al canonico del paese.
L. Quanto ha pesato questa storia sulla formazione di un bambino?
G. Non più di tanto, però quest’ombra è sempre rimasta sotto traccia. Anche perché, al di là dei racconti di nonna nell’orto, c’era la quotidianità con cui fare i conti in anni difficili di sacrifici. Babbo aveva iniziato a lavorare quando aveva una quindicina d’anni, ogni domenica pomeriggio partiva da Arbus in bicicletta e pedalava per una trentina di chilometri su strade sterrate per raggiungere Arborea, all’epoca Mussolinia, e tutta la settimana lavorava alla bonifica per rientrare ad Arbus il sabato.
L. In seguito il padre di Gianni viene assunto nella miniera di Montevecchio, a sette-otto chilometri da Arbus al confine con il comune di Guspini, da cui si estraevano