I Tre Legionari: Lourdes - Miracoli Di Angiolina
By Diego Licata
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About this ebook
Questo è infatti ciò che è successo, all'inizio di questa incredibile storia, al protagonista: il giovane contadino Michele.
Da quel momento la vita di Michele viene stravolta.
Mentre imperversa la Seconda Guerra Mondiale il giovane viene spedito nella Legione Straniera dove incontra due evasi con cui instaura una sincera amicizia.
In un avvincente viaggio, i tre protagonisti sono poi catapultati prima in Africa e poi in Asia.
Anche se malconci, riescono a finire finalmente la loro ferma.
Ritornano perciò da civili nel più inospitale luogo della terra: il deserto africano.
Come in un contrasto assoluto che tende verso equilibri astratti, nella durezza estrema dell'ambiente in cui sono, scoprono la dolcezza dell'Amore e la Magia soave del Sahara.
Quando tutto sembra volgere verso la Felicità, ecco che la minaccia del K.G.B. piomba inaspettatamente sul piccolo clan...
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I Tre Legionari - Diego Licata
Diego Licata
I Tre Legionari
Lourdes - Miracoli Di Angiolina
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Indice
Michele
L’evasione
La Legione
La partenza
L’avventura
I paracadutisti
Il 2 BEP
Operazione Castor
La festa, 1954
Il ritorno, 1955
I racconti
Il fortino
Diario di un viaggio
Il Louvre del Sahara
Fatima
Vittorio
Il 1954
La festa della Madonna delle Grazie
I francesi
Angiolina
La nascita
Nicola a Parigi
Gli ozi
La ditta
Il Louvre
Totuccio
La vacanza di Vittorio
Il lungo viaggio
Leonardo
Il commissariato
Alfredo
Roma
Il direttissimo
La fidanzata
Lo sbarco, 1960
L’arrivo
Il corredo
Novità
L’hotel
La palestra
Il KGB
Roma II
Il piano
Il regalo di nozze
Il commissario in vacanza
Stefano
Bateau Mouche
Nicola e Angiolina
Lisa e Roberto
Qualche giorno prima
Londra
L’allegria di Pinuccia
Il secondo giorno
Il terzo giorno
Russia
L’autostrada A1
Il ponte
Ospedale
Il ponte II
1966
La vita continua
L’esplosione
San Vito
Alexey
L’esplosione II
La Santé
La decisione
Seguito
Guerra
Vincennes
L’incidente
L’incubo
La 124
La calma
L’accampamento
Sofia
Natale
Il GBC
Zio Giacomo
Il battesimo
Il petrolio
La fuga
Riunione
Lisa
Denise
Pinuccia e Michele
Una sera d’agosto
Nicola e Vittorio
Fine petrolio
Visita, 1976
Roberto e Lisa
Lettera Lisa – Pinuccia
La scuola
Giulia
L’apatia di Carlo
Lettera Lisa - Pinuccia II
Carcassonne
L’incidente di Nicola
Zia
Il salone
Ciad, 1983
Riunione, 1984
Il ritorno di Fatima
Seconda missione, 1986
Prima lettera
Nicola
Il pellegrinaggio
Lourdes
Karima
Il matrimonio
Quel 10 luglio
Gradina
Sofia e Mimì
Quel mattino
La paura
L’autore
Copyright © 2017 Diego Licata
Tutti i diritti riservati.
Pubblicato con la Esclusiva
Strategia Editoriale " Self Publishing Vincente "
www.SelfPublishingVincente.it
Dedica
Alla mia famiglia che non mi ha fatto mancare il suo sostegno.
Ringraziamenti
Ringrazio il mio editore Beniamino Soressi per la cura messa al controllo del presente libro. Un grazie particolare a Wikipedia in italiano che mi ha permesso di effettuare le tante ricerche necessarie per la descrizione di tanti luoghi vicini e lontani.
Michele
Era quasi giorno quando Michele, un giovane snello e dalla corporatura muscolosa, con le sue lunghe gambe, agilmente montava in sella al suo mulo e si dirigeva verso l’unica fontana del paese.
Gradina non si era ancora completamente risvegliata, solo lo scalpitio degli animali risuonava per le sue strette viuzze, accompagnando i contadini che si dirigevano verso i loro campi per continuare il lavoro che non cambiava mai. Aratura, semina, attesa e poi la mietitura, come aveva fatto il genitore, il nonno e così fin dall’antichità più remota.
La sera prima Michele si era accordato che Stefano e Gioacchino, i suoi due fratelli, si sarebbero recati nel loro campo in contrada Racalmare, mentre lui da solo sarebbe andato a finire quel poco di aratura che il giorno prima non avevano potuto terminare a Sinatra, che era dall’altro lato del paese, verso nord.
Una volta compiuto il suo lavoro, se fosse stato ancora presto, li avrebbe raggiunti.
I primi raggi del sole indoravano già la campagna quando arrivò nel suo podere; aggiogato il mulo all’aratro, si era immerso nel campo e con le redini aveva spronato l’animale che spaccava la terra arida trainando il vomere.
I solchi si susseguivano uno dopo l’altro ed era quasi giunto a metà del suo lavoro quando si accorse del nuovo vicino, un uomo alto e grosso con una faccia butterata, capelli grassi e neri, che armeggiava con dei paletti dentro il suo campo.
Legato il mulo a un tronco, scese verso quel signore che già aveva piantato alcuni paletti ben dentro la terra di Michele.
«Che cosa stai facendo?» chiese il giovane.
L’altro aveva un foglio in mano e indicava che la sua particella andava oltre il corso del torrente asciutto.
«Ma che dici? È da anni che si sa che questo terreno è nostro.»
L’altro invece continuava a insistere, con quella specie di mappa in mano, che il limite era dove lo segnava lui. E continuava a fissare nuovi picchetti, mentre Michele estirpava quello a lui più vicino.
Allora l’uomo strattonò il giovane per impedirgli di tirarlo fuori. L’uno spingeva l’altro, cercando d’ostacolarlo, finché il grassone spinse con più violenza Michele che finì per terra.
Il giovane allora, rialzatosi, si lanciò contro l’avversario che perse l’equilibrio e per non cadere si aggrappò a Michele e poi lo colpì con un pugno mandandolo al suolo e riprendendo a piantare il picchetto. Fu allora che si consumò il fattaccio che avrebbe cambiato per sempre la vita del ragazzo, perché Michele, nel rialzarsi, poggiò la mano su un grosso sasso e senz’avvedersi di quello che faceva, afferratolo con tutte e due le mani, colpì l’avversario alla testa.
Michele osservò l’uomo per terra che non dava segni di vita, mentre un rivolo di sangue usciva dalla sua ferita. Convinto d’averlo ucciso, si vide passare davanti agli occhi un’angusta cella dove, condannato, avrebbe dovuto passare chissà quanti anni.
Prese allora la sua decisione.
L’evasione
Erano quasi le due di notte, pioveva e la Città eterna appariva molto diversa dalla tumultuosa città che ogni romano ben conosce di giorno. Dalle sette di mattina fino alle ventidue di sera ci vuole un’ora per percorrere il breve tratto di via Boccea che dall’incrocio con la Battistini porta a piazza Irnerio; a quell’ora invece era deserta. Oltrepassata la chiesa di San Giuseppe a sinistra, e cinquanta metri prima del cancello principale del forte Boccea a destra, un’auto, seguita da un uomo sulla sua motocicletta con il casco integrale in testa, si fermò appena oltre l’incrocio con via di Val Cannuta. Salvatore, l’autista, guardò l’orologio e alzò la sua larga mano a indicare al motociclista che era dietro che ci volevano ancora cinque minuti all’orario concordato; intanto pochi metri dietro di loro veniva a posteggiarsi un camion munito di paranco, uno di quei bracci mobili usati per i traslochi che servono a spostare del mobilio ingombrante ed evitare scale anguste e faticose.
Il silenzio fu interrotto da un lieve verso di uccello; era il segnale atteso: il motociclista, un uomo sui trentacinque anni dal viso magro e dalla folta barba, già salito sul cassone del camion, s’introdusse nel gabbiotto del braccio mobile, dove ora armeggiava con una borsa degli attrezzi e, accertatosi che ciò che gli serviva fosse a portata di mano, fece segno all’operatore d’issare la gabbia.
Alla grossa cesoia il fil di ferro spinato che cingeva tutto il muro perimetrale oppose solo una lieve resistenza e quindi si aprì un varco abbastanza largo da permettere il passaggio a una persona.
All’improvviso si materializzarono due figure, entrambe longilinee, la prima un po’ più robusta dell’altra, che, con l’aiuto di una scala di corda buttata giù dall’uomo del gabbiotto, salirono fino al piccolo abitacolo. Una volta entrate, insieme all’operaio furono messe a terra.
Il motociclista, ripreso possesso del suo mezzo, attese che il conducente dell’auto dentro la quale si erano introdotti i due si muovesse, quindi anche lui si dileguò nella direzione opposta da dov’erano arrivati; non prima però di avere sbirciato dall’angolo di via Val Cannuta verso l’interno, dove s’intravedeva la garitta della sentinella del forte Boccea. Notò le poche luci che rischiaravano il muro perimetrale del forte, sormontato dalla recinzione in filo di ferro spinato che a quell’ora e con la pioggia veniva notata solo da chi sapeva.
Con soddisfazione si accertò che la sentinella dalla sua postazione fosse rimasta per tutto il tempo con le spalle rivolte verso il lato dove loro avevano armeggiato, distratta dalle luci lampeggianti di un furgone usato per sviarne l’attenzione. Così non avrebbe visto quello che succedeva in via Boccea.
L’auto si mosse e cento metri dopo girò a sinistra imboccando una via laterale e in pochi minuti raggiunse via dell’Acqua fredda. Non molto dopo si trovò nella proprietà di uno dei due evasi: Roberto Gancia, detto Eccellenza.
Il Gancia e Calogero Lentini, suo fedele braccio destro, erano gli evasi; questi indossarono i vestiti fatti loro trovare dal cugino di Calogero, Salvatore. Ricevuti i nuovi documenti procurati da quest’ultimo, secondo le loro istruzioni, dopo aver remunerato sontuosamente sia l’autista Salvatore sia i suoi due aiutanti, con una calorosa stretta di mano si affrettarono a prendere ognuno la propria strada.
Appena mezz’ora dopo il loro arrivo a Ponte Galeria, due auto lasciavano la grotta del terreno di Eccellenza per prendere vie diverse e affrontare le incognite di una nuova vita.
Il piano era stato studiato nei dettagli dal duo Roberto e Calogero e, grazie all’enorme tesoro accumulato qualche tempo addietro con una truffa non intenzionale al principio, poi trasformatasi in una furiosa corsa al tesoro per alcuni servizi segreti, i due si potevano permettere di non tener conto delle spese. Nelle loro intenzioni l’idea era di sparire per qualche tempo dalla circolazione.
L’evasione fu scoperta verso le dieci del mattino. Poco prima dell’alba, dall’interno della caserma, era uscita una pattuglia in perlustrazione; le quattro giovani reclute con le armi in pugno fecero il giro della strada interna perimetrale. A passo rapido compirono il tragitto loro assegnato; grazie alla pioggia e alla loro accortezza, i due evasori non diedero nell’occhio. Difatti, con alcuni piccoli nodi, avevano rimesso a posto il varco aperto per uscire, in modo che potesse essere notato solo alla luce del giorno.
La sentinella di guardia aveva passato la notte a rileggere quella lettera che lo faceva impazzire. A chiedersi continuamente cosa fosse successo alla sua amata, tanto da spingerla a scrivere che il loro rapporto doveva considerarsi finito perché, come lei gli spiegava, non vi vedeva alcun futuro e perciò lo pregava di dimenticarla.
Ricevuto il cambio, verso l’alba di quella nottata piovigginosa, rientrato in camerata e sdraiato nella sua brandina, si era addormentato. Due ore dopo fu svegliato rudemente da alcuni poliziotti militari che lo costrinsero a vestirsi e lo condussero in fureria.
Il capitano voleva interrogarlo, dicevano. Arrivati, il locale sembrava un covo di leoni, chi ordinava di qua, chi rispondeva di là, altri che ringhiavano piuttosto che parlare, proprio un putiferio. Ben presto però le domande arrivarono precise: «Dov’eri dalla mezzanotte alle quattro? Che cosa facevi? Che cos’hai visto? Perché non hai dato l’allarme?».
Biagio cercò di spiegare quello che aveva visto e che non era successo niente. «Le luci lampeggianti che avevo tenuto continuamente sotto osservazione in via Val Cannuta non si sono mai avvicinate al lato del muro perimetrale e certamente da lì non è fuggito nessuno.
La Legione
Michele con mezzi di fortuna era riuscito ad arrivare al confine e con l’aiuto di una guida lo aveva attraversato clandestinamente; ma una volta in territorio straniero iniziarono le difficoltà. Anzitutto la lingua, che impediva di trovare un lavoro, e poi i pochi soldi che aveva in tasca erano finiti. E c’era inoltre la paura di essere fermato dalla polizia e rispedito in patria. Arrivato in quella cittadina francese due giorni prima, doveva ammettere che la situazione era quasi disperata, specialmente ora che la fame incominciava a farsi sentire.
Camminava in questo stato piuttosto confusionale per le strade di Aubagne, dove quel mattino il sole pareva abbastanza caldo. Poi, giunto quasi al centro della città, d’un tratto il cielo si annuvolò e ben presto venne giù un acquazzone che sembrava il diluvio; la gente in strada fuggiva in cerca di un riparo.
Michele, senza sapere come, si trovò in un androne e sullo stipite del portone vide l’iscrizione: La Legione è la nostra patria
. E non si rese conto che era nell’ufficio reclutamento della Legione Straniera. In quella gran sala, di fronte a lui, c’era una persona sui trentacinque anni alta e robusta intenta a firmare delle carte e dietro, un’altra della stessa altezza, un poco più muscolosa, in attesa. Poi intese il militare dietro il bancone chiedere nella sua lingua: «Come ti chiami?». E vista l’esitazione dell’altro rifece la domanda in italiano.
Questa volta la risposta fu immediata: Roberto Gancia si presentava come Roberto Laval. Aveva trovato qualcuno che conosceva la sua lingua. Michele non lo diede a vedere, attese fino a quando anche l’altro avesse firmato e quando il sergente gli fece segno di venire avanti non ebbe esitazioni; avanzò e pronunciò un nome che aveva letto poco prima in una bacheca appesa a un muro: «Michele Vidal».
E alcuni minuti dopo era un aspirante legionario.
I primi trenta giorni furono massacranti, con orari precisi e obblighi da rispettare. Levata prestissimo, le adunate mattutine poi erano un tormento con quel vento che sferzava la faccia e con la sola tuta mimetica addosso; certo il lavoro da contadino era pesante e le stagioni chiedevano il loro prezzo, l’inverno e la primavera con la pioggia e il vento freddo, l’estate e l’autunno con il caldo e le lunghe giornate lavorative, ma lì ad Aubagne, dove avvenne l’arruolamento, e poi a Castelnaudary, dove si faceva l’addestramento, era un tormento. Non tanto per la sveglia alle 4.45 del mattino, alla quale in un certo qual modo era abituato perché per un contadino è quasi normale alzarsi prestissimo, quanto piuttosto per le marce lunghissime e gli esercizi fisici spossanti. Di sera si crollava sulla branda e tutte le membra del corpo sembravano fatte di stoffa, incapaci di un ulteriore sforzo, sebbene minimo.
Specialmente la prima settimana fu un supplizio e non solo per lui, ma anche per quei due arruolati nello stesso giorno appena prima di lui, anche se fisicamente sembravano più in forma. Infatti, come seppe dopo, i due, nei pochi mesi in cui restarono in prigione, in vista del loro piano si erano allenati per quanto era loro permesso e ora sembravano meno stressati dagli sforzi richiesti dal duro addestramento.
Dopo la prima settimana però il corpo aveva cominciato ad accettare tutti quegli sforzi. Anzi ora non facevano più paura e sia lui che i due, uno dei quali aveva sentito che si chiamava Roberto Laval, avevano superato felicemente quel mese di prova. Erano diventati a tutti gli effetti membri della Legione Straniera francese.
Infatti, oggi, a un mese dall’arruolamento, c’era stata la consegna del basco bianco, il simbolo distintivo della Legione Straniera. Tra Michele, Roberto e l’altro uomo, che sembrava sempre pronto a proteggere Roberto, era nata una simpatia spontanea e nella libera uscita spesso erano insieme. Alla fine Michele narrò loro quello che gli era successo nel suo paese e come aveva dovuto abbandonarlo per un momento di pazzia.
Alla fine del suo racconto i due scoppiarono in una sonora risata e poi spiegarono all’allibito Michele che anche loro erano in fuga, evasi. «Ed eccoci qua,» finì ridendo Roberto «tre ergastolani nella Legione Straniera che ora è la nostra patria.» Erano già passati quattro mesi, le innumerevoli marce e gli esercizi fisici avevano fortificato il fisico di Michele e Roberto, e Carlo (Maison era il suo cognome acquisito) era diventato un campione con quel suo gran corpo asciutto e muscoloso che avrebbe fatto invidia a qualunque asso sportivo; anche Roberto, che avendo perso alcuni chili si era trovato più in forma ora che a vent’anni. Michele, Roberto e Carlo avevano composto insieme con altri tre legionari della loro squadra un gruppo ben omogeneo e nelle libere uscite erano i meno rumorosi. Anche quando qualche rara volta andavano al cinema o nelle sale da ballo, mantenevano una certa riservatezza. Purtroppo nel loro ambiente non sempre si riusciva a evitare qualche guaio, come una sera in quel bistrot, dove si scontrarono con dei giovani civili; uno dei legionari aveva fatto delle avances a una ragazza, ne nacque un battibecco che poi fuori degenerò in una furiosa rissa con il risultato che alcuni giovani finirono in ospedale e tutto il gruppo si trovò in consegna.
Otto ore stando appoggiati con le braccia al muro senza poter andare in bagno era una punizione pesante; c’era però anche di peggio, quando nelle più lunghe punizioni si notavano sintomi d’incontinenza tra i puniti. Per loro fortuna questa era stata l’unica volta in cui erano incorsi in una pena del genere. C’erano però castighi veramente ardui da sopportare e l’isolamento in confronto a quelli era una villeggiatura.
Verso la fine del corso d’addestramento, due giovani non ce la fecero più e riuscirono a dileguarsi – per loro fortuna – perché chi disertava ed era ripreso passava veramente dei brutti momenti. Comunque il corso d’addestramento era finito e ora si parlava di trasferimenti nelle altre basi della legione; c’era chi diceva in’Indocina francese e chi in Algeria e, infatti, non passò molto che si seppe la destinazione: Sidi Bel Abbes.
La partenza
Il trenta aprile si celebra la festa della Legione nella quale si commemora il capitano Danjou, che in Messico con una pattuglia di legionari di fanteria fu assalito da quasi tre battaglioni nemici. I legionari si difesero strenuamente, il capitano fu ferito a morte. Allora i restanti fanti si lanciarono in un disperato assalto alla baionetta. Tuttavia furono sterminati dalle soverchianti forze nemiche. Solo due o tre si salvarono e, da allora in poi, ogni anno si celebra la battaglia di Camerone e la mano di legno del capitano Danjou è conservata come una reliquia.
Durante la parata del quattordici luglio, i legionari sfilarono sui Campi Elisi dinanzi al presidente della repubblica e le altre autorità e chiusero l’esibizione con il loro singolare passo per niente marziale. Solo dopo arrivò l’ordine di partenza per la sede principale in Algeria, a sud di Orano, Sidi Bel Abbes. Arrivarono nel porto algerino dopo una movimentata traversata durata oltre venticinque ore a causa del mare grosso.
La partenza da Marsiglia prevista per il pomeriggio era stata rinviata all’indomani mattina a causa del Mistral, un vento che d’un tratto si era messo a sparare violentissime raffiche rendendo il mare un mostro inavvicinabile.
Appena messo piede a terra, in Africa, i legionari incominciarono a sperimentare sulla loro pelle le differenze climatiche con i loro rispettivi Paesi. Sbarcati a Orano, i legionari su autocarri adattati al trasporto dei militari furono condotti alla storica sede della Legione Straniera.
Ben presto però la sicurezza della sede centrale svanì e si ritrovarono in un posto strategico ad alcune centinaia di chilometri dai confini con il Niger e il Mali, nella provincia del Tamanrasset. Anche da quella poca sicurezza offerta dal grosso centro militare, ben presto furono trasferiti in un fortino. Ora erano a poco meno di cento chilometri da qualunque centro abitato. In mezzo c’era il più desolato deserto, il Sahara, che si espande quasi quanto l’intera Europa e più precisamente nel Tanezrouft, un territorio spoglio rotto solo da poche scarpate e da un mare di dune, vasto almeno duecentomila chilometri quadrati. Il fortino che era l’avamposto più vicino al confine era piccolo e al massimo poteva ospitare una compagnia di legionari.
Subito gli ufficiali giustamente si dedicarono a insegnare loro come sopravvivere nel deserto. «Ci sono,» ripetevano incessantemente «tre mezzi per restare in vita davanti a una tempesta di sabbia nel deserto.»
«Se sei a piedi,» continuavano «e hai una maschera, indossala subito, altrimenti usa una bandana e avvolgila sulla bocca e sul naso.»
«Se hai un cammello,» istruivano «fallo sedere e stai stretto al suo fianco, i cammelli sono abituati alle tempeste di sabbia, che nel deserto possono raggiungere i 120 km/h.»
«Ricordati,» insistevano «di non muoverti all’interno di una tempesta di sabbia, non vedresti i pericoli. Se sei con altri compagni rimanete uniti, è facile perdersi.»
Sembrava che i consigli non finissero mai. Per chi non aveva esperienza del deserto tutti quei consigli sembravano esagerati, ma ben presto i legionari cominciarono ad apprezzarne il valore.
Fu in quello sperduto fortino, infatti, che Michele, Carlo e Roberto ebbero il battesimo del fuoco.
Erano passati più di tre mesi da quando erano giunti in quello sperduto angolo del più grande deserto che si estende per milioni di chilometri quadrati e dove la temperatura arriva a estremi insopportabili. Il vento quel giorno sollevava vortici di polvere che riducevano la visibilità a poche decine di metri. Poi verso sera la tempesta si era placata e Carlo, Michele e Roberto si erano diretti al torrione destro del forte per dare il cambio ai tre del primo turno; il cielo era diventato quasi un gigantesco vaso colmo di fiori appena sbocciati.
Non avevano mai visto un cielo così stellato nella loro vita. Le sentinelle, vedendoli arrivare, si preparavano a lasciare il posto di guardia quando delle ombre si materializzarono poco distanti, alle loro spalle.
Carlo fu il primo ad accorgersene e dando l’allarme avanzò insieme ai suoi due compagni a dare aiuto e contenere l’assalto dei ribelli. A causa della vicinanza nacque un corpo a corpo violentissimo tra i berberi e i legionari momentaneamente in inferiorità numerica. Poi arrivarono i rinforzi. Alla fine, dopo una lotta durata quasi un’ora, gli ultimi ribelli si diedero alla fuga. Lasciando sul campo morti quindici ribelli e quattro legionari, più due gravemente feriti e alcuni con ferite leggere.
L’assalto era stato organizzato bene e favorito dalla tempesta che aveva imperversato durante il giorno e abbassando la visibilità aveva favorito l’avvicinamento dei ribelli al fortino. Solo la prontezza di Carlo nel dare l’allarme e l’eroica resistenza delle sentinelle, bloccando all’inizio l’assalto, avevano impedito ai ribelli di cogliere di sorpresa l’intero corpo del piccolo forte. In quell’occasione Carlo fu promosso caporale, i due suoi compagni usciti dalla battaglia con leggere ferite ricevettero una menzione, mentre le tre sentinelle che persero la vita nel combattimento ebbero una medaglia al valore postuma. Michele con un graffio alla gamba e Roberto al braccio, dopo venti giorni dallo scontro con i ribelli erano perfettamente guariti.
Ora però incominciavano a comprendere in quale conflitto involontariamente si erano immersi. L’Algeria in quel periodo era in piena ribellione alla Francia e anche se le diverse fazioni spesso e volentieri si combattevano tra loro, la Legione Straniera aveva dei seri problemi a contenere gli attacchi dei ribelli, in particolare del Fronte di Liberazione Nazionale che con diversi attacchi nel territorio era riuscito a scatenare un senso di paura nella popolazione civile. Michele, Roberto e Carlo non erano informati di questa situazione, ma se ne resero conto non molto dopo, quando in tre squadre presero parte a quella spedizione punitiva. Il battaglione dal quale dipendeva la loro guarnigione aveva la base in un grande forte nel territorio del Tamanrasset, una regione vasta nel cuore del Sahara. Un territorio dove sabbia e rocce la fanno da padrone, le pianure sono interrotte da profondi burroni e da tante dune che si spostano di continuo.
Al comando era giunto sentore che un piccolo insediamento a ridosso del confine con il Mali, fino ad allora sempre a favore della Francia, era stato distrutto e rimpiazzato da un manipolo di ribelli; quindi venne l’ordine di ripulire l’area.
L’avventura
Arrivarono in tre autocarri dopo quasi quattro ore per le tante deviazioni che dovettero fare a causa dei profondi burroni e delle dune che bisognava aggirare per non restare bloccati.
Arrivati il pomeriggio, abbastanza prima del tramonto, si appostarono dietro imponenti dune a qualche chilometro di distanza per celare la loro presenza, per osservare la difesa e cercare di comprendere la consistenza del contingente avversario. E con sorpresa dovettero notare che il piccolo insediamento che si trovava in un grande avvallamento era stato trasformato in un accampamento ben armato.
Le poche case erano tutte ammucchiate attorno al pozzo e a pochi metri c’erano due postazioni per mitragliatrice ben visibili. E si notavano anche delle sentinelle di guardia; dei civili però nessuna traccia: che fine avevano fatto?
Intanto il sole d’improvviso li aveva abbandonati; nel deserto la notte scende in fretta e altrettanto in fretta si avverte il cambio di temperatura e come si brucia di giorno lo stesso si gela la notte. Nell’attesa gli autocarri furono nascosti in un profondo uadi, un letto di fiume asciutto, uno dei tanti che spesso s’incontrano in quel territorio. I legionari di guardia avevano scavato delle buche, vi si erano infilati e si erano ricoperti di sabbia per ripararsi dal caldo feroce. Tutti portavano il lita che copriva il volto lasciando appena visibili gli occhi.
Poi, sotto la luce delle stelle, il contingente si era diviso in tre gruppi, ognuno composto di dodici uomini.
Il primo, comandato da un polacco, avanzava da est, l’altro, con lo stesso numero di uomini comandati dal capo della missione, uno spagnolo, avanzava da sud e il terzo gruppo guidato da Carlo da ovest.
Venivano avanti furtivamente da tre punti differenti con l’ordine di non iniziare il fuoco senza l’espresso comando del capo. Si erano portati a una decina di metri e a pancia in giù attendevano l’ordine di attacco, quando da quella che doveva essere la sede del comando ribelle uscì un uomo trascinando verso un tugurio un po’ in disparte una ragazza. Questa si dibatteva cercando di sfuggire alla morsa che le stringeva il braccio.
L’uomo, nella foga di far entrare la donna nella tetra apertura scavata nella roccia, non si avvide dell’ombra che, furtiva, ora con una mano gli chiudeva la bocca. Poi sentì la lama che gli tranciava la gola e fu l’ultima sensazione della sua vita.
Carlo tornò al suo posto di osservazione seguito dalla giovane donna alla quale ordinò di stare giù, nascosta. In quel momento arrivò l’ordine d’avanzare. I ribelli, che non si aspettavano di essere attaccati, specialmente di notte, dormivano e quel qualcuno che era ancora sveglio fu falciato alla porta mentre sfuggiva al fumo asfissiante dei lacrimogeni lanciati dentro dagli assalitori.
La loro resistenza fu quindi molto simbolica, purtroppo dei civili non c’era traccia, si pensava che fossero stati deportati. Solo a battaglia terminata la ragazza raccontò quello che era successo alcuni giorni prima e li condusse, dove si era consumata la carneficina dei Tuareg dopo un’orgia di torture e sfregi di ogni genere compiuti