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Nel Labirinto di un Destino Cieco
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Nel Labirinto di un Destino Cieco

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Francesco Carleo, un laureato che si guadagna da vivere dando lezioni private, si stabilisce, grazie alla generosità della signora Aldina, in una località dolomitica, un vero paradiso terrestre, sia dal punto di vista ambientale che umano.
Le amicizie coltivate lì riempiranno la sua vita di soddisfazioni, finché la serenità del luogo non verrà sconvolta da una serie di efferati omicidi che si moltiplicheranno in poche settimane.
Il maresciallo de Chirico, addetto alle indagini, sarà in grosse difficoltà nel trovare il bandolo della matassa, e sarà Francesco, suo malgrado, a dargli una mano.
Beghe familiari, vendette e perversioni saranno i pezzi di un puzzle contorto che lascerà il lettore in suspense fino all’ultima pagina.

Franco Leone, dottore in Fisica, nato nel giorno di Natale del 1964, da sempre appassionato di horror, thriller e fantascienza, decide di cimentarsi nel 2010 in questo suo primo romanzo spinto da forti istinti omicidi, che lo porteranno ad uccidere fortunatamente solo sulla carta.
LanguageItaliano
PublisherFranco Leone
Release dateMar 31, 2017
ISBN9788826069418
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    Nel Labirinto di un Destino Cieco - Franco Leone

    I

    UN’OCCASIONE DA NON PERDERE

    Era una fredda serata di inizio febbraio, come tante in quell’ultimo mese che avevano portato intense nevicate per la gioia di albergatori e gestori di impianti sciistici della valle.

    Tornavo a casa dopo un pomeriggio passato in biblioteca, dove prestavo qualche consulenza per la sezione scientifica.

    Strada facendo quella che era una leggera brezza si andava trasformando in un vento sempre più teso e freddo; probabilmente era in arrivo una nuova nevicata, una forte nevicata, ma prima che si scatenasse la bufera avevo tutto il tempo di arrivare a casa, infatti qualche stella nel cielo e la Luna, quasi piena, che si levava da dietro i monti, illuminandone le cime innevate, suggeriva che la coltre di nubi non fosse ancora tale da dare luogo a precipitazioni.

    Si sentiva già il rombo dei tuoni da lontano, ma mi piaceva camminare in quell’atmosfera e, per ammazzare il tempo durante i tre chilometri che separavano la biblioteca da casa, facevo un gioco che avevo imparato da bambino e che tutti o quasi conoscono: contando quanti secondi passano dal lampo al tuono, moltiplicando per tre e dividendo per dieci, si può valutare grossolanamente la distanza alla quale è caduto il fulmine; vidi un bagliore in lontananza e contai mentalmente: 1, 2, 3,……, 17 secondi seguì un tuono non troppo rumoroso cinque chilometri pensai posso prenderla con calma.

    Nei venti minuti trascorsi prima di arrivare alla piazza principale (anche perché l’unica) del paese, ripetei il gioco per altre cinque volte; contai due volte dodici secondi, poi dieci, sette, tre: Si è avvicinato a meno di un chilometro: ci siamo quasi.

    In effetti negli ultimi venti minuti le nubi,sempre più basse e minacciose, avevano completamente ricoperto i rilievi circostanti e la visibilità era notevolmente peggiorata.

    Tutti i negozi della piazzetta erano già chiusi, tranne la farmacia, la cui titolare aveva però la fortuna di poter chiudere dall’interno, vivendo in un appartamento al piano superiore, la salumeria e la rosticceria, che da quando faceva consegne a domicilio risparmiando a molti il tempo a la fatica richiesti dalla preparazione della cena, era l’ultimo locale a chiudere i battenti.

    Quando Diego, il salumiere, mi vide fece un cenno di saluto dicendo: «Ancora in giro? Non vedi che cominciano a cadere i primi fiocchi?». Risposi al saluto: «Ciao Diego. E tu ancora al lavoro? Ormai a parte noi e il corriere della rosticceria tutti gli altri saranno già a casa al calduccio.» Mi guardò con un’aria un po’ rassegnata: «Fosse per me sarei già seduto davanti ad una bella polenta fumante, ma, come al solito, all’ultimo momento è arrivata la signora Alma: oggi le mancava il pan grattato per preparare le cotolette al marito. E’ sempre così, ogni sera: qualche minuto prima della chiusura si ricorda di non avere qualche ingrediente.» La signora Alma, ottantasette anni lei e otto di più il marito, sempre a piedi o in bicicletta, se dovevano recarsi più in là della piazzetta, come alla messa domenicale o delle feste comandate (compresa la notte di Natale) nella chiesetta che distava più di due chilometri dal loro nido e dalla quale non mancavano da quasi trent’anni, per la precisione da quella domenica mattina in cui la nonna di lei non si sarebbe più svegliata: aveva compiuto centotto anni pochi mesi prima!

    Aiutai Diego ad abbassare la saracinesca: «Aspetta un attimo», mi disse, «ho qualcosa da farti assaggiare.» Mi passò un pacchetto con un paio d’etti di uno speck speciale, un filone di pane e una bottiglia di vino, il tutto di produzione propria. L’odore che emanava quel pacchetto era così invitante che ebbi un pensiero di profonda riconoscenza verso la signora Alma, che aveva costretto Diego a chiudere un po’ più tardi, in modo da farci incontrare.

    «Buonanotte Diego e grazie.» «Ciao Francesco, a domani.»

    Nel quarto d’ora trascorso prima di arrivare a casa non successe niente di particolare, solo la neve si infittiva costantemente, ripensai a come e perché mi trovavo là.

    Mi chiamo Francesco Carleo, nato e vissuto nei pressi della Capitale fino all’inizio dell’estate passata; nonostante una laurea in Fisica ho trascorso questi ultimi anni alla ricerca di un lavoro, un lavoro vero, per non gravare troppo sulle spalle di mamma e papà. Già, mamma e papà, due persone eccezionali che non mi hanno mai fatto pesare questa cosa, finché non sono venuti a mancare nel giro di pochi anni; una grossa perdita che, come si suol dire ha lasciato un vuoto incolmabile nel mio animo, ma solo legato al lato affettivo: non mi preoccupavo affatto che per vivere non avevo altro che i pochi risparmi che i miei genitori erano riusciti ad accumulare con grandi sacrifici, pur non avendomi mai fatto mancare niente, anzi mi hanno consentito un’esistenza più che dignitosa, da classica famiglia media. E così, rimasto senza famiglia (i pochi parenti che avevo hanno sempre fatto di tutto per non smentire la definizione di parenti serpenti, che dal punto di vista del serpente potrebbe risultare alquanto offensiva) e praticamente senza soldi, vivevo, anzi sopravvivevo, dando lezioni private a studenti universitari e guadagnando quel centinaio di euro mensili, appena sufficienti per un paio di pasti al giorno, che io definivo la dieta del disoccupato che comunque mi aveva fatto perdere quel poco di pancetta che avevo messo su.

    Certo, molti al mio posto sarebbero stati estremamente preoccupati, ma io, forse con un po’ di presunzione, ho sempre pensato di essere troppo intelligente per morire di stenti.

    La svolta della mia esistenza è arrivata proprio l’estate scorsa.

    Uno dei miei clienti avrebbe dovuto trascorrere qualche settimana di vacanza nella splendida vallata dove ora vivo, ma lo aspettava un importante esame appena tornato; i suoi genitori mi fecero una proposta che non potevo rifiutare: «Pietro non può trascurare la preparazione dell’esame durante le vacanze. Che ne dici di venire con noi? Invece del solito compenso sarai nostro ospite e…» «Accetto!» risposi senza nemmeno aspettare che la madre di Pietro finisse di parlare. Mi aspettavano tre settimane nelle quali avrei sospeso la dieta del disoccupato e tra una lezione e l’altra di Analisi Matematica avrei avuto anche il tempo di riflettere sul mio futuro, ma non pensavo certo che quella vacanza avrebbe completamente stravolto la mia vita.

    Mi ritrovai così in una tipica vallata alpina, in un paesino di poche migliaia di abitanti, considerato una grande città dagli abitanti dei piccoli borghi circostanti, nessuno dei quali raggiungeva le cinquecento anime.

    Arrivammo a metà giugno e saremmo rimasti fino alla prima settimana di luglio. Alloggiavamo nella parte alta del paese, in un maso che i genitori di Pietro avevano preso in affitto da un’anziana signora benestante, la signora Aldina, proprietaria di altre tre o quattro case, in una delle quali viveva con due amiche, sue ospiti che, rimaste vedove, erano venute a trovarsi in cattive acque.

    L’estate iniziò con un tempo piuttosto perturbato, cosa che ci costringeva a passare in casa gran parte della giornata. Per evitare di restare inattivo, dopo le due o tre ore di lezione con Pietro, dedicavo parte del mio tempo a dare qualche ripetizione agli studenti del paese. Lo facevo senza chiedere compensi e questo mi fece entrare nelle grazie di molti di quelli di cui presto sarei stato concittadino: non era ancora finito il mese di giugno ed ero diventato un valligiano di adozione.

    All’inizio di luglio il clima si stabilizzò; le giornate senza piogge e temporali mi consentivano di apprezzare più da vicino le bellezze del luogo, continuando comunque a seguire i miei allievi in un locale ricavato da una soffitta che la signora Aldina mi aveva messo a disposizione.

    Nella tarda mattinata del quattro di luglio, appena tornato da una visita al Museo delle scienze e della storia dell’uomo, Ubaldo, il padre di Pietro, mi chiamò dicendomi di preparare i bagagli: avremmo dovuto anticipare la partenza a causa di problemi di lavoro, causati da alcuni fornitori dell’azienda di cui Ubaldo era titolare.

    Avevo capito che stavano per ricominciare le lunghe e miserevoli giornate nella mia città natale.

    Pensai che solo un miracolo avrebbe potuto evirarlo, ma i miracoli non esistono… e comunque sapevo che prima o poi avrei dovuto lasciare quel luogo.

    Se è vero però che i miracoli non esistono, lo stesso non si può dire dei colpi di scena. Qualcuno bussò alla porta; era la signora Aldina: «Sono passata a salutarvi, sperando che sarete ancora miei ospiti. Posso contare sulla vostra presenza per il periodo natalizio?»

    Se gli impegni di studio e di lavoro glielo avessero consentito, Pietro e suoi genitori sarebbero sicuramente tornati per Natale. Io mi limitai a tendere la mano verso la signora Aldina per un saluto formale, ma lei mi chiamò da parte e a bassa voce mi disse: «Ti piacerebbe aiutarmi a fare uno scherzetto a quegli avidi dei miei nipoti?»

    «Sono a sua completa disposizione, ma dobbiamo sbrigarci: domani vado via.»

    Mi guardò con un’espressione allo stesso tempo austera e bonaria: «Primo…a tua disposizione; da questo momento devi darmi del tu, siamo o no complici? Secondo: domani non vai da nessuna parte. Lo scherzo consiste proprio in questo: se vuoi sarai usufruttuario di questa casetta; disporrò che nessuno possa allontanarti, vita natural durante, anche dopo la mia dipartita. Farò la stessa cosa con tutte le mie proprietà, favorendo i miei migliori amici. I miei cari nipoti saranno padroni di qualcosa che forse non gli apparterrà mai e sarà questa la più grande soddisfazione che mi porterò nell’aldilà, ammesso che lo raggiunga prima di loro.»

    La svolta era arrivata: la signora Aldina, anzi Aldina, come sarebbe stata da ora in avanti, insieme ai suoi compaesani mi avevano accettato come uno di loro e io lo sarei stato. E poi non mi dispiaceva rendermi partecipe di un tal dispetto agli amati nipoti che, con poche altre decine di persone costituivano l’unico neo, punto nero, pustola direi di quel comprensorio abitato da gente rispettabile, pur con i propri piccoli difetti.

    Fu così che all’improvviso mi liberai del peso della mia città, in cui avevo sempre vissuto mio malgrado. In fondo un minimo di riconoscenza lo dovevo ai nipoti di Aldina; grazie a loro avevo una casa di cui disporre a mio piacimento nel posto dove ormai avevo deciso di stabilirmi, forse definitivamente, e non avevo più problemi economici. Avevo infatti venduto la casa ereditata dai miei genitori e con il ricavato mi ero garantito un’esistenza e una vecchiaia decorosi: ero divenuto addirittura benestante!

    II

    ULRIKE HINTERSEER

    Meditando sui repentini cambiamenti che una vacanza può causare nell’esistenza di una persona, mi ritrovai ai piedi della salita che portava alla mia nuova casa, uno stretto vicolo di poco meno di cento metri, ma con pendenze che in certi tratti superavano il trenta per cento. Una vera scalata! E percorrerla quella sera sarebbe stato più arduo del solito; la neve cadeva ormai fittissima, la visibilità era ridotta a pochi metri e i piedi affondavano quasi del tutto nello spesso strato di neve che ricopriva il suolo.

    Sapevo che sull’uscio di casa avrei trovato Ulrike, la direttrice della biblioteca, che mi aspettava impaziente con le confezioni della rosticceria contenenti la cena che avremmo consumato insieme, come eravamo soliti fare da un paio di mesi.

    E infatti Ulrike era là; la salutai, ma invece del solito ciao direttrice che intendevo dire uscì una specie di lamento: erano gli effetti della salita su un terreno ostile; avevo le gambe che bruciavano e i polmoni affamati d’aria.

    Ulrike doveva essere appena arrivata perché anche lei aveva il fiato grosso. Sicuramente i suoi innumerevoli impegni l’avevano trattenuta più del previsto.

    «Alla buon’ora!» mi disse appena riuscì a scorgermi «ancora pochi minuti e avresti trovato una statua di ghiaccio.»

    Entrammo, per fortuna avevo lasciato il camino acceso.

    La casa era disposta su un unico piano: una comoda cucina, un ampio bagno, la stanzetta in cui dormivo e un grosso locale, quello con il camino, di forma approssimativamente esagonale. Là avevo allestito la mia biblioteca personale, con i beni più preziosi che avevo portato quando traslocai: un migliaio di libri, altrettante riviste, articoli, appunti e qualche centinaio di fumetti. E per non farmi mancare niente avevo portato con me anche una piccola collezione di videocassette e dvd, per un totale di diverse centinaia.

    Mentre indossavo una tuta al posto dei miei abiti inzuppati e freddi, Ulrike scese nella legnaia, alla quale si accedeva da una scala posta nel ripostiglio della cucina, nel seminterrato in comune con la casa di Aldina, per prendere un po’ di rami secchi per accendere la cucina economica. Era molto più esperta e rapida di me in queste operazioni.

    Avremmo così potuto riscaldare non solo gli ambienti, ma anche la cena, che consisteva di un grosso pollo e una valanga di patate arrosto, oltre a quattro porzioni abbondanti di torta di mele, il tutto gentilmente offerto dalla mia ospite.

    Ironia del destino, da quando erano finiti i problemi economici le mie spese alimentari si erano quasi del tutto annullate; tra i compaesani che, ora l’uno ora l’altro, mi portavano come assaggio i prodotti delle proprie attività (aziende agricole, forni, pasticcerie, salumerie e via dicendo), Ulrike che due o tre volte a settimana portava la cena dalla rosticceria e non voleva saperne di dividere le spese e Aldina che mi aveva, per così dire, imposto di essere suo ospite la domenica a pranzo (e la cosa non mi dispiaceva affatto una volta conosciuta la sua arte in cucina), le uniche spese degli ultimi due mesi provenivano unicamente dall’acquisto di libri e dalle colazioni al bar del centro. Con questo non voglio dire che vivessi sulle spalle dei valligiani; ripagavo la loro amicizia non richiedendo compenso alcuno per le mie attività. Ricevevo solo un rimborso simbolico di circa trecento euro per le consulenze dalla sezione astronomica del museo, ma si trattava di un obbligo per non meglio precisati motivi fiscali.

    Continuavo ad impartire lezioni private che durante l’inverno mi tenevano occupato per buona parte della giornata, dal momento che c’era un solo istituto comprensivo di scuole elementari e medie inferiori, mentre gli studenti delle scuole superiori e universitari dovevano recarsi a Bolzano e, soprattutto nelle ultime due settimane, uscire dalla valle era stato quasi impossibile e così spettava a me e ad altri colleghi il compito di fargli recuperare le lezioni perse. Spesso frequentavo la biblioteca, dove aiutavo anche gli addetti a sistemare i libri e dove spesso mi veniva chiesto un parere sull’opportunità di acquistare o meno determinati testi scientifici. Per finire scrivevo brevi articoli su un giornale locale circa l’attività del museo, in sostituzione, a causa dei suoi impegni, di Hans Melloni, dottore in Scienze Naturali nonché direttore del museo, unica persona ad interessarsi di scienze (intendo professionalmente), prima che arrivassi in valle.

    Fu proprio Hans a segnalarmi al proprietario del giornale, Marcello Longhi, detto Marcellino per i suoi centotrenta chili di peso, affinché prendessi il suo posto.

    Il giornale si chiamava Mercurio: Marcellino voleva riferirsi al dio Mercurio, il messaggero degli dei; forse in questo c’era un po’ di presunzione, ma le notizie che riportava raramente erano bufale. Accettai la proposta a due condizioni: avrei scritto i miei articoli, gratuitamente, in italiano (la valle era bilingue e il giornale usciva sia nell’edizione in italiano che in quella in tedesco) e avrei tenuto una rubrica astrologica, una colonna per scrivere l’oroscopo del giorno. Intendiamoci, non ho mai creduto a oroscopi, maghi e simili, ma mi divertiva scrivere frasi, più o meno sempre uguali, che avrebbero condizionato la vita di quelli che si affidano alle stelle e al destino in esse scritto, anche per le cose più banali.

    Fu nella redazione del Mercurio che conobbi Ulrike. Lei si interessava della cronaca. Certo, in un posto così tranquillo c’era poco da scrivere, anche se ultimamente si era verificata una serie di furti al museo.

    Io e Fräulein Hinterseer, come la chiamava Marcellino, non andammo subito d’accordo; anzi lei era sempre piuttosto ostile nei miei confronti perché riteneva in un certo senso sacrilego il fatto che scherzassi su quella che definiva l'inappellabile decisione delle stelle.

    Nonostante una laurea in Filosofia, ottenuta discutendo una tesi sull’Utopia di Tommaso Moro, non sempre Ulrike affrontava le cose con la forza della ragione, spesso si lasciava prendere dalla superstizione, non capivo se a causa di una predisposizione genetica, della sua passione per la storia del Medioevo (soprattutto gli anni più bui, quelli dominati dalla paura dell’occulto) o forse per l’influenza dei suoi genitori, due onestissime persone, due grandi lavoratori, che però vedevano il male e il peccato ovunque e quasi si rivolsero ad un esorcista, a sentire Ulrike, quando seppero che la figlia aveva deciso di iscriversi all’università, invitandola comunque a cercarsi una nuova sistemazione, per paura che una figlia laureata portasse il diavolo in casa. Fräulein Hinterseer si trasferì così in una baita con una collega dell’università.

    L’avversione di Ulrike nei miei confronti si attenuò presto: condividendo la stessa stanza nella redazione del giornale ed essendo vicini di casa, avemmo tempo per conoscerci meglio e apprezzare le rispettive qualità. Poco prima di Natale per la prima volta cenammo insieme, dando inizio alla consuetudine che ci vedeva ancora consumare spesso il pasto serale, di solito a casa mia, per non essere intralciati, nel dopo cena, dalla sua coinquilina. Eravamo diventati buoni amici e non solo…se lo avessero saputo i suoi genitori…

    III

    LA METAFORA DELLA BUFERA

    Attaccammo pollo e patate arrosto attorno alle venti e trenta, ora insolita dal momento che da quelle parti difficilmente si cena dopo le sette di sera. Divorammo tutto con avidità e, prima di passare alla torta di mele, proposi a Ulrike di svuotare la bottiglia di vino che mi aveva regalato Diego. Mi guardò con ironia e compassione: «Svuotarla? Devo dedurne che non hai mai assaggiato il vino di Diego: un bicchiere e mezzo e dormi per i prossimi tre giorni, a meno che tu non appartenga alla classe dei più accaniti bevitori.»

    Aveva ragione. Nonostante il pasto abbondante bastò mezzo bicchiere per farmi girare la testa. Mi fermai a quello e lasciai il resto a Ulrike che forse era più abituata all’alcool; del resto da quelle parti non era raro consumare un bicchierino di grappa dopo la colazione.

    Dalla finestra della cucina non avevamo una chiara idea delle condizioni del tempo poiché quella parte della casa era ben riparata, ma l’ululato, anzi il grido del vento e la neve che cadeva formando dei mulinelli, suggerì che la mattina successiva avremmo trovato uno strato bianco bello spesso, almeno un metro, secondo l’esperienza della mia ospite.

    Seguimmo alla TV il bollettino meteo. Il giorno successivo il cielo sarebbe stato ancora coperto, ma con scarse probabilità di precipitazioni.

    Diversamente dal solito, fui io a parlare per primo, per rompere un insolito silenzio che dominava sul dopo cena: «Oggi in biblioteca ti hanno tanto cercato; che fine avevi fatto?»

    «Ho avuto una giornata molto movimentata. Marcellino mi ha chiesto di scrivere un articolo sui furti al museo e così ho dovuto annullare tutti gli altri impegni.»

    Io ironizzai sulla cosa: «E’ un compito così arduo scrivere qualche riga?»

    Mi diede un’occhiataccia:«No. Ma avevo un sospetto, visto il tipo di oggetti trafugati. Così, con la scusa di intervistarlo, mi sono recata dal sospettato per capire se avevo visto giusto.»

    «E’ un segreto di stato o posso sapere di chi si tratta?»

    «E’ un tizio che ancora non conosci. Si chiama Klaus Grobian e vive in una baracca nel bosco. Gli ingranaggi del suo cervello sono fermi da tempo o forse non sono mai entrati in funzione.»

    Rimasi un po’ interdetto; Ulrike era nota nella comunità per essere tutto, tranne che impavida e ora mi veniva a raccontare di aver passato parte della giornata sola con un tipo del genere in una baracca nel bosco. Colse quel dubbio nella mia espressione e precisò: «Non è come pensi. Grobian è inoffensivo, almeno con le persone, ma è nemico giurato di ragni, scarafaggi e insetti, soprattutto se di grosse dimensioni. Ed è appunto per questo che sono stata da lui; dal museo sono sparite diverse riproduzioni di grandi ragni ed insetti esotici, oltre a due teche, una con una tarantola e l’altra con un esemplare di scorpione dal dorso giallo, la cui puntura può essere letale anche per l’uomo, se non si interviene in tempo sulla vittima.»

    «I tuoi sospetti erano fondati?»

    «Beh, c’era tutto quello che mancava al museo eccetto lo scorpione; quanto alla tarantola, Klaus l’aveva legata per le zampe, tutte e otto, con dei fili di rame tramite i quali le comunicava scariche elettriche, anche piuttosto intense direi, perché ad un certo punto l’abbiamo persa. Ma questo è niente rispetto agli orrori che ho visto in quella baracca», disse trattenendo un conato di vomito, «ragni, scarafaggi, cavallette, non importa se finti o veri, ma tutti posizionati come se, prima di dargli la morte, Klaus li avesse sottoposti a torture. Ho visto scarabei impalati, un grosso ragno di gomma su un modellino di ruota, tipo quelle che si usavano durante l’inquisizione, un grillo si dibatteva attendendo la fine, impiccato ad una vera forca in miniatura, sotto la quale una mantide uccisa con uno spillone nella testa era rimasta con le mani giunte, come se pregasse per il suo amico grillo. Però, a parte il ribrezzo provocato dalla vista di quello scempio, ciò che veramente era insopportabile era la puzza, qualcosa di indescrivibile…»

    Mentre Ulrike si premeva la mano davanti alla bocca per contenere un secondo conato, le domandai se, per quanto Grobian fosse inoffensivo, recandosi là avesse preso delle precauzioni, rispose affermativamente: «Il microfono che ho usato per intervistarlo era in realtà una grossa bomboletta spray, contenente sostanze fortemente irritanti. Comunque, dopo essersi mostrato orgoglioso di finire sul Mercurio, è stato lui stesso a troncare la conversazione, invitandomi ad andare via, perché nei dintorni si aggirerebbe uno scarabeo rinoceronte, lungo più di tre metri, uscito dalla bocca del diavolo, per aprire la strada ai suoi simili e distruggere la valle e lui doveva inoltrarsi nel bosco per ucciderlo, come già aveva fatto con la vedova nera grossa come un vitello l’anno passato.»

    «Un vero cavaliere senza macchia e senza paura» commentai «un novello Don Chisciotte. Potete, anzi possiamo essere tranquilli. Ma cos’è la bocca del diavolo

    «Un’apertura tra le rocce nel bosco, dove fino a due secoli fa si rifugiavano le streghe della zona e ancora oggi sembra che nelle notti di Luna piena si sentano urla e lamenti provenire dall’interno.»

    Io dissi ridendo: «E tu ovviamente ci credi.»

    «Ovvio» rispose «io stessa, che da bambina passavo spesso di là con i miei, e in pieno giorno, ho sentito qualcosa.»

    «Suggestioni; scommetto che solo chi ci crede sente quei suoni: in ogni caso dopodomani ci sarà la Luna piena, potremmo andare insieme alla bocca del diavolo

    Ora Ulrike era indispettita: «Non ci andrei per niente al mondo. E comunque nessuno può avvicinarsi alla grotta; violarla è l’unica cosa che rende veramente pericoloso Klaus Grobian. La sua missione più importante è fare sì che nessuno vi entri: spesso dorme di giorno per vegliare davanti ad essa di notte, anche in nottate come questa, con un machete, pronto ad usarlo su chiunque si avvicini alla porta della cabina che egli stesso ha costruito davanti alla bocca. Secondo lui è da lì che Satana immette tra i comuni mortali quelle bestie immonde, ancora piccole, perché crescendo prendano il sopravvento sugli uomini.»

    Mi aveva persuaso; un folle col machete può essere anche più pericoloso, e reale, delle superstizioni. «A proposito», dissi, «che ne è stato dello scorpione? Non vorrei che un giorno o l’altro si presentasse, cresciuto a dismisura, per fare di me un sol boccone!» Ulrike mi disse qualcosa in tedesco, molto probabilmente una parolaccia (era il vantaggio del bilinguismo), prima di rispondere: «Klaus mi ha detto di averlo rubato per salvaguardare la salute del museo, ma stamattina è passato di là il suo fratello gemello Andy e lo ha preso perché pensava che fosse d’oro. Allora gli ho detto che suo fratello è un parassita e lui mi ha lasciato andare solo dopo essersi fatto spiegare cosa fosse un parassita; l’unico esempio che gli ha chiarito la cosa è stata la zecca: tempo fa una di queste si è infilata tra i suoi capelli, che portava lunghi e arruffati, arrecandogli grossi fastidi, tanto che oggi porta i capelli a spazzola, con solo qualche batuffolo di barba rossiccia a prolungare le basette.»

    «E questo fratello parassita è come lui?»

    «Fisicamente si somigliano molto, ma Andy è tutto pancia e doppiomento, con un ammasso informe di capelli arancioni. Qui tutti lo chiamano Rosso Malpelo, come il personaggio della novella di Verga. E’ un attaccabrighe che vive di piccole truffe e passa buona parte della sua vita o all’ospedale, a farsi curare le ferite causate dalle botte di quelli che tenta di truffare o alla caserma dei carabinieri per rendere conto delle proprie azioni.».

    Non avevo ancora avuto modo di conoscere quel tizio, ma se il suo nomignolo era riferito non solo all’aspetto fisico, potevo immaginare che, come il personaggio verghiano, non fosse molto benvoluto a prescindere.

    Ripresi la conversazione tornando al ladro del museo: «Ti faccio i miei complimenti! Hai risolto il caso brillantemente. Che ne sarà degli oggetti trafugati, del ladro e del suo piccolo museo degli orrori?»

    «Sinceramente non me ne frega un fico secco, a parte il fatto che c’è in giro un grosso e pericoloso scorpione, tra l’altro nelle mani di un balordo come Rosso Malpelo. Non vedevo l’ora di lasciare quel posto, non tanto per quello che avevo visto, ma piuttosto per quello che continuava a percepire il mio olfatto: sono uscita da quella baracca scioccata e con quel tipico fastidio alla testa provocato da odori troppo intensi e in questo caso anche sgradevoli.» Ulrike trattenne a stento un nuovo tentativo del suo stomaco di ribellarsi a quei ricordi, ma continuò il suo racconto «Per fortuna a ridarmi un po’ di buon umore  è stata una scena cui ho assistito uscendo dal bosco. Hai presente don Anselmo, il parroco? Passeggiava nella neve, come suo solito, quando, forse a causa di un cedimento del terreno, è scivolato per alcuni metri verso il basso; purtroppo per lui, si è fermato solo quando, mentre cadeva a gambe divaricate, tra queste si è interposto un alberello che ha frenato la discesa, ma a che prezzo!» sentenziò ridendo con gusto. Io ebbi un brivido, come mi succede ogni volta che vedo qualcuno prendere un colpo in quelle zone basse; la mia amica commentò ironicamente: «Credo che da oggi don Anselmo finalmente non avrà più difficoltà a mantenere fede al suo voto di castità, ma dovrebbe migliorare il suo senso dell’umorismo: è rimasto un tantino interdetto quando ha visto che sono scoppiata a ridere. Chissà forse sperava in un massaggino dove aveva la bua!»

    Mentre proseguiva il racconto di Ulrike, vidi che le sue orecchie tendevano ad arrossarsi, forse a causa del calore della cucina economica, forse a causa del vino di Diego o forse un mix dei due.

    «E poi ti lamenti che qui ti annoi. Non mi sembra sia andata così male» dissi a Ulrike, che replicò: «E non è tutto. Prima di passare da Klaus sono andata allo stadio del ghiaccio per disdire l’intervista a Benny, il fuoriclasse della squadra di hockey; all’ingresso ho visto il professor Vico che prendeva a calci nel culo Andy…voglio dire Malpelo.»

    «Non ci credo!»

    «Si è vero: il professore è noto per la sua calma, ma Andy pretendeva che Vico, gli pagasse un debito di gioco per una partita a poker, che Malpelo aveva giocato con carte truccate, ma Vico lo ha smascherato e giustamente, dopo averlo sputtanato per la valle una volta di più, si rifiuta di pagare il debito.»

    «E così il mansueto professor Vico è passato alle vie di fatto.»

    «Si, ma solo dopo che Andy aveva minacciato di vendicarsi su sua figlia Heike.»

    «Bel codardo! Speriamo che non utilizzi lo scorpione che ha rubato al fratello per realizzare le sue minacce.»

    «Nonostante frequenti casa Vico, probabilmente ancora non conosci bene Heike, ma lei, quando è irritata, può diventare molto più velenosa di quello scorpione. Se suo padre si è limitato a prenderlo a calci, Heike non avrebbe scrupoli a sbarazzarsi materialmente di Rosso Malpelo e forse così guadagnerebbe molti punti nel gradimento della nostra piccola comunità.»

    «Eppure sembra una ragazza equilibrata» ribattei. Ulrike scoppiò di nuovo a ridere, poi disse: «Io ed Heike ci conosciamo da bambine e definirla equilibrata sarebbe come definire onesto Rosso Malpelo. Per esempio oggi era allo stadio perché ci eravamo date appuntamento lì, ma appena ha visto Benny con la nuova fidanzata, ha assunto la tipica espressione che io definisco dell’incazzatura nerissima. Tu non lo sai, sono stati insieme, molto insieme, fino a poco meno di un anno fa. Poi lui l’ha tradita…Ebbene oggi quando lo ha visto gli ha detto E’ questa la puttanella che ti porterai in Canada? e poi, rivolgendosi a lei, Spero che in una delle prossime partite prenda una bastonata tra le palle, poi vedremo se ti accontenterai di giocare con un giocattolo rotto. La ragazza si è limitata a mostrarle il dito medio.»

    La puttanella era Silvia Manzoni, giunta in paese all’inizio dell’anno scolastico per sostituire la maestra Olga, andata in pensione dopo quarantotto anni di onorata carriera; nella valle erano molte le famiglie in cui nonni, genitori e figli erano stati allievi di Olga.

    Silvia non avrebbe fatto lo stesso, non considerava l’insegnamento una missione e probabilmente si sarebbe comportata come aveva pensato Heike. Ma non ne avrebbe avuto il tempo…

    Ci accanimmo con voracità sulle ultime due porzioni di torta di mele. Proposi di finire di svuotare la bottiglia di vino: un bicchiere io, due Ulrike. Stavolta non ebbi problemi grazie allo stomaco pieno.

    Erano passate da poco le dieci, quando ci mettemmo a lavare le poche stoviglie che avevamo sporcato per la cena; guardai dalla finestra, la tempesta peggiorava, a malapena si scorgeva la finestra illuminata della cucina dei Gruber, i miei dirimpettai, che distava poco più di un metro da quella della mia cucina: «Strano. I Gruber non sono ancora scesi giù al forno.» I miei vicini erano proprietari di un piccolo panificio al pianoterra della loro abitazione, lasciatogli in eredità dai genitori di lui e ogni sera verso le dieci scendevano per iniziare la loro nottata di lavoro. Giorgio Gruber era un lavoratore instancabile, anche se un po’ burbero e molto geloso, per quanto  Marianne, sua moglie, era tanto avvenente quanto fedele a suo marito… e anche molto generosa: non mancava mai di far avere ad Ulrike, per colazione, cornetti ripieni di crema o cioccolato (erano amiche d’infanzia) e Giorgio stesso, a volte, mi passava dalla finestra i suoi prodotti, non appena rientrava in casa la mattina.

    «A giorni avranno il loro primo figlio» disse Ulrike «e Giorgio si trattiene un po’ di più con Marianne, che non scende in laboratorio perché il medico le ha prescritto un riposo assoluto e…» non riuscì a terminare la frase: un bagliore, un boato immediato che fece tremare tutto… il buio,  un gridolino della mia ospite, un minuto di blackout. Poi, nonostante il rumore della tempesta, si udirono dalla casa dei Gruber delle frasi urlate in tedesco. «Che caspita gli è successo?» chiesi.

    «A parte una serie di imprecazioni contro gli abitanti di terra e cielo, di cui ti risparmio la traduzione, sembra che il fulmine appena caduto abbia provocato un serio guasto al televisore. Speriamo che non abbia avuto danni ai forni giù in laboratorio. E’ vero che la sua produzione migliore viene dal forno a legna, ma i cornetti della mia colazione li fa con quelli elettrici!»

    «Non ti facevo così cinica e opportunista: prima don Anselmo, ora i poveri Gruber. A proposito, il piccolo in arrivo sarà maschio o femmina?»

    «Maschio, per la gioia di Giorgio; un nuovo piccolo acquario.»

    Ecco! Aveva dirottato il discorso sull’astrologia, ora la conversazione avrebbe assunto una certa vivacità.

    «Pensi che questo possa cambiare il suo futuro? Quasi sicuramente proseguirà nell’attività di famiglia, anzi spero che sia così, se dovesse farlo all’altezza dei genitori e, a quel che si dice, dei nonni. E’ l’ambiente in cui viviamo e il nostro DNA, oltre ad una serie di casi della vita a costruire il futuro. Del resto puoi vedere anche tu, che io stesso  indovino quasi sempre i miei oroscopi…» Non ebbi il tempo di continuare, la replica fu velenosa: «Non leggerò mai quello che scrivi sulle stelle, nemmeno quando lo fai professionalmente.» Alludeva ad un atlante del cielo, che stavo scrivendo, avvalendomi anche dell’aiuto prezioso del professor Vico, per quello che riguardava le storie mitologiche, legate a molte costellazioni. Continuai chiedendole: «Se il segno sotto cui si nasce è così importante, mi spieghi perché i fratelli Grobian, che sicuramente sono dello stesso segno, nati pressoché contemporaneamente, hanno avuto destini così diversi?» Sapevo già che avrebbe tirato fuori il discorso dell’ascendente e così fu. Disse infatti che bastano pochi minuti per cambiare ascendente e, con esso, il proprio destino, al che replicai: «Ma l’ora in cui si nasce nella maggior parte dei casi è approssimativa; nessun medico, infermiere o chi per loro si prende la pena di riportare con precisione l’ora della nascita e, se tu dici che basta poco per cambiare ascendente…»

    Il rossore delle orecchie di poco prima si era esteso a guance e zigomi, mi guardò irritata: «Se è solo per questo, ha una grande importanza anche la luce che ci arriva da stelle e pianeti…»

    «Non dire fesserie» la interruppi «una qualunque candelina su una torta di compleanno, illumina un neonato molto più di una qualunque costellazione o pianeta. Se nascerà di sera avrebbe più luce dalle lampade della sala parto, nascerebbe sotto il segno del lampadario, o forse del candelabro, visti i continui blackout di questi giorni. E poi, se proprio vogliamo dare qualche merito alla luce delle costellazioni, allora il figlio dei Gruber dovrebbe essere del segno di Orione, una costellazione che in questo periodo è ben visibile e molto più luminosa dell’acquario, anche se non astrologica perchè non fa parte dello Zodiaco e Sole, Luna e pianeti non la attraversano.» Evitai poi il discorso sulla precessione degli equinozi...

    «Ti riferisci a quella specie di clessidra che si vede d’inverno?» chiese causticamente.

    «Non è proprio una clessidra. C’è dietro la storia di un …»

    «Non mi interessano le storielle di mitologia che ti racconta Vico», chiuse bruscamente il discorso sugli astri, ma non prima di riavere riaffermato la sua convinzione circa l’influsso degli astri sui nostri destini: «Sono certa che ti dimostrerò che quello che dico è vero. Scommettiamo che se sarò in grado di farlo, ti abbonerai per un anno ad una rivista astrologica?». Acconsentii, sicuro di aver vinto in partenza.

    Si avvicinò alla finestra. Ormai non si vedeva più nemmeno la casa dei Gruber. Il boato dei tuoni e i lamenti del vento avevano preso il dominio di tutto. Fui ancora io a prendere la parola: «Con questo tempo non puoi tornare a casa. Stanotte resterai qui.Ti va un caffè?»

    «Si grazie. Tanto con una notte come questa non sarà un caffè a togliermi il sonno.»

    «Il tuo oroscopo di stamattina parlava chiaro: passerete la notte in bianco… neve e insonnia, ho fatto ancora centro.»  Stavolta la parolaccia con cui mi rispose fu in italiano, il più classico dei vaffa e poi aggiunse:  «Anche il tuo oroscopo dice che tu stanotte andrai in bianco. E non per colpa della neve!»

    La sua non era una semplice minaccia, avrebbe mantenuto fede alle sue parole, non restava che andare nella stanza esagonale a vederci un bel film.

    Ulrike spense la cucina economica: fuori la temperatura doveva essere di diversi gradi al di sotto dello zero, ma dentro superava i venti e si sarebbe mantenuta così per ancora qualche ora, grazie alla struttura della casa.

    «Tra una fesseria e l’altra si è fatto tardi» dissi.

    «Che ore sono?» chiese Ulrike.

    «E’ quasi mezzanotte, l’ora delle streghe. A quest’ora sicuramente ce ne sarà un buon numero fuori dalla bocca del diavolo che giocano a palle di neve.» La mia amica non fiatò, passò direttamente dalle parole, o meglio dalle parolacce, ai fatti; un’edizione tascabile dei Racconti del terrore di Edgar Allan Poe, mi sfiorò il naso.

    «Mancato!» dissi.

    Lei mi guardò con sufficienza e rispose: «Non ti ho colpito di proposito, se avessi voluto avrei centrato in pieno la tua testolina vuota. Ma dobbiamo vedere un film o continuare a dira cazz… stupidaggini?»

    «Ok, vada per il film»; mi avvicinai allo scaffale con i dvd «beh, a proposito di streghe proporrei…»

    «No! Quello no» aveva già capito a cosa mi riferivo.

    «Si invece, proprio quello». Presi Suspiria, il film che Ulrike riteneva il più terrificante che avesse mai visto, anche se visto è un po’ eccessivo: non era mai andata oltre la scena dei vermi che a migliaia cadevano dal soffitto.

    Dopo aver spento il caminetto, ci mettemmo su due comode poltrone, sotto le coperte che ci aveva portato Aldina qualche sera prima; Ulrike avvicinò la sua poltrona alla mia, si coprì, quasi completamente, lasciando fuori solo naso e occhi, più per la paura che per il freddo e interpose un cuscino tra me e lei, a ricordarmi che comunque avremmo solo visto il film. Quella sera fu un evento; passò indenne la scena dei vermi. Eravamo ormai al punto in cui allieve e insegnanti, in attesa della bonifica degli ambienti infestati dai simpatici animaletti, si erano trasferite a dormire tutte insieme in una grande stanza e uno strano rantolo, che una delle insegnanti emetteva dormendo, dava il via al manifestarsi di oscure presenze nella scuola, quando la stanza esagonale fu illuminata a giorno per un attimo e quasi immediatamente un botto secco, non un boato, fece tremare addirittura il lampadario della stanza. Ulrike cacciò fuori un urlo, che mi colpì le orecchie quasi più del tuono, la luce andò via, stavolta non per poco. Avremmo ancora rimandato il giorno in cui la mia amica avrebbe visto il film per intero: non immaginavo che quel giorno non sarebbe mai venuto.

    Alla fine il vino ebbe il sopravvento sul caffè, sia pure molto ristretto, e mi addormentai. Ulrike restò sveglia, per almeno un altro paio d’ore: su di lei aveva vinto il caffè, per non dire la paura del film, ma anche dell’atmosfera che si era creata. A suo dire non si ricordava di una bufera così intensa e violenta, pur essendo sempre vissuta lì.

    Come avrebbe scritto Snoopy, il cane dei Peanuts, era una notte buia e tempestosa.

    Eppure quella era poca cosa rispetto alla bufera, non di tipo climatico, che stava per abbattersi su quella tranquilla vallata.

    IV

    IL PROFESSOR VICO

    Quando mi svegliai erano da poco passate le sei. Il mio risveglio fu allietato dal profumo dei cornetti ripieni che Gruber aveva portato prima rientrando dal lavoro: «Questi sono per lei e per il suo amico», disse dando del lei a Ulrike, come era solito fare con tutte le donne che non fossero sua moglie o sue parenti, pur conoscendola da sempre e sapendo della sua amicizia profonda con Marianne.

    Entrai in cucina a vidi già pronte due enormi tazze di latte e una dozzina di cornetti, che ci spartimmo in parti uguali.

    Non nevicava più, ma il cielo era coperto di nubi basse, che limitavano molto luce e visibilità, un gradevole tepore veniva dalla cucina economica; mi avvicinai alla finestra e vidi i Gruber che facevano colazione. Giorgio spense subito la luce, Ulrike commentò: «Ha paura che tu veda sua moglie in camicia da notte. E’ la generosità fatta persona, ma per gelosia sarebbe capace di tutto; l’anno scorso stava per infilare un ragazzotto di un borgo qui vicino nel forno, solo perché si era girato a guardare la moglie e non assiste più alle partite di hockey, da quando ha saputo che Marianne, prima di conoscerlo, aveva mostrato un certo interesse per Benny.»

    Mi misi a tavola; l’abbondante cena della sera precedente e la notte burrascosa non mi facevano mancare l’appetito. E nemmeno a Ulrike, che terminò la sua razione di cornetti prima ancora che io ne finissi metà della mia. Quei cornetti erano deliziosi. Per fortuna il blackout notturno non era stato così lungo da impedire a Giorgio di usare i suoi forni elettrici.

    Mentre, con molta calma, gustavo la mia colazione, il cellulare di Ulrike squillò sul tema della Cavalcata delle Valchirie; lei riconobbe il numero di Marcellino. Erano passati pochi secondi da quando aveva risposto, quando ebbe una strana reazione: improvvisamente impallidì e dovette appoggiarsi al tavolo della cucina, poi, senza finire il suo caffellatte, disse solo: «Devo correre al giornale» e senza dare alcuna spiegazione, e senza nemmeno salutare, usci sbattendo la porta, incurante della praticabilità della strada ricoperta da uno strato di neve, che in certi tratti le arrivava oltre le ginocchia, nonostante i mezzi spazzaneve e gran parte dei concittadini da almeno un paio d’ore si stavano impegnando per minimizzare i disagi della bufera notturna.

    Non era nuova a certi comportamenti, soprattutto se sopravvenivano inaspettati cambiamenti di programma, ma mai aveva avuto una reazione di quel tipo. Cercai di non pensarci dopo; più tardi sarei passato al giornale, se non avessi avuto sue notizie.

    Mi preparai per andare alla baita del professor Vico, ma sentii dei rumori provenire dalla legnaia, armato di un coltello da cucina scesi giù, anche se ritenevo improbabile che si trattasse di qualche malintenzionato, quasi certamente qualche animale era venuto a rifugiarsi lì durante la notte. Trovai invece Aldina, con una lampada da speleologo, che cambiava un fusibile all’interruttore generale della sua abitazione: si era bruciato all’inizio del blackout. Le parlai della telefonata ricevuta da Ulrike e lei mi rassicurò che comunque non era successo niente ai suoi genitori, che aveva incontrato poco prima al ritorno della messa mattutina: «Ci

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