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Zanna Bianca
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Zanna Bianca

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About this ebook

Zanna Bianca è l’unico di quattro cuccioli a sopravvivere al gelo del selvaggio Yukon. In un mondo nel quale vige la legge del “divorare o essere divorati”, sarà costretto a confrontarsi con la violenza e la fame e a lottare contro la furia della natura selvaggia. Anche la forzosa convivenza con l’uomo, basata su di un’obbedienza ottenuta attraverso il maltrattamento, obbligherà il lupo allo scontro.


Ma un sentimento nascerà nel cuore oscuro del lupo. Zanna Bianca, che sembra conoscere solo odio e diffidenza, rinuncerà ad essere lupo e si farà cane per amore di chi, per la prima volta, si dimostrerà nei suoi confronti buono e comprensivo. Una storia avventurosa e al tempo stesso commovente, un sogno di amicizia tra uomo e mondo degli animali.

LanguageItaliano
PublisherPublishdrive
Release dateMar 27, 2017
ISBN9788897543657
Author

Jack London

Jack London was born in San Francisco in 1876, and was a prolific and successful writer until his death in 1916. During his lifetime he wrote novels, short stories and essays, and is best known for ‘The Call of the Wild’ and ‘White Fang’.

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    Zanna Bianca - Jack London

    kartaedizioni.it

    Parte Uno

    Capitolo Uno

    La pista della carne

    La cupa foresta di abeti si stendeva tetra su entrambe le rive del corso d’acqua gelato. Gli alberi, squassati da un improvviso vento, si erano liberati del loro manto di brina e sembravano appoggiarsi l’uno contro l’altro, scuri e sinistri contro la luce del crepuscolo. Un silenzio profondo incombeva su tutta la zona, una zona desolata, priva di qualsiasi segno di vita, immobile, così solitaria e fredda da non poter ispirare neanche il senso della tristezza. Vi si avvertiva quasi un accenno al riso, ma un riso più terribile della tristezza, un riso senza allegria, come quello della Sfinge, un riso freddo come il gelo e che ricordava lo spaventevole aspetto dell’ineluttabile. Era la sovrana e incomunicabile saggezza dell’eternità che scherniva la vanità della vita e i suoi sforzi. Era la foresta desolata e selvaggia del Settentrione dal cuore gelato.

    Eppure vi era la vita, da quelle parti, una vita che sfidava quella terra. Infatti, sul fiume gelato, correva faticosamente una muta di cani lupo, con l’ispida pelliccia incrostata di ghiaccio. Il loro fiato si congelava istantaneamente e ricadeva sotto forma di minuscole particelle di schiuma che si incrostavano sul pelame del petto tramutandosi in ghiaccioli. Questi cani erano bardati di cuoio e le tirelle, anche di cuoio, erano attaccate a una slitta che li seguiva. Era una slitta senza pattini, costruita con spessa corteccia di betulla, e poggiava sulla neve in tutta la sua estensione. La prua era ricurva, arrotolata in modo da poter forzare facilmente i cumuli di soffice neve che sorgevano come onde marine davanti ad essa. Sulla slitta, saldamente assicurata, vi era una cassa oblunga, lunga e stretta. Sulla coperta della slitta vi erano anche altri oggetti, un’accetta, una caffettiera, e una padella; ma quella che occupava il maggior spazio era proprio la cassa lunga e stretta.

    Davanti ai cani avanzava faticosamente un uomo con larghe racchette da neve ai piedi; dietro la poppa del veicolo seguiva un altro uomo. Sulla slitta, proprio dentro la cassa, era disteso un terzo uomo. Questo era in riposo; aveva finito di faticare; unuomo che la landa desolata aveva conquistato e abbattuto al punto da non potersi più muovere, da non poter più lottare. Le terre desolate e selvagge non amano il movimento. La vita le offende poiché la vita è movimento ed esse vogliono paralizzare qualsiasi movimento vitale. Gelano l’acqua per impedirle di correre al mare; inaridiscono la linfa degli alberi fino a gelare i loro possenti cuori e, ancor più ferocemente e spietatamente, si accaniscono contro l’uomo tentando di sottometterlo; l’uomo, l’essere dalla vita più movimentata, sempre in rivolta contro l’irrevocabile sentenza che ogni movimento debba, alla fine, concludersi con l’immobilità.

    Eppure, uno davanti all’altro dietro alla slitta, animosi e indomiti, i due uomini ancora vivi avanzavano anche se faticosamente.

    Erano vestiti di pellicce e di indumenti di morbido cuoio conciato. Le loro ciglia, le guance e le labbra erano talmente incrostate dai ghiaccioli formati dal respiro che gelava, che i loro visi quasi non si distinguevano più. Tutto ciò dava loro l’aspetto di maschere fantastiche, di becchini in un funerale di qualche fantasma in un mondo spettrale. Eppure, sotto quelle maschere, erano sempre uomini che si addentravano in quella terra di desolazione, di inganno, di silenzio, minuscoli avventurieri impaniati in un’avventura superiore alle loro forze, che si avventavano contro un mondo così remoto ed estraneo, un mondo privo di vita come gli abissi spaziali.

    Procedevano senza parlarsi, risparmiando il respiro per lo sforzo a cui erano sottoposti i loro corpi. Da ogni parte, la tangibile presenza del silenzio li opprimeva. Attanagliava le loro menti come le successive masse d’acqua opprimono il corpo del sommozzatore. Li schiacciava con il peso di una vastità senza fine e di una legge inesorabile. Penetrava nei più remoti recessi dei loro spiriti, spremendo loro, come è spremuto il succo dall’acino di uva, tutti i falsi ardori e le esaltazioni, le sproporzionate presunzioni dell’animo umano, costringendoli a sentirsi limitati e piccini, atomi e granelli di polvere, che si muovevano con scarsa abilità e poco giudizio in mezzo allo scontro equilibrato degli elementi ciechi e delle grandi forze avverse.

    Passò un’ora, poi ne passò un’altra. La pallida luce della breve giornata senza sole cominciava a illanguidire, quando un fievole ululato si udì in lontananza, nell’aria tranquilla. Eruppe con slancio improvviso fino a raggiungere la sua nota più acuta sulla quale si attardò, persistente e teso, e poi lentamente si spense. Sarebbe potuto sembrare il lamento di un’anima in pena, se non fosse stato per quella certa triste ferocia di cui era pervaso, quella famelica impazienza che lo caratterizzava.

    L’uomo che procedeva avanti volse indietro il capo finché il suo sguardo non incrociò gli occhi dell’altro; allora, attraverso la stretta bara oblunga, si scambiarono un cenno d’intesa.

    Un secondo ululato si udì, rompendo il silenzio, acuto come la punta di un ago. I due localizzarono il suono; era in qualche punto della distesa gelata che si estendeva alle loro spalle e che da poco avevano attraversata. Un terzo urlo rispose, sempre dietro, ma un po’ più a sinistra del secondo.

    «Ci sono addosso, Bill», disse quello che precedeva.

    La sua voce risuonò rauca e irreale, come se avesse parlato con evidente sforzo.

    «La carne è scarsa», rispose il compagno, «sono giorni che non si vede una traccia di coniglio.»

    Poi tacquero, benché le loro orecchie fossero attente a cogliere le grida di caccia che continuavano a elevarsi alle loro spalle.

    Al sopraggiungere della notte, i due fecero girare i cani intorno a un gruppo di abeti, sulla riva del corso d’acqua gelato e prepararono il campo. La bara, vicino al fuoco, serviva da sedile e da desco. I cani lupo, raggruppati dall’altra parte del fuoco, ringhiavano e bisticciavano tra di loro, ma era evidente che non avevano nessuna intenzione di allontanarsi nell’oscurità circostante.

    «Mi sembra, Henry, che se ne stiano piuttosto appiccicati al fuoco», commentò Bill.

    Henry, accovacciato davanti al falò, annuì mentre metteva un pezzo di ghiaccio nella caffettiera. Parlò però soltanto quando si fu seduto sulla cassa del morto ed ebbe cominciato a mangiare.

    «Sanno bene che così tengono la pelle al sicuro», disse. «Preferiscono mangiare che essere mangiati. Sono dei volponi questi cani.»

    Bill scosse il capo: «Ma! Chi lo sa!».

    Il suo compagno lo guardò con aria di curiosità: «È la prima volta che ti sento mettere in dubbio la loro furberia».

    «Henry», disse l’altro ingoiando con soddisfazione i suoi fagioli, «non hai notato come erano irrequieti mentre davo loro da mangiare?»

    «Infatti si agitavano più del solito», riconobbe Henry.

    «Quanti cani abbiamo, Henry?»

    «Sei.»

    «Be’, Henry...», Bill esitò un attimo quasi per far sì che le sue parole acquistassero un effetto maggiore. «Come ti stavo dicendo, caro Henry, noi abbiamo sei cani. Ho tratto dalla bisaccia sei pesci e ne ho dato uno a ogni cane, ebbene, Henry, mi mancava un pesce.»

    «Avrai senz’altro contato male.»

    «Noi abbiamo sei cani», ripetè l’altro pazientemente, «ho preso sei pesci e alla fine per Senzorecchio non ce n’era. Allora ho riaperto la bisaccia e gliene ho dato un altro.»

    «Ma noi ne abbiamo solo sei di cani.»

    «Henry», insistette Bill, «non voglio dire che fossero tutti cani ma erano in sette ad aspettare il pesce.»

    Henry smise per un attimo di mangiare per gettare uno sguardo oltre il falò e contare i cani.

    «Io ne vedo solo sei», disse.

    «Ho visto il settimo che si allontanava sulla neve», annunciò Bill con fredda sicurezza. «Erano proprio sette.»

    Il compagno lo guardò con aria di commiserazione e disse: «Non vedo l’ora di arrivare».

    «Che vuoi dire?», chiese Bill.

    «Voglio dire che questo carico che portiamo ti sta dando ai nervi e che cominci ad avere le traveggole.»

    «Naturalmente ci ho pensato», annuì Bill gravemente, «e, proprio per questo, quando l’ho visto fuggire sulla neve, ho notato le tracce e subito dopo ho ricontato i cani. Non c’è niente da fare, erano proprio sei. Eppoi le tracce ci sono ancora, sulla neve. Guarda pure tu. Non le vedi?»

    Henry non disse parola ma continuò a mangiare in silenzio finché, finita la sua porzione, ci si bevve su un’ultima tazza di caffè. Si pulì la bocca col dorso della mano e poi disse: «Allora pensi che fosse...».

    Fu interrotto da un ululato lungo e lamentoso, ferocemente triste, che proveniva da un punto indefinito nell’oscurità. Lo ascoltò in silenzio, poi, con un gesto della mano verso il punto da dove sembrava provenire l’ululato, continuò: «...uno di loro?».

    Bill annuì: «Eccome no! E che altro potrebbe essere! Tu stesso hai notato che chiasso hanno fatto i cani».

    Un altro ululato e poi ancora un altro. Ululati in risposta a ululati trasformarono il silenzio in un pandemonio. Da ogni parte echeggiavano ululati e i cani davano manifesti segni di terrore stringendosi l’uno all’altro e così vicini al fuoco che il loro pelame veniva bruciacchiato dalla fiamma. Bill alimentò il fuoco con un po’ di legna e poi si accese la pipa.

    «Mi sembra che tu sia un po’ abbacchiato, vero?», disse Henry.

    «Henry...», succhiò pensieroso la pipa per un istante e poi riprese: «Henry, pensavo alla maledetta fortuna che ha avuto questo in confronto a me e a te». E indicò il morto con un gesto del pollice rivolto in basso verso la bara su cui sedevano.

    «Tu e io, caro Henry, saremo davvero fortunati se avremo sulle nostre carcasse abbastanza pietre per salvarci dai lupi.»

    «Ma noi non abbiamo famiglia e denaro e tutto il resto come il signore», ribatté Henry. «Un funerale a grande distanza è proprio quello che non ci potremo mai permettere né tu né io.»

    «Quello che non riesco a capire, Henry, è il fatto che un tizio come lui, un lord o qualcosa del genere nel suo paese, che non ha mai avuto problemi per riempirsi il buzzo e scaldarsi le ossa, sia venuto a sputare l’anima proprio qui, in questo dannato paese dimenticato da Dio, ecco quello che non riesco a capire.»

    «Sarebbe potuto arrivare magari a una bella età se fosse rimasto a casa sua», annuì Henry.

    Bill aprì la bocca come se volesse parlare, ma ci ripensò. Indicò, invece, la buia muraglia che li assediava da ogni lato. Non si intravedeva nessuna distinta forma in quella completa oscurità, ma si potevano distinguere soltanto due occhi che brillavano come carboni accesi.

    Henry ne indicò con un cenno del capo un secondo paio e poi un terzo. Un cerchio di occhi scintillanti era sorto tutto intorno all’accampamento. Di tanto in tanto qualche paio di occhi si spostava, o si spegneva, per riaccendersi un attimo dopo.

    L’agitazione dei cani era, nel frattempo, cresciuta. A un tratto, presi da un improvviso terrore, si precipitarono tutti dall’altra parte del falò, strisciando e accovacciandosi tra le gambe dei due uomini. Nel parapiglia uno dei cani era finito quasi sulla fiamma. Mentre guaiva per il dolore e per la paura, una puzza di pelo bruciato si diffuse nell’aria.

    Il cerchio di occhi si agitò inquieto durante quella confusione e si ritrasse anche un po’, ma poi, non appena i cani si furono calmati, tornò a brillare come prima.

    «Henry, è una maledetta iella essere rimasti senza pallottole.»

    Bill aveva finito la pipa e stava aiutando l’amico a sistemare il giaciglio di pellicce e di coperte sui rami di abete che, prima di cena, aveva disposto sulla neve.

    Henry annuì grugnendo e cominciò a slacciarsi i mocassini.

    «Quante pallottole dici che ti sono rimaste?», domandò.

    «Tre», fu la risposta. «E vorrei che fossero trecento. Gliela farei vedere io, allora, a questi maledetti!»

    Tese irosamente il pugno chiuso verso gli occhi che scintillavano e cominciò a sistemare i propri mocassini con mano sicura davanti al fuoco.

    «E vorrei che questo freddo si calmasse un po’», continuò ancora.

    «Sono due settimane che stiamo a cinquanta sotto zero. Non vorrei aver mai cominciato questo viaggio, Henry. Non mi piace per niente come si presenta. Non mi sento troppo a mio agio, ecco. E giacché ci sono, mi piacerebbe proprio che fosse finito e che io e tu stessimo seduti accanto al fuoco come adesso, ma a

    Forte Mc Gurry, a giocare a carte, ecco quello che mi piacerebbe.»

    Henry annuì borbottando qualcosa e si infilò nel giaciglio. La voce del suo compagno lo scosse quando già cominciava a sonnecchiare.

    «Ma senti un po’, Henry, ma quello che è venuto e ha rimediato il pesce... perché i cani non gli sono saltati addosso? Ecco ciò che mi dà da pensare.»

    «Tu pensi troppo, Bill», fu l’assonnata risposta. «Una volta non eri così nervoso. Sta’ buono, adesso, e cerca di dormire sennò domani mattina sono fatti tuoi. Mi sa tanto che è l’acidità di stomaco che ti fa pensare tutte queste cose.»

    I due uomini si addormentarono e cominciarono a russare, l’uno accanto all’altro, sotto la stessa coperta.

    Il fuoco stava morendo e l’assedio di occhi scintillanti si restrinse attorno all’accampamento. I cani si accostarono l’uno all’altro in preda al terrore, ringhiando di tanto in tanto minacciosi tutte le volte che qualche paio di occhi si avvicinava troppo. Una volta il loro chiasso divenne così forte che Bill si svegliò. Uscì piano piano dal suo giaciglio per non disturbare il compagno ancora addormentato e mise altra legna al fuoco. Come questo si ravvivò, il cerchio di occhi retrocesse.

    Bill gettò uno sguardo al gruppo dei cani. Si stropicciò gli occhi e guardò con più attenzione, poi ritornò a infilarsi sotto le coperte.

    «Henry», chiamò. «Oh! Henry!»

    Henry grugnì passando dal sonno alla veglia e domandò: «Che ti piglia adesso?».

    «Niente», fu la risposta, «solo che adesso ce ne sono sette. Li ho contati proprio un momento fa.»

    Henry ricevette l’informazione con un grugnito che si trasformò in russare mentre sprofondava di nuovo nel sonno.

    La mattina dopo fu proprio Henry a svegliarsi per primo e a gettare il compagno giù dal letto. Mancavano ancora tre ore all’alba, benché fossero già le sei. Henry preparò la colazione che era ancora buio e Bill arrotolò le coperte e apprestò la slitta. A un tratto domandò: «Dimmi un po’, Henry, quanti cani dici che avevamo?».

    «Sei.»

    «Ti sbagli», proclamò Bill, trionfante.

    «Sono di nuovo sette?», domandò Henry.

    «Affatto, sono cinque. Uno se l’è squagliata.»

    «Porca miseria!», gridò Henry con rabbia smettendo di cucinare per andare a contare i cani.

    «Hai ragione, Bill, il Grasso si è squagliato.»

    «Già, è sparito come una saetta. Si è dileguato come il fumo.»

    «Non c’è niente da fare», concluse Henry. «Se lo sono mangiato vivo. Scommetto che guaiva ancora mentre scivolava lungo le gole di quei maledetti!»

    «Però è sempre stato un cane stupido», disse Bill.

    «Ma nessun cane potrebbe essere così stupido da andarsi a suicidare in quel modo.»

    Esaminò i superstiti della muta con l’occhio dell’intenditore che afferra immediatamente i particolari di ogni bestia. «Scommetto che nessun altro di loro lo farebbe.»

    «Questi non si allontanerebbero dal fuoco nemmeno a bastonate», convenne Bill. «Comunque, ho sempre pensato che il Grasso non dovesse essere molto normale.»

    E questo fu l’epitaffio di un cane morto sulla pista del Nord; e fu meno avaro dell’epitaffio di molti altri cani, o addirittura di molti uomini.

    Capitolo Due

    La lupa

    Terminata la colazione e assicurata con le cinghie di cuoio la modesta attrezzatura dell’accampamento, gli uomini volsero le spalle allo scoppiettante fuoco e si immersero nell’oscurità. Immediatamente si ricominciarono a sentire gli ululati, ferocemente tristi, ululati che erano di richiamo e di risposta attraverso le fitte tenebre. La conversazione tra i due uomini languì. L’alba spuntò alle nove. Verso mezzogiorno, dalla parte del Sud, il cielo si tinse di un tiepido rosa segnando la curva linea della terra che si frapponeva tra il sole meridiano e il Settentrione. Ma quel rosa si dileguò rapidamente. La grigia luce del giorno indugiò fino alle tre, finché anch’essa si dileguò e il funebre sudario della notte artica si adagiò sulla landa deserta e silenziosa.

    Come l’oscurità cominciò a diffondersi, gli ululati si intensificarono, a destra, a sinistra e dietro la slitta, così vicini che più di una volta suscitarono ondate di terrore tra i cani affaticati e brevi attacchi di panico.

    Non appena uno di questi attacchi si fu calmato, mentre aiutava Henry a risistemare i cani tra le tirelle, Bill disse: «Vorrei che trovassero la loro selvaggina altrove, che se ne andassero e ci lasciassero in pace».

    «Certo che danno maledettamente ai nervi», convenne Henry.

    Non parlarono più finché non fu preparato l’accampamento.

    Henry era curvo sul tegame di fagioli che bolliva e vi stava infilando un pezzo di ghiaccio, quando trasalì al rumore di un soffio e a un’esclamazione di Bill. Un rapido, ringhiante guaito didolore risuonò tra i cani subito dopo. Si alzò in tempo per scorgere un’indistinta forma sparire tra la massa delle tenebre. Poi vide Bill, in piedi tra i cani, con sul viso dipinta un’espressione tra il trionfante e l’indispettito, con un bastone in una mano e la coda, con ancora attaccato un pezzo di corpo di salmone essiccato, nell’altra.

    «Me ne ha fregato la metà», annunciò, «ma ha avuto lo stesso il fatto suo. Hai sentito come strillava?»

    «Com’era?», domandò Henry.

    «Non saprei dirlo, ma aveva quattro zampe, una bocca, una pelliccia e somigliava a un qualsiasi cane.»

    «Scommetto che deve essere un lupo addomesticato.»

    «Altro che addomesticato, venire qui proprio all’ora del pasto e prendersi la sua razione di pesce!»

    Quella notte, dopo aver cenato e quando ormai sedevano sulla cassa oblunga e aspiravano il fumo delle loro pipe, il cerchio degli occhi scintillanti si fece ancora più stretto intorno all’accampamento.

    «Vorrei che scovassero una mandria di alci o qualunque altro animale», disse Bill, «e che se ne andassero e ci lasciassero in pace.»

    Henry grugnì con un’intonazione che non era del tutto di comprensione, e per un quarto d’ora circa rimasero seduti in silenzio, Henry guardando fissamente il fuoco e Bill il cerchio di occhi che brillava nell’oscurità, poco oltre la luce delle fiamme.

    «Vorrei proprio che fossimo già arrivati a Mc Gurry a quest’ora», ricominciò.

    «E smettila con tutti i tuoi vorrei e con il tuo gracchiare», esplose Henry irosamente. «È l’acidità di stomaco, ecco quello che hai. Cacciati nel gozzo un bel cucchiaio di bicarbonato così ti addolcirai un po’ e sarai una compagnia più piacevole.»

    La mattina seguente, Henry fu destato da una sonora bestemmia proveniente dalla bocca di Bill. Si appoggiò sul gomito e guardò il suo compagno che stava in piedi tra i cani accanto al fuoco riattizzato, con le braccia alzate minacciosamente e con il viso contratto dalla collera.

    «Ehi!», chiamò Henry. «Che succede adesso?»

    «Il Ranocchio se n’è andato», venne come risposta.

    «No!»

    «Ti dico di sì.»

    Henry sgusciò fuori dalle coperte e si precipitò in mezzo ai cani. Li contò accuratamente e poi si unì al compagno nel maledire le potenze della landa selvaggia che li aveva privati di un altro cane.

    «Il Ranocchio era il più robusto della muta», disse Bill finalmente.

    «E non era neanche un cane stupido», aggiunse Henry.

    E questo fu il secondo epitaffio in due giorni.

    La colazione fu consumata malinconicamente, quindi i quattro cani rimasti furono attaccati alla slitta. La giornata non fu che una ripetizione delle precedenti. I due uomini procedevano faticosamente senza parlare attraverso la superficie di quel mondo gelato. Il profondo silenzio era rotto soltanto dagli ululati dei loro inseguitori che, invisibili, rimanevano inchiodati alla retroguardia. Col sopraggiungere della notte, a metà del pomeriggio, gli ululati risuonarono più vicini, a mano a mano che gli inseguitori, secondo il loro costume, avanzavano; e i cani divenivano sempre più eccitati e spaventati e cadevano spesso in preda a eccessi di panico che scompigliavano le tirelle e deprimevano sempre di più i due uomini.

    «Qua, questo vi farà stare al vostro posto, dannate bestiacce!», disse Bill soddisfatto quella sera, alzandosi in piedi dopo aver condotta a termine la sua opera.

    Henry interruppe la preparazione del pasto e andò a vedere. Non solo il suo compagno aveva legato i cani, ma li aveva legati alla maniera indiana, con i bastoni. Aveva fissato al collo di ogni bestia una cinghia di cuoio alla quale aveva fissato, e così prossimo al collo che il cane non ci sarebbe potuto arrivare con i denti, un bastone lungo circa un metro e mezzo. L’altra estremità del bastone era a sua volta fissata, per mezzo di un’altra cinghia di cuoio, a un palo piantato nel terreno. Il cane non era in grado di rodere la cinghia all’estremità del bastone a lui più prossima e questo gli impediva di arrivare al cuoio che tratteneva l’altra estremità.

    Henry approvò con un cenno del capo.

    «È l’unico sistema che possa trattenere Senzorecchio», disse. «È capace di rosicchiare il cuoio e di tagliarlo netto come un coltello e anche più rapidamente. Domani mattina saranno ancora qui, in piena forma e salvi.»

    «Puoi star certo che ci saranno», affermò Bill. «Se ne dovesse mancare uno giuro di rinunciare al mio caffè.»

    «Sembra che lo sappiano che non siamo in grado di dare la morte», notò Henry al momento di infilarsi nel giaciglio, indicando il cerchio scintillante che circondava l’accampamento. «Se gli potessimo piantare un paio di pallottole in corpo sarebbero più rispettosi. Ogni notte si avvicinano di più. Riparati gli occhi e guarda bene, laggiù, lo vedi quello?»

    Per qualche tempo i due uomini si divertirono a osservare i movimenti delle vaghe forme che si intravedevano ai margini della

    luce proiettata dal fuoco. Guardando con attenzione e intensamente il punto dove un paio di occhi brillavano nell’oscurità, riuscivano a poco a poco a distinguere la forma dell’animale. Talvolta, di queste forme percepivano persino i movimenti.

    Un rumore proveniente dai cani attrasse l’attenzione dei due uomini. Senzorecchio emetteva rapidi e rabbiosi guaiti e tirava l’estremità del bastone verso le tenebre, desistendo per un attimo per poi ricominciare in un frenetico tentativo di azzannarlo.

    «Guarda là, Bill», mormorò Henry.

    In piena luce, con passo obliquo, furtivamente, scivolava un animale simile a un cane. Si muoveva con un misto di sospetto e di audacia, guardando con aria di prudenza gli uomini ma con l’attenzione ferma sui cani. Senzorecchio tirava il bastone per tutta la lunghezza verso l’intruso e mugulava rabbiosamente.

    «Quello stupidone di Senzorecchio non sembra affatto spaventato», disse Bill a bassa voce.

    «È una lupa», mormorò Henry di rimando, «e questo spiega la sparizione del Grasso e del Ranocchio. Serve da esca alla muta. Attira fuori i cani e tutti gli altri saltano loro addosso e ne fanno un boccone.»

    Il fuoco crepitò. Un ramo cadde da una parte scoppiettando rumorosamente. Nell’udire quel rumore lo strano animale scivolò via e scomparve con un balzo nell’oscurità.

    «Henry», annunciò Bill, «un pensiero mi frulla per la testa.»

    «Che pensiero?»

    «Sto pensando che era proprio quello che si è presa la bastonata.»

    «Ma non c’è il minimo dubbio», fu la risposta di Henry.

    «E proprio a questo proposito c’è da osservare», continuò Bill, «che la familiarità di quella bestia

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