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Non è letteratura
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Ebook157 pages2 hours

Non è letteratura

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About this ebook

Un editore alle prese con un insolito manoscritto la cui lettura sembra sfidarlo a causa dei tanti rimandi alla sua vita personale. Seccato dai temi affrontati (amore gay, stupro, angeli, etc.), l’editore resta tuttavia intrigato dai diversi racconti narrati perché gli sembrano scritti proprio per lui. E per capire chi si cela dietro l’altisonante pseudonimo scelto dall’autore, lui va fino in fondo alla storia dove scopre che…
LanguageItaliano
PublisherAbel Books
Release dateApr 20, 2017
ISBN9788867521869
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    Non è letteratura - Franco Ruggiero

    Franco Ruggiero

    Non

    è

    letteratura

    AbelBooks

    In memoria di Ciro Esposito(Tiuski)

    Copertina: F. Ruggiero

    Elaborazione grafica: R.Veneruso & A.Vitulano

    [...] per molti autori (specialmente per i principianti) la casa editrice e il processo editoriale restano un vero mistero [...]¹

    ¹G. Davies, Book Commissioning and Acquisition, Taylor & Francis e-Library, UK, 2006, 10. (Traduzione dell’autore)

    LA VITTIMA DI GOTTI

    Dear friends, aiuto!

    Appena svegliato dopo la gran festa. Che bella che è stata! Un sogno! Ora sono a pezzi, proprio come un testo smontato, tutto da filtrare e da rimontare! Mi ci vorrà del tempo per ricompormi tutto. Ma come faccio? Ho tanto da fare! Sapete, no, che sono preso da tante ansie in questo giorno particolare. Quanti dubbi mi vengono sulla mia capacità di scoprire nuovi scrittori, Dio! Ma lo sapete che è proprio tosto leggere e scoprire i tanti segreti di un manoscritto di cui, aspettate, solo due fatti mi sono ben chiari: interessare chi legge e, cosa fondamentale, smerciare, vendere molto. In chiusura, mi e vi chiedo: in molti, tanti, forse troppi, sognano di diventare scrittori, ma davvero pochi di diventare un editore. Sarà per caso un lavoro da incubo? In mio sostegno, postate i vostri commenti. Forza!’

    Rilesse velocemente il post scritto e pensando bastasse così, lo pubblicò verso le 9 di mattina sulla sua pagina faccialibro, sicuro che sarebbe stato letto dopo pranzo o prima di cena, nell’orario di picco di presenze e di interazione dei faccialibriani. Intrecciò poi le dita delle mani, facendo roteare alternativamente i pollici e portando le braccia sul capo a intervalli regolari. Si mise a canticchiare e a fischiettare vecchi motivi, ben sapendo di perdere tempo prezioso. Ma di incominciare il suo lavoro in quella primaverile mattina di gennaio non se ne parlava proprio. Era la puntuale fase di stallo che gli capitava prima di passare all’opera.

    Si dondolava lentamente sulla sedia, con lo sguardo abbassato su un massiccio fermacarte in marmo raffigurante un bel lupo bianco dalla buffa coda rosa e con una delle zampe poggiata su una palla da rugby. Prese poi a velocizzare capricciosamente il dondolio, sfubbando una certa avversione. Non voleva proprio saperne di vedere gli inediti che avevano avuto l’ok dai vari lettori professionisti, interni e esterni della casa editrice.

    Non erano poi tanti, pensò. Forse, cinque, sei in tutto. Giacevano lì sotto i suoi occhi al centro dell’ampia scrivania del suo ufficio, uno sull’altro, affiancati dalle relative schede di valutazione. Fissò queste ultime. Le prese in mano. Esitò ancora, poi si apprestò a leggerle.

    Spaziò pigramente fra capacità di seduzione dell’incipit e la coesione narrativa di questo con il corpo dell’opera; fra giudizi di stile e di scrittura espressi, tra architetture globali dei testi e interventi di miglioramento consigliati agli autori ed editor; tra eventuali chances di pubblicazione, inserimenti nelle collane della casa e possibilità di successo editoriale.

    Constatò che era stato tutto molto ben annotato.

    Finita questa lunga operazione d’avvio, ripose le schede sulla scrivania. Chiuse forte gli occhi per fissare nella mente le informazioni lette e soprattutto i titoli che gli erano rimasti più impressi. Finita questa scaramantica fase di salvataggio, durata quasi una decina di minuti, aprì a ventaglio i manoscritti, ventilando per quelli fortunati e meritevoli l’ipotesi di pubblicarli.

    Stette a guardarli per un’altra decina di minuti con noia, come un boia stanco guarda la vittima da ammazzare o da salvare. Arrivò il tempo della scelta.

    Con gesti da rito solenne, liberò la grande scrivania da alcuni fogli sparsi, prese le sue vittime (così chiamava i manoscritti) e, con precisione da esperto piastrellista, le sistemò orizzontalmente una affianco all’altra. Le guardò bene in faccia per un po’, ripetendone più volte, esattamente quattro per ciascuna, titolo e autore. Alla fine, in base al metodo ‘AO’ tramandato in famiglia, scelse il titolo che a orecchio (AO, appunto) gli piaceva di più! In verità, quel metodo funzionava tanto, dato che la sua casa editrice, la Lucky Press, da oltre mezzo secolo non sbagliava un colpo.

    Sbarazzò la prescelta dalle compagne di ventura che finirono schiacciate sotto il pesante lupo di marmo. Fece un grande respiro. Guardò prima il soffitto color crema, poi si alzò dalla sedia e si avvicinò all’ampia finestra che dava luce a tutto l’ambiente interno. Buttò gli occhi sul bel panorama di fronte dove, splendida e brillante sotto il sole, si stagliava una cupola bizantina che gli ricordava sempre il pallone della mongolfiera su cui aveva sorvolato Parigi con la sua ex moglie e un’amica di lei, un diciannove ottobre di molti anni prima. Ritornò alla postazione di prima con aria soddisfatta, si grattò il capo e ripeté, a mo’ di presentazione televisiva, titolo e autore della vittima eletta: Stanze aperte – Fidia.

    Con la speranza di non doverla rifiutare perché non gli avrebbe detto nulla o perché potenzialmente non aveva la possibilità di farlo rientrare delle spese, iniziò a leggerla.

    ‘Un violento vulcano addormentato sorveglia una lunga via silenziosa, piantonata da una fila di salici e pini che, come fidate guardie piumate, proteggono una serie di villette a schiera, sobrie espressioni di un’edilizia tutto sommato corretta. Mi trovai a sbirciarle già da quando iniziai a passeggiare per questa via appartata, amata subito per il tanto verde presente sul lato non edificato.

    Una via che mi ha dato tanto, molto.

    C’era di buono, infatti, che ogni volta vi camminavo, la testa che viaggiava nel vuoto mi si riempiva di nuove idee e il tanfo della mia anima intorpidita veniva interamente eliminato dal vivace ossigeno che qui respiravo. Così ravvivato da questo balsamico aroma naturale, mi sentivo più carico e più pronto a combattere i wolf che la vita mi aizzava contro sussurrandomi «Crepa, ti ho messo di nuovo al buio.»

    «Quando si spengono le luci, guagliò non ti chiudere dentro. Vedi che tu, più cammini, più stai all’aria aperta e più campi meglio! E allora cammina, cammina, cammina.» Questo mi ripeteva spesso mia nonna, forse intuendo che anche a quell suo allegro e prediletto nipote gli venivano i wolf in testa.

    Wolf: In inglese, lupo. (Ho tradotto questa parola tanto per, ma tu già sai.)

    Tieni i wolf ncape, per dire, tieni i lupi ululanti in testa. Staje male, staje ‘ntussecate, stai arrabbiato o al buio, per motivi reali o misteriosi. O solo perché ‘u wolf, quanne vene, vene, e viene con la potenza del sole di ferragosto, più leggero della neve natalizia, per guastarti quante più feste può.

    Wolf.

    Un mistero. Un rancore. Un odio in cima a un’onda egoista. Un broncio su un burrone di asti e incomprensioni. Un’anima ammalata e impazzita. Tieni i wolf: stai fuori, non stai bene, fatti vedere da qualcuno.

    «Nonna, come mai zio e zia non si salutano né si frequentano più?»

    «Tengono i wolf! Può succedere a tutti, guagliò: a nonna e nipote, suocera e nuora, prete e sagrestana, drag e parrucchiere, fonico e dj, regista e attore, ministro e cittadino, studente e professore, marito e moglie, editore e scrittore, anima e corpo. Ascoltami un momento: capita spesso che ci impuntiamo sulle nostre idee e restiamo in questa posizione, a torto o a ragione, più del dovuto, sottovalutando che molte volte per trovare delle soluzioni a delle incomprensioni e per uscire dai nostri silenzi, il camminare molto può farci molto bene, ci aiuta a svelenare e ci può far vedere le cose con più chiarezza, da una diversa angolazione «E allora cammina, cammina, cammina.»

    Il camminare: eccolo il mio personale rimedio contro i wolf, forze astratte e distratte che ciclicamente si scagliano su di me, su di te, su tutti noi, oscurandoci. Anno dopo anno, passo dopo passo, compresi che questo era il mio mezzo per allontanarli e tenerli a bada, ritrovando più luce e più coraggio per meglio affrontare il quotidiano spesso cupo, bizzarro e micidiale. E allora «Cammina, cammina, cammina.» La più naturale delle funzioni umane: il moto, il camminare agilmente per trovare mezzi efficaci per annientare gas e cumuli di rabbie, prepotenze e risentimenti. E per combattere pigrizia e blocco fisico, incubatrici di crisi e altro.

    Il mio percorso vincente io lo trovai in quella via armata di alberi vigilanti. Una via non molto lontana da dove abitavo, ma mai praticata. Per la sua capacità di rinnovarmi, essa è stata per me campo fertile di battaglie e scoperte. Te la posso chiamare via Nova. (Se non ti piace il nome, puoi cambiarlo facilmente.) Diverso tempo dopo che vi compivo il mio tragitto terapeutico, mi nacque una sana curiosità di sapere chi mai potesse abitare in quelle dimore riparate dagli alberi. E a causa di una conoscenza casuale di una persona splendida, la mia curiosità venne soddisfatta.

    A dire il vero, (O è tutto falso ciò che ti dico? Di sicuro, sarà così.) durante le mie scarpinate l’avevo già intravista e incrociata diverse volte, mentre saliva su una Pallas scura e démodé. Quando anche lei mi scorgeva, sentivo che mi squadrava. Fin dall’inizio captai subito che tra noi due si innescava uno strano gioco di sguardi, un misto di piacere e attrazione, di sfida e vendetta.

    Intuivo che in qualche modo le interessavo, spiazzandomi, e che mi disprezzava pure, confondendomi. Il nero totale del suo abbigliamento e i suoi capelli biondi tirati all’indietro a coda di cavallo, fissarono via, via nei miei occhi, il bianco nobilmente eburneo dell’incarnato del suo viso. Marmo puro e indimenticabile. Era una sconosciuta incantevole. Lei invece, come poi mi disse (Sai, ci conoscemmo poi!) mi sapeva da molto tempo, già prima che io iniziassi a sfrecciare dinamicamente nella sua area.

    Un inizio di sera primaverile, mentre zigzagavo fra salici e pini, venni improvvisamente bloccato da un grande cane nero che con un salto appoggiò le sue zampe sulle mie spalle. Mi piantò i suoi occhioni in faccia e si presentò spalmandomi su una guancia la sua lingua color mortadella. Sorrisi strategicamente e avvertendo subito la sua innocuità, gli ordinai di andare giù.

    D'un tratto si senti gridare «Lapillooooo.» 

    A questo richiamo, il cane raddrizzò le orecchie e abbassò lo sguardo, forse per farsi perdonare l’improvvisa presa confidenziale datami. Abbassò le zampe a terra e invece di correre verso chi lo aveva chiamato, si accucciò fiducioso ai miei piedi. Mi stavo abbassando per accarezzarlo quando sentì una singolare voce femminile dire alle mie spalle

    «Mi dispiace molto se lo ha spaventato e ha interrotto la sua passeggiata.»

    Nel girarmi mi trovai di fronte proprio la donna della Pallas. Fu una visione che mi fece uno strano effetto. Era come se una splendida statua rinascimentale, drappeggiata di nero per motivi di censura, si fosse materializzata e mi parlasse. Fui letteralmente invaso dalla sua luminosissima aura.

    «Ciao, sono Marzia, fortuna di conoscerti.»

    Questo ‘fortuna di conoscerti’, mai sentito prima, mi procurò una risatina, ricambiata subito da un suo bianco sorriso. Mi presentai

    «Buonasera. Sono Raffaele.»

    Non ci fu nessuna stretta di mano fra noi, anche se avrei desiderato toccare la sua per un attimo, tanto che era bella. Mi guardò invitante e attraente per tre, quattro secondi, poi

    volse lo sguardo al suo amico dal pelo lucente. Restò un po’ stupita nel vederlo stare immobile e quieto dalla mia parte. Lo chiamò dolcemente e Lapillo la raggiunse mogio, mogio, temendo ordini o una sgridata. Ma lei non gli mosse nulla. Si rivolse invece a me con un’aria amichevole.

    «Continuiamo insieme a camminare o vuole procedere da solo, alla maniera di un razzo, come suo solito?»

    Che i miei frequenti passaggi fossero stati notati, cosa che immaginavo, non mi infastidì affatto, anzi, mi sentì come gratificato.

    «Volentieri! Impossibile dirle di no!»

    Così iniziammo a procedere tranquillamente. Con intervalli regolari, Lapillo si fermava ad annusare ogni dove, alzava una zampa ad angolo e innaffiava con la sua pipì qui e là. Proprio pensando al nome del cane, le chiesi il come mai di questa scelta e se avesse un qualche significato.

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