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Quindici minuti di ritardo
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Quindici minuti di ritardo

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About this ebook

Daniele, un quasi-quarantenne romagnolo doc, per raggiungere l’ufficio in cui lavora sale su un treno che porta quindici minuti di ritardo fissi. Ogni mattina. Inesorabilmente. Ma è la sua vita a essere un fuori-tempo-massimo continuo. Le donne? Il suo ideale è: ognuno a casa sua e zero problemi. Daniele ne ha avuti già abbastanza. Ma su quel treno, proprio il giorno in cui passa il varco dei quaranta, lo aspetta una sorpresa clamorosa: Perla.
Quindici anni prima, lui e quella bella mora si erano conosciuti, piaciuti e frequentati. Finché Perla non era sparita all’improvviso, e non era servito proprio a niente cercarla in lungo e in largo tra riviera ed entroterra. Ma ora che lei si è rimaterializzata, Daniele scopre che è una donna assai diversa dalla ragazza timida e idealista di una volta. È ancora troppo bella, ma è diventata troppo misteriosa e sembra, soprattutto, troppo disinibita…
In una provincia romagnola irrequieta e vibrante, le avventure, le passioni, i sogni e le devianze di una generazione di trenta-quarantenni piena di voglia di vivere.
LanguageItaliano
Publishermarcomaltoni
Release dateApr 24, 2017
ISBN9788826078274
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    Quindici minuti di ritardo - Marco Maltoni

    Quindici minuti di ritardo

    Marco Maltoni

    Indice

    Baggio, Pitutin e la pantera di Montebello

    Perla

    Incontri ravvicinati del terzo binario

    Danielino, Karate Kid e il Tony Montana di Bagnacavallo

    Risposte che fanno Maalox

    Una Vera scoperta

    La soldatessa alle grandi manovre

    Tranqui… tutto ok

    Il bulbo atrofizzato

    Fausto, Don Natale e i Village People

    Perla miseria!

    Thomas, il conte Mascetti e la signorina Rottermaier

    Piero e le camioniste

    L’ecosistema del Kaos

    Busta regalo

    Una Dea al Pantheon

    Una Vera sconfitta

    Ritorno alle origini (Tugnaz, Ciutur, Badil e il 70 della Polini)

    Congedo

    Il postulato thomasiano e il salvavita

    Lunga vita al lupo, al suo pelo e ai suoi vizi

    La dolce Cinzia

    Il commando di Piazza Cavour

    Inquietanti rivelazioni

    Sei uno stronzo!

    Gioia e la pistola fumante

    Ore 21.01, via Buonarroti 18, interno 5

    Due bravi ragazzi

    Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi

    Una lacrima sul viso

    Ho visto la luce

    Pluff!

    Epilogo

    Ringraziamenti

    L’autore

    QUINDICI MINUTI DI RITARDO

    © 2017 Marco Maltoni

    Tutti i diritti riservati. Il testo di questo libro elettronico non può essere riprodotto, adattato, trasferito, distribuito, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo, né in tutto né in parte, senza l’esplicito consenso dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo costituisce una violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Se stai leggendo questo eBook e non l’hai acquistato o non è stato acquistato per il tuo uso personale, per favore, acquistane una copia. Ti preghiamo di non usufruire della pirateria digitale e di non incoraggiarla. Grazie!

    Copertina: Valentina Marinacci

    Scrittura a tutto tondo www.scritturaatuttotondo.it

    Vivere è una cosa troppo importante per poterne parlare seriamente.

    Oscar Wilde

    Baggio, Pitutin e la pantera di Montebello

    Anche oggi su questo maledetto treno, che è sempre maledettamente in ritardo. Che rabbia nel pensare a quanto tempo spreco, seduto su un seggiolino sporco di una carrozza fatiscente o attaccato al ferro di un tram pieno di batteri. Costretto a respirare lo sdolcinato profumo delle babbione mescolato alle esalazioni dei ragazzini nel pieno delle loro rivoluzioni ormonali. E pensare che la vita è così breve. E io quanta, di quella migliore, butto via ogni giorno affrontando il tragitto fra un dovere e l’altro. Qui, poi, non c’è la raccolta differenziata: una volta buttata, non la puoi riciclare.

    Oggi è pure il mio compleanno. Il quarantesimo. Cazzo! Che effetto mi fa dire quaranta. Perché ci sono arrivato così in fretta? Manco me ne sono accorto. Mi sento come quando arrivi a un incrocio e guardi da una parte la strada che hai già percorso, dall’altra quella che hai ancora da fare. Più o meno è la stessa, ma temi che in questo cammino siano già stati esplorati i paesaggi più belli e le città più misteriose. Resta un itinerario che non sai quanto sarà lungo, ma sai per certo che dovrai affrontarlo con gli ammortizzatori un po’ sgonfi, il motore che avrà sempre più bisogno di manutenzione e col climatizzatore che, pian piano, renderà sempre meno.

    Ho scollinato e ho iniziato la discesa verso quell’inquietante traguardo dove nessuno mi aspetterà per premiarmi con una coppa o una corona d’alloro, ma al massimo con una corona di fiori su cui svetterà un bel nastro con la scritta gli ex colleghi.

    I quarant’anni sono uno spartiacque decisivo. Lo dimostra il fatto che i medici li considerano una soglia oltre la quale cominciare a fare controlli preventivi a organi e tubazioni interne. È brutto quando, dopo aver affermato di avere un dolore al petto, tutt’a un tratto ti senti dire: Vai a farti controllare perché potrebbe essere un infarto. Ma come! Se fino a ieri mi avete sempre detto di stare tranquillo perché erano dolori intercostali. È fastidioso quando cominci a pensare che hai un’età in cui delle fitte alla pancia potrebbero essere i prodromi di qualcosa di brutto anziché una colite da overdose di fagioli: Hai quarant’anni? Hai mai fatto una colonscopia? Sai, conoscevo uno della tua età che aveva quei dolorini lì e poi in due e due quattro….

    Ma la situazione veramente spiazzante si presenta quando, sentendoti ancora un ventenne, ti accorgi che i ventenni ti danno del lei. L’altro giorno, nella guerra quotidiana per salire sul tram, una ragazzina mi ha pestato un piede e ha detto: Scusi, signore. Signore?! Ci mancava che mi lasciasse il posto a sedere. Poi ho fatto una botta di conti molto semplice e mi sono reso conto che avrebbe potuto essere mia figlia, se quell’angosciante ritardo del 1994 non fosse stato solo un ritardo. Già, il ’94, quando perdemmo la finale dei mondiali ai rigori, con Baggio che sparò il suo alto sopra la traversa. Ma possibile che siano già passati più di vent’anni?

    Spesso ripenso a quand’ero ragazzino, con i miei dubbi, le mie paure e le mie insicurezze, con le mie strazianti e totalizzanti sofferenze amorose. E sorrido dell’idea che avevo del mondo degli adulti. Guardavo i miei genitori e pensavo che loro fossero immuni da tutto questo e che, quando sarei diventato grande, i timori e le incertezze non sarebbero più esistiti.

    Invece non è così. A essi si sommano pure le responsabilità. E quando sei deluso, non puoi più chiuderti nella tua cameretta e straziarti con una cassetta di Baglioni al canto di passerotto non andare via. E non puoi uscire qualche giorno dopo, con il walk-man appeso alla cintura e la cassetta di Vasco inserita, gridando la mia vita non la cambio più per nessuno e per niente!. Sarebbe bello poterlo ancora fare, con la minestra sempre in tavola, la paghetta settimanale garantita e Happy days alle sette di sera. Adesso invece sono sempre lì, a fare manovre finanziarie fra rate, tasse, affitto, tagli, spese fisse.

    Che ci posso fare se quando guardo un film in HD rimpiango il cinema Verdi di Forlimpopoli, i lupini lanciati dalla galleria, le gassose con la cannuccia, le limonate con le ragazzine appena si spegnevano le luci, e Pitutin che arrivava con la torcia e diceva: Silenzio, che vi mando fuori!.

    Che ci posso fare se quando guardo lo smartphone ho nostalgia di quelle cabine insonorizzate dei bar dove c’era una terribile puzza di fumo e dove infilavo il gettone, prendevo fiato e facevo il numero sperando che rispondesse la mia lei. Invece beccavo sempre suo padre che immancabilmente chiedeva: Chi sei? E di chi sei il figlio?.

    Quant’era bello essere in giro e irreperibili, liberi finché non si tornava a casa. Senza quell’aggeggio che ogni tanto mi vibra nella tasca e che, se lo tiro fuori oggi, mi ricorda che ho quarant’anni…


    Per difendermi da questi pensieri deprimenti mi abbandono alla mia pratica preferita: creare personaggi dalle persone che ho intorno. Partire dalla loro apparente normalità per inventare maschere, a volte grottesche, che permettano alla mia mente di svagarsi.

    Fin da piccolo ho mostrato una discreta attitudine per la creazione e l’interpretazione di personaggi. A casa allestivo dei piccoli palcoscenici coi cuscini del divano e mettevo in scena parodie dei miei famigliari o dei vicini. A volte erano degli autentici musical di una decina di minuti. Quando arrivavano i parenti o gli amici mi veniva chiesta, regolarmente, una replica da parte di mio padre. Mia madre, invece, timorosa che qualcuno potesse offendersi, cercava di dissuadermi. Invano. L’autorità del capofamiglia aveva quasi sempre la meglio.

    Ecco, quel tizio che sta guardando un grafico sul bilancio del suo pacchetto clienti cerca di darsi un tono nel suo costume da professionista modello, ma il bavero della camicia, un po’ stropicciato, stamattina se l’è stirato sicuramente da solo. Probabilmente sua moglie sarà sulla rampa di lancio di una brillante carriera e non potrà sottrarle troppo tempo proprio adesso che è il momento di tirare. Questa sera ordinerà due pizze a domicilio perché le priorità sono altre e i compiti vanno equamente distribuiti. No, lei non lo cura, altrimenti gli avrebbe impedito di mettersi quel calzino corto. Sento quasi un sentimento di compassione nei suoi confronti pensando a come sia costretto a tenere quella cravatta stretta attorno al collo. La vedo come la metafora del cappio in cui la vita l’ha costretto a infilare la testa, obbligandolo a fare l’equilibrista su un minuscolo panchetto. Se dovesse cadere, verrebbe inesorabilmente strozzato dal suo stesso peso. Mi sento fortunato; in fondo, in estate, per combattere la calura, io posso andare al lavoro con una maglietta e un paio di bermuda. Per un istante mi sento solidale con lui, ma è solo un istante. La vista dei quotidiani che legge, e che sono appoggiati sulla borsa del suo aggiornatissimo tablet, mi allontanano da lui trasformandomi in un asettico giustiziere. Ti sta bene così.

    Sul seggiolino di fianco, due file più avanti, c’è la pantera di Montebello. La chiamo così perché una mattina ha parcheggiato di fianco a me e, quando sono sceso dall’auto, ho notato sul suo sedile una brochure sulla rocca di Montebello accanto alla scatola di un completino intimo di Eros Veneziani. È chiaro che non potevo rimanere insensibile a un tale abbinamento. Il ricordo di Azzurrina, il fantasma che secondo la leggenda vive nella fortezza di Montebello, abbinato allo stilista più presente nei sexy shop, mi induce inesorabilmente a costruire un personaggio piuttosto noir.

    La guardo girarsi nervosamente la fede sull’anulare mentre sfoglia una rivista di gossip. Oggi ha un vestitino davvero provocante, stivali con un tacco affilato, e immagino che sotto quel tubino non indossi nulla. Ho saputo da voci di corridoio, anzi di vagone, che è una funzionaria del Ministero delle Finanze. Nella pausa pranzo si vedrà con uno dei suoi sottoposti che legherà alla sedia della scrivania e possiederà con violenza. E infine, fra insulti e umiliazioni, lo obbligherà a leccare quegli stivali lucidi e neri.

    Passiamo a quella mora di spalle, seduta di fronte alla Dottoressa Pantera. Lo stivale è piuttosto sobrio anche se il tacco sarà almeno un otto. Associato a quella gonna sopra al ginocchio mi procura un senso di educata sensualità. Un maglioncino nero attillato esalta un seno molto prorompente, tanto che riesco a notarlo pur essendole quasi di spalle.

    Comincio già a immaginare le caratteristiche del personaggio quando il mio film viene interrotto dalla voce graffiante di Mrs. Montebello:

    Scusi… ma quella è la programmazione del Teatro Bonci?.

    Sì. Vuole darci un’occhiata?

    Grazie. Anche lei appassionata di teatro?

    Sì, è una vecchia passione. Una volta recitavo, ora mi limito a osservare gli altri.

    L’iPod mi cade in terra con un tonfo sordo. Fingo spesso di ascoltare la musica quando voglio rubare i dialoghi delle persone senza che si sentano inibite dalla mia presenza. Mrs Pantera interrompe il discorso e si gira verso di me. Io mi affretto a raccogliere l’aggeggio e nella foga, spingendo accidentalmente play, faccio partire a manetta il riff di Stone cold crazy dei Queen. Cercando il tasto stop in quel touch screen maledetto mi perdo probabilmente l’attimo in cui anche la misteriosa dark lady si gira a guardarmi, e quando rialzo lo sguardo è già rivolta verso la nuova conoscente.

    Sono confuso e ho le mani fredde. Quelle parole mi hanno gelato. Se è vero che tre indizi fanno una prova, io ce li ho già. Una voce molto simile, la passione per la recitazione e una quinta di reggiseno. È lei. È Perla. L’ho cercata ininterrottamente in questi quindici anni, ho frequentato le zone dove viveva, le compagnie dove aveva recitato, ma era scomparsa nel nulla. Gli ultimi anni ho digitato continuamente il suo nome e cognome sulla barra di ricerca di Facebook, ma non l’ho mai trovata. Tanto che mi ero quasi convinto fosse stata solamente un prodotto della mia fantasia; uno di quei personaggi creati dalla mia mente malata.

    Perla

    L’avevo vista per la prima volta a un casting, anche se allora si chiamavano provini. In quel periodo, oltre a recitare parti impegnate in una compagnia teatrale di Forlì, mi dilettavo nella scrittura di testi di cabaret che, tranne il mio gatto, nessuno aveva avuto il piacere di ascoltare. Non trovavo il coraggio di tirarli fuori, come se fossero l’espressione di una parte nascosta di me, di cui mi vergognavo.

    Il provino si teneva a Bologna e serviva a scegliere alcuni interpreti per una fiction, anzi uno sceneggiato televisivo. Mi ero preparato vari testi classici e, nella sala d’attesa, me li ripassavo nella mente in attesa che chiamassero il mio nome.

    Rocchi Daniele e Raggi Perla… ci sono?

    Per fare prima ci testavano due alla volta, seguendo l’ordine alfabetico. Ci mancava solo che ci guardassero i denti ed eravamo al mercato delle vacche.

    Alzai la mano e mi diressi verso la porta della sala prove tentando di capire chi fosse attaccato a quel braccio sollevato che cercava di farsi spazio fra la folla. Ero curioso di vedere che faccia potesse avere una che si chiamava Perla. Il mio atavico pessimismo mi spingeva a credere che mi sarebbe apparsa una ragazza alla quale i genitori avevano affibbiato il peso di un nome capace di sottolineare, in eterno, l’antitesi con l’aspetto della sua proprietaria.

    E invece, vidi che i ragazzi si aprivano come il Mar Rosso di fronte a Mosè e mi resi conto che quel nome era a dir poco riduttivo. Se tutte le Perle fossero state così avrei fatto decisamente il pescatore di ostriche. Le mie due personalità iniziarono a spintonarsi. Quella romantica era già innamorata di quegli occhi neri. Quella maiala aveva la bava alla bocca al pensiero di sprofondare fra quelle tettone sode. A ogni modo su un punto fondamentale erano d’accordo: entrambe se la sarebbero fatta.

    Come entrammo ci fecero una specie di breve interrogatorio su cosa ci piaceva e sul perché fossimo lì. Le solite banalità. Poi ci chiesero di interpretare la scena di un corteggiamento. Altro che recitare i classici. Ci consegnarono un foglio con un paio di battute e la mia musa, dopo averlo sbirciato, alzò gli occhi e con un sorriso sarcastico mi fece:

    Fortuna che sono una persona ironica… questo copione fa davvero ridere.

    Ero già cotto. Sentire la sua voce flautata uscire da quelle labbra carnose e venire verso di me mi fece scattare la molla.

    Era venuto il momento di farmi valere, pensai. Tanto non mi avrebbero mai preso a quel casting. Sarebbero arrivati i soliti raccomandati. E così, quando lei mi diede la prima battuta, mi preparai a sorprenderla. Del resto l’improvvisazione è sempre stata il mio forte.

    Ciao! Io mi chiamo Caterina e frequento il terzo anno di Filosofia anche se sono un po’ fuori corso… e tu?

    Io mi chiamo… Rodolfo Fabbroni, frequento il Bar Piccadilly e sono fuori e basta.

    Lei si bloccò. Sorpresa dal cambio di copione alzò lo sguardo come per dire qualcosa, poi con un leggero sorriso lo riabbassò e mi diede la seconda battuta.

    Ma cosa faresti per convincermi a venire a cena con te?

    Ti lascerei una settimana senza mangiare!

    A questo punto scoppiò in una risata e guardò la giuria per capire cosa doveva fare. Io non avevo il coraggio di girarmi, temendo che si stessero preparando a prendermi a calci. Ma chi se ne importava. Il mio obiettivo l’avevo già raggiunto: l’avevo fatta ridere.

    Nessuno si muoveva né commentava, così lei decise di seguirmi fuori dallo steccato:

    Ma poi mangerei troppo e se mi dovessi offrire la cena ti costerei un sacco.

    Frena, Daniele, non esagerare! – mi dissi. Sì, le sei piaciuto, ma frena. Lo sentivo, mi stavo facendo prendere.

    Lo so, ma visto che la tua visione mi procura immediatamente un potente flusso sanguigno all’interno dei corpi cavernosi con una pressione di almeno 4 bar, ritengo che gli analisti possano approvare il rischio di un investimento che, sono sicuro, darà buoni frutti. E i due cucumis melo che vedo alla base delle tue clavicole sono già belli maturi.

    Il capoccia della commissione giudicante si alzò e con un tono fra l’infastidito e il divertito ci congedò:

    Ok, siete simpatici… e se non vi siete messi d’accordo prima, anche bravi a improvvisare. Ma gli attori devono seguire i copioni. Grazie, vi faremo sapere.

    Oddio! – pensai. E se adesso, appena usciti dalla porta, lei mi insulta per averle rovinato il provino? Meglio anticiparla.

    Scusami! Davvero… non so cosa mi è preso… sono un cazzone. Ti ho rovinato il provino e bruciato l’occasione.

    Non ti preoccupare rispose lei. Sei stato divertentissimo e mi hai salvata da quella patetica e banale scenetta che ci avevano affibbiato.

    Non ci potevo credere. Avevo tentato la giocata di tacco e la palla era andata nell’angolino. Culo e talento. Ci vogliono quelli nella vita. Ovvio che a quel punto bisognava tenere in mano il gioco e far girare la palla, per cui l’invito a pranzare insieme scattò automatico.

    Visto che è quasi l’una e l’agitazione del provino ha accelerato il mio metabolismo, che ne dici se mangiassimo qualcosa assieme?

    A dire il vero mi aspetterebbe…

    Chi c’era che l’aspettava? Ero convinto che mi avrebbe detto di dover pranzare col suo ragazzo di cui era follemente innamorata e che avrebbe sposato a breve.

    Mi aspetterebbe mia madre, ma posso chiamarla e dirle che pranzo fuori. Dove mi porti?

    Sì! Ti porterei anche in America, diceva Vasco. Ma il problema era che avevo sì e no quindicimila lire nel portafogli e rischiavo la figura del barbone.

    Fortunatamente a quei tempi il McDonald’s era ancora una novità e i no global andavano alle elementari, e mi potevo giocare quella carta senza passare per morto di fame o sostenitore dell’imperialismo americano.

    Infatti, Perla accettò di buon grado la proposta fast food e tocciando le nostre patatine nella stessa vaschetta di ketchup trovammo la nostra prima intimità. Mi raccontò che si era iscritta al primo anno di legge e che voleva laurearsi in fretta per potersi trovare un lavoro e fare dei figli. Quel discorso mi fece tornare il sospetto che potesse avere un fidanzato e colsi l’occasione per chiederle senza mezzi termini:

    Visto che parli già di figli, immagino tu disponga della materia prima con cui farli. Hai un ragazzo?.

    Sì, ce l’ho, da tre anni. E quindi stiamo cominciando a progettare il futuro… e tu, Daniele, invece?

    Idem… anch’io ho la ragazza da tre anni. Che coincidenza.

    Ebbi la conferma che aspettavo. Non sapevo se esserne contento o dispiaciuto. In fondo anch’io ero fidanzato, e il fatto che fossimo sulla stessa barca poteva comportare meno rischi e meno pressioni. Se fosse successo qualcosa fra noi avrebbe dovuto rimanere un segreto e di certo lei non sarebbe andata a sbandierarlo in giro, a meno che la sua storia non fosse già giunta al capolinea. Il fatto che avesse affermato di progettare il futuro non era una prova del contrario. In fondo anch’io stavo per andare a convivere senza sapere realmente il perché.

    Cercai di indagare un po’ più a fondo:

    Quindi sei ancora innamorata del tuo ragazzo… insomma, lo ami?.

    Sì. Ha un sacco di difetti, ma lo amo. E la tua ragazza, invece?

    Non ha nessun difetto… ma non penso di amarla.

    Ma allora perché ci stai, se non sei sicuro di amarla?

    Perché non ha difetti. Quindi, se la lascio, fra tre anni sarò allo stesso punto con un’altra che, magari, è piena di difetti.

    Ma che dici? Fra tre anni? Che vuol dire?

    Sì. Oramai è dimostrato che l’amore dura tre anni…

    Ma che stronzata è questa? ribatté inalberandosi. L’amore vero dura in eterno.

    Eccoci lì. Eravamo già su due barricate opposte. La sognatrice idealista dell’amore eterno e il realista disilluso, sostenitore dell’inevitabile brevità della passione e quindi dell’amore.

    Se le cose stavano così, sarebbe stato davvero difficile farla cadere fra le mie braccia. Non sembrava di certo una trombatrice occasionale. Avrei dovuto farla innamorare ma questo avrebbe significato farla soffrire, e non era quello che volevo.

    Non ero un santo. A quei tempi amavo sedurre le belle ragazze e subivo facilmente il fascino femminile, ma non ero e non sono mai stato uno che provava gratificazione nel prenderle in giro.

    Tuttavia questo nostro essere all’opposto creava una certa reciproca curiosità. La voglia di scoprirci e di lasciarsi scoprire.


    Cominciammo così a vederci sempre più spesso e il fatto che, dopo un paio di mesi, la nostra amicizia rimanesse ancora un segreto per i nostri partner era forse il sintomo che ci figuravamo come qualcosa in più di due semplici amici.

    Stavamo bene assieme. Avevamo la grande passione per il teatro sulla quale ci trovavamo a meraviglia, e allo stesso tempo ci scontravamo ripetutamente per la mia visione cinica e realista della vita contrapposta al suo integralismo idealista.

    In un giorno di marzo, durante una delle nostre discussioni su una panchina del parco, improvvisamente sentii la sua voce sfumare e dissolversi. Vedevo solo le sue mani gesticolare e la sua splendida bocca muoversi in un modo talmente dolce e sensuale che fui investito da un irrefrenabile desiderio di baciarla. Senza nemmeno darle il tempo di rendersi conto delle mie intenzioni mi diressi fulmineo verso le sue labbra e in un attimo fui travolto da una splendida sensazione di soave morbidezza. Mentre le nostre lingue si cercavano, tutti i meridiani del mio corpo erano congestionati da un traffico di energia che nemmeno il grande raccordo anulare nell’ora di punta.

    Come ci staccammo rimanemmo a guardarci senza dire niente. Ci trovammo in quegli istanti di silenzio che sembrano lunghissimi, in cui pensi a qualcosa da dire ma l’unica cosa che ti monopolizza il cervello è il desiderio di rifare subito quello che hai appena fatto.

    E così facemmo ancora, e poi ancora. Sempre senza dire una parola.

    Ci lasciammo con un bacio leggero e un ci sentiamo domani.

    Fu difficile tornare a casa e fare finta di nulla. Qualcosa era cambiato dentro di me, e non era un semplice rimescolamento ormonale.

    Il giorno successivo le mandai un messaggio di buongiorno. Non mi rispose e aspettai con ansia l’orario in cui sapevo che avrebbe finito le lezioni all’università per chiamarla.

    Con un atteggiamento molto serioso mi comunicò che aveva chiuso col suo ragazzo perché dopo quello che era successo fra noi non poteva fare finta di nulla e continuare a vivere in una storia mutilata e ferita a morte dal nostro bacio.

    Non sapevo se esserne

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