Akram Salim, come il Dio...
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Il giovane sudanese si confronta ben presto con una realtà che poco ha a che vedere coi suoi sogni, ma non dispera e si adatta a condizioni di lavoro disperate pur di riscattare la moglie e il figlio che deve nascere.
Una storia appassionante, agrodolce.
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Akram Salim, come il Dio... - Sabrina Guglielmi
12.
Prima parte
1
L’orizzonte è rosso sopra una distesa di niente che rappresenta il tutto; il terzo in tre giorni, è così da tanto tempo, l’ennesima madre senza lacrime che trova per suo figlio nella morte il sollievo alla vita.
Una baracca tra tante baracche, una donna tra tante altre, uomini e bambini che come unico gioco dell’infanzia hanno il furto di un giorno di vita in più; Halima terzogenita di dieci figli non si arrende e neppure il suo sventurato esserino che vuole affacciarsi in questo niente, così coraggiosamente decide con Nabil di tentare l’impossibile.
Per quanto grande e preziosa sia l’esistenza, in quella miseria perde di ogni bellezza; inizia così il pellegrinaggio ai parenti in cerca del poco e niente che gli possano offrire per racimolare quel tanto per comprarsi la speranza, una colletta fatta da chi ha niente a favore di chi non possiede niente altro che una coraggiosa speranza.
Un agnello, pochi dollari, tre pecore, alcune pellicce di animali, un po’ di avorio, tutto venduto ai mercanti per arrivare solo a metà della somma necessaria per tentare l’espatrio verso il futuro.
Si fanno forti davanti alla paura tenendosi per mano e in un’alba scura inizia questa storia…
Insieme con altri tre indigeni si trovano tra la polvere ad attendere il traghettatore che li condurrà di girone in girone e la vita scivola da inferno a inferno; nel silenzio dei loro sottomessi sguardi Caronte tende la mano in attesa del pagamento anticipato, il suo sguardo è l’unica cosa gelida nell’inferno di Halima e Nabil che con un gesto fulmineo cedono parte dei loro averi nel timore che possano essere posseduti dall’esitazione.
Il rumore assordante e strampalato del carro è come un lamento per l’abbandono delle proprie radici; vanno avanti così strattonati dall’accidentato sterrato che conduce nel buio futuro.
Nel carro trainato da due denutriti somari oltre a loro altri sei, due pecore, tappeti e stracci colorati.
Scendono tutti dopo tre ore percorse lungo strade che scorrono così come il Nilo, tra file di precarie catapecchie, zone coltivate rese magicamente verdi dal tocco del fiume, terra, polvere e volti indifferenti.
Arrivati alla prima tappa come pacchi vengono spinti su un autocarro che trasborda di merce umana, tutti con lo stesso vuoto negli occhi, il vuoto che provoca la paura dell’ignoto; pupille sbarrate che a ogni rumore sobbalzano.
Tre uomini armati indossano occhiali scuri sotto cappelli con visiera e una sciarpa indossata come un soggolo che parzialmente ricopre anche il viso; esperti nell’incutere timore tengono sotto controllo tutto e tutti e nel balzano circo si addentrano verso una terra arida e avida di vita.
Pian piano solo un colore domina, solo una luce che toglie la vista e quel colore e quella luce diviene nelle orecchie un rintronante silenzio.
Improvvisamente vengono fatti scendere, vengono divisi in uomini e donne, Halima proprio non ce la fa a separarsi e rimane l’unica a non aver obbedito, quindi uno degli accompagnatori la afferra per un braccio e la solleva come se fosse foglia, mentre Nabil cerca di proteggerla e per l’appunto il repentino calcio del fucile lo colpisce in volto facendolo sanguinare.
Quello che sembra essere il capo con toni asciutti invita tutti a presentarsi reclamando il saldo del viaggio; uno a uno si presentano lasciando i documenti e pagando la somma dovuta.
Ancora una volta vengono divisi in due gruppi, tra quelli che avevano tutta la somma e quelli che come Halima e Nabil ne avevano solo una parte.
Il viaggio riprende e Nabil capisce che le loro vite sono nelle mani di gente senza pietà, una donna accanto a loro al sesto mese di gravidanza viene malmenata senza nessun ritegno, proprio come si tratta una pecora, le hanno dato un calcio nel culo per farla salire.
Il viaggio nel deserto sembra non finire mai e dentro l’autocarro, la temperatura arriva a quaranta gradi, la gente comincia a sentirsi male e un ragazzo più debilitato di altri implora acqua, ma questo non viene minimamente preso in considerazione anzi in cambio riceve un ammonimento poiché il fermarsi prolungherebbe ancora di più il cammino e diverrebbe ancora più caldo.
Dopo un’ora il ragazzo stramazza a terra, solo a quel punto l’autocarro rallenta, mentre uno degli accompagnatori cerca inutilmente di rianimarlo; con sollievo gli tolgono quanto altro avesse addosso, dopodiché lo prendono e senza remore lo lanciano fuori dal mezzo che imperterrito continua la sua strada; quel giovane ragazzo rimane seminudo e diviene solo un puntino più scuro tra le dune e presto ne viene inghiottito; il silenzio e il vuoto del deserto entra nelle loro anime e in esso si accartocciano come carte sporche.
Il sole adesso occupa l’intero cielo e non c’è il suo azzurro ma solo una luce polverosa, tra la polvere si intravede come un miraggio, un’oasi di poche palme, delle baracche e tende beduine, dove i cammelli ruminano qua e là dei rinsecchiti fili d’erba; con sollievo di tutti l’autocarro si ferma e finalmente sembra tornare aria nei polmoni che se pur bruciante rianima.
Ancora divisi vengono alloggiati nelle baracche, dove trovano già altre persone, circa una decina, nei loro occhi passa un velo di rassegnazione alla loro vista, come a un desiderio non esaudito.
Qualche dattero e un po’ d’acqua niente di più in attesa che cali il sole; il cielo si incupisce e nelle baracche filtra una aria sibilante che porta con sé un odore strano, fuori c’è un altro autocarro che viene acceso mentre altri uomini richiamano tutti all’esterno.
Halima e Nabil sperano di salire sul carro, ma con sorpresa salgono solo quelli che hanno saldato il conto, allora Nabil con tutto il coraggio rimasto si avvicina chiedendo al capo spiegazioni e questo gli si rivolge in tono ardito: Hai i soldi che mancano?
No.
E c’è chi te li può procurare?
No.
Allora te ne torni a casa a piedi!
Ma come facciamo io e mia moglie?
Chi è tua moglie?
È Halima, è lei!
Indicandola.
L’uomo la scruta con attenzione, la fa girare su se stessa poi continua: Non è un mio problema
.
Ma vi prego!
Hai un parente che ti possa pagare quello che manca?
Ci hanno già dato quello che potevano…
Se vuoi una soluzione, ci sarebbe.
Quale?
Stai attento però, con noi non si scherza, io ti imbarco comunque, noi ci preoccupiamo di farti arrivare in Italia e di trovarti una occupazione; quello che guadagni lo tratteniamo noi finché non raggiungi la somma necessaria per far arrivare anche tua moglie in Italia.
E quanto tempo sarà necessario?
Bah chi può dirlo, dipende da quanto riesci a lavorare, quattro, cinque, otto settimane circa.
E di mia moglie che ne sarà?
Aspetterà qui, però la ospiteremo per un massimo di quattro mesi circa, quindi ti devi dar da fare…
Nabil rimane per un attimo senza parole, poi si guarda attorno, c’è solo il deserto, ricorda quel granello scuro del ragazzo abbandonato e non può far altro che accettare, un ultimo abbraccio con Halima che in quel distacco è ridursi in brandelli l’anima.
Tre, quattro ore di cammino accidentato e arriva l’alba e nel chiarore si intravedono i bordi di una grande città pregna d’Africa; una baracca abbandonata, con taniche di acqua scura e una montagna di fagotti lasciati ammassati sulla parete, tutto attorno sporcizia, resti di un passaggio recente; vengono vomitati dal carro e come ovini subito rimessi nella stalla, celati agli occhi del mondo.
Lì, con poco cibo e acqua putrida rimangono in attesa di nuove mete, Nabil nell’angolo buio di quella stalla prega tutti gli dei e a tutti si raccomanda nella salvezza propria e di Halima, con sguardo fugace osserva gli altri avventori che hanno gli stessi suoi occhi, lo stesso volto, tutti figli della stessa miseria.
Tutti giovani uomini che attraverso la fessura della porta cercano di capire dove si trovano, ma la città all’orizzonte ha un volto anonimo, attraversare un buio deserto e ritrovarsi come sepolti ai margini di quella che nel nulla appena attraversato sembra una metropoli, mentre la canicola trasporta echi lontani di lingue sconosciute e strani odori, Nabil si avvicina al guardiano vicino alla porta e chiede: Dove siamo?
A che ti serve sapere?
Vorrei capire se ho dei parenti qua.
Marsa al Burayqah.
Sconsolato abbassa lo sguardo consapevole che neppure lì c’è nessuno che può aiutare la sua Halima.
Arriva la sera e come una processione arrivano altri strani taxi, tipo pulmini che li trasportano a gruppi di quindici e anche Nabil vi sale per una nuova meta.
A intervalli regolari partono tutti i dieci taxi percorrendo una strada costiera e l’azzurro del mare all’orizzonte sembra ridare speranza a Nabil, le sfumature cromatiche donano al paesaggio un aspetto magico.
Il disagiato viaggio mette a dura prova le anime già stremate e i sintomi di febbre e dissenteria ne decima parecchi; così che il precario riparo costituito da un rudere risalente alla Seconda guerra mondiale diviene ancor più invivibile e quelli che non ce la fanno svaniscono come mai esistiti.
Altri però si aggiungono da altre carovane e il gruppo comunque aumenta a dismisura.
Sono tutti accalcati come bestie al macello, la sorveglianza si fa più stretta e tesa nell’attesa del momento propizio che arriva in una notte buia; tutti vengono portati su una anonima spiaggia disseminata di sporcizia e grandi bidoni arrugginiti trivellati da colpi d’arma da fuoco.
Con un gommone vengono traghettati verso un vecchio peschereccio, che nel buio della notte e del mare non si nota se non quando ci sono vicino ed è come un’apparizione di un fantasma che uno a uno li inghiotte nella stiva.
I loro respiri al caldo si fanno più serrati e fanno da sottofondo, il tutto accompagnato dal risciacquo delle onde e da improvvisi scricchiolii di ferro e catene che li scuotono di spavento; la carretta sferraglia a causa del carico pesante, si riempie di rumore ed è come lo spasimo di una tortura; Nabil ha il cuore che vuole saltar fuori dal petto ogni qual volta lo stridore è acuto e la carena