Wild (Dark Riders Motorcycle Club Vol. 1)
By Elsa Day
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About this ebook
Cosa si dovrebbe scegliere? Il grande amore o la propria sicurezza?
Lilly Clarkfeld vorrebbe soltanto essere una studentessa del college come le altre. Sogna di diventare infermiera, di metter su famiglia e di condurre un’esistenza serena. Non è pretendere poi molto, giusto? Ma quando è costretta a tornare nella sua città natale a causa della malattia della madre, ogni cosa cambia per sempre. Lilly ha un incidente d’auto in piena notte e viene rapita dai Dark Riders.
Sarebbe potuto essere un club di motociclisti qualsiasi, invece si tratta del suo. Quello del primo amore di Lilly.
Asher Thomas è più grande, più forte e molto più incasinato di quanto la ragazza ricordi, ma non l’ha mai dimenticata. I due bruciano ancora di passione l’uno per l’altra, ma quello del club sarà lo stile di vita adatto a Lilly? E lei sarà in grado di mettere da parte il sogno di una casa con lo steccato bianco per barattarlo con l’amore rude e diretto di un motociclista fuorilegge?
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Wild (Dark Riders Motorcycle Club Vol. 1) - Elsa Day
CAPITOLO UNO
NON ERA QUELLO ciò che avrei dovuto fare.
Piegai di nuovo la camicetta. Con cura. Manica sinistra, manica destra, una piega a metà.
Eppure continuavo a sbagliare ogni volta.
Cos’avrebbe detto la mamma? Un bel niente, lo sapevo. Avrebbe preso la camicia, l’avrebbe piegata lei stessa e adagiata gentilmente nella mia valigia.
Osservai l’indumento sbilenco ancora una volta.
Purtroppo la mamma non era lì a sistemare la mia roba per me, giusto? Afferrai la camicetta, l’appallottolai e la lanciai attraverso la stanza. Le gambe mi cedettero e crollai sul pavimento.
Non era quello ciò che avrei dovuto fare.
Le brochure del college pubblicizzavano persone felici dai volti illuminati di gioia. Gli studenti sui dépliant sorridevano, andavano a lezione e studiavano. Indossavano abiti alla moda e si laureavano sotto lo sguardo orgoglioso dei loro genitori, entrambi presenti tra il pubblico.
Anche se non figuravano nei cataloghi, sapevo le altre cose che si supponeva gli studenti universitari facessero: ubriacarsi con della birra da quattro soldi, partecipare a feste selvagge, innamorarsi e fare sesso. Era quello che io avrei dovuto fare. Giusto? Non è così che si comportano i ragazzi del college?
Non avevo nemmeno realizzato che stavo piangendo. Me ne resi conto quando assaporai il gusto salato delle mie stesse lacrime sulla lingua. Mi strofinai la faccia sulla felpa vecchia e lisa.
Il referto medico era ancora sulla mia scrivania.
Nome: Olivia Clarkfeld
Data di nascita: 19/02/1953
Peso: ...
Era arrivato con un biglietto, proprio come ogni altra sua lettera. Su questo era raffigurato un orsacchiotto. Reggeva un palloncino a forma di cuore e sorrideva.
Ti mando un grande abbraccio orsacchiottoso!
Non avevo visto il documento al suo interno finché non era caduto, scivolando fuori dal cartoncino ripiegato. Come se niente fosse. Leggero quanto l’aria.
Prognosi: ...
I dottori l’avevano mandata a casa. Avrebbero potuto operarla, ma sarebbe stato praticamente inutile. Non erano in grado di garantire nessun risultato. Per lei la cosa migliore era stare con la famiglia, avevano detto. Godersi un po’ di tempo in compagnia dei suoi cari. Tutto quello che le restava.
Così avevo ricevuto quel biglietto con l’orsacchiotto. Mamma non mi aveva chiesto di tornare a casa, ma non ce n’era bisogno. Sapevo di doverlo fare.
Perciò invece di studiare, di fare festa o di intrufolarmi nel letto di qualche ragazzo mentre il suo compagno di stanza dormiva, ero lì. A piegare e ripiegare una maglietta dietro l’altra. Da sola.
Raggiunsi la mia scrivania e sollevai una foto incorniciata. La sua sommità era ricoperta di polvere, che eliminai con delicatezza passandovi sopra un dito. Da quanto tempo ce l’avevo?
Nell’immagine ci trovavamo al parco. Gli alberi erano un tripudio di fiori che pendevano bassi e io cercavo di raggiungere un bocciolo con la mano. Papà indossava quella camicia nautica che gli piaceva tanto e sedeva su una panchina di legno. Il suo braccio cingeva la mamma. Il vento le soffiava sul prendisole, minacciando di sollevarlo troppo, così lei doveva tenerlo fermo stringendolo tra i pugni. I miei genitori parevano talmente giovani, allora.
Io stavo attraversando la mia fase ‘tute da lavoro’ e sembravo un maschiaccio. Avevo persino la faccia impiastricciata di terra. Ma non ero l’unica.
Lui mi teneva la mano libera. Già all’epoca era molto più alto di me e tirava verso il basso un ramo carico di fiori, protendendolo in direzione del mio viso. Dopo una così lunga estate, il sole gli aveva schiarito i capelli rendendoli quasi completamente bianchi.
Misi la cornice in cima alla crescente pila di vestiti ammassati nella mia valigia. Asher. Come se ci fosse stato bisogno di mettermi a pensare a lui in quel momento. Di sicuro mi aveva dimenticata molto tempo prima.
CAPITOLO DUE
CHIUSI LA VALIGIA con un colpo secco e la trascinai fuori dalla stanza del dormitorio. Mentre percorrevo in discesa l’antica scalinata, il bagaglio picchiò sui gradini. Quando l’edificio era stato costruito, gli ascensori non esistevano ancora, così ogni anno i trolley degli studenti che si trasferivano all’interno facevano rumore cozzando sulle scale passo dopo passo.
Il tempo di arrivare alla mia auto ed ero già esausta. Mentre mi avvicinavo, disinserii l’allarme con un beep e, quando mi fermai di fronte al baule, esso si sollevò. Ogni volta che succedeva, la piccola berlina mi faceva sorridere.
Grazie papà, almeno per questo.
L’unica cosa che la macchina non avrebbe fatto per me sarebbe stata infilare la valigia nel bagagliaio. Quindi ce la gettai dentro io, finendo per graffiare via un po’ di vernice al paraurti. Pazienza. Sapevo che mio padre l’avrebbe sistemata. Sua figlia doveva guidare una bella auto, giusto? Altrimenti cos’avrebbe detto la gente?
Strinsi i pugni, prima di montare in macchina. Presi un profondo respiro e azionai il motore. Mi aspettavano otto ore e mezza di viaggio verso sud. Potevo farcela?
Da quando avevo ricevuto la lettera di mamma, le mie mani non erano riuscite a smettere di tremare. Serrai la presa sul volante per costringerle a fermarsi. Già. Dovevo farlo.
All’inizio sembrò che tutto stesse andando bene. Mi lasciai alle spalle le luci della grande città e presto mi ritrovai sola. L’autostrada si snodava per chilometri e chilometri nel bel mezzo del nulla. Soltanto alberi, piazzole di sosta, alcuni camionisti e io.
Oltrepassai bizzarre insegne di tavole calde. C’erano tabelloni al neon dai quali allegri maialini mi invitavano a mangiare pancetta o galletti dall’aria maliziosa pubblicizzavano