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Quando cadrà la neve a Yol: Prigioniero in India
Quando cadrà la neve a Yol: Prigioniero in India
Quando cadrà la neve a Yol: Prigioniero in India
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Quando cadrà la neve a Yol: Prigioniero in India

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Cosa può mai spingere due uomini anziani a lasciare l'Italia per raggiungere un villaggio remoto alle falde dell'Himalaya? "Quando cadrà la neve a Yol", nell'eco di una predizione, lo rivela. Racconta del viaggio che porta sulle orme che gli stessi protagonisti lasciarono cinquant'anni prima e che ora, ultra settantenni, ripercorrono. È un viaggio del tutto differente da quello del passato quando, prigionieri degli inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale, attraversarono quasi tutta l'India da sud a nord per raggiungere il campo di prigionia al quale erano stati destinati. Ora lo fanno da uomini liberi, ma devono ancora affrontare conti in sospeso e incontrare fantasmi sepolti nella memoria.
LanguageItaliano
Release dateMay 12, 2017
ISBN9788899735296
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    Quando cadrà la neve a Yol - Angela Giannitrapani

    Angela Giannitrapani

    Quando cadrà la neve a Yol

    Argot edizioni

    © Argot edizioni

    Andrea Giannasi editore

    Proprietà letteraria riservata

    © 2017 Tra le righe libri

    ISBN 9788899735296

    Tra mille anni questa atrocissima guerra, che ora riempie d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaja e migliaja di esseri oscuri, che ora scompaiono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e questo cielo sfavillante di stelle nell’anima e la propria casa lontana lontana, e i propri cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime, e forse, ignari ancora e intenti ai loro giochi, i piccoli figli, lontani lontani. Quanti, feriti non raccolti, morenti su la neve, nel fango…

    Luigi Pirandello

    Da "Berecche e la guerra" in Novelle per un anno,

    Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1990.

    1

    L’ARRIVO

    Le scimmie volavano da un ramo all’altro dei pini alti e solenni. Rimbalzavano, agili, facendo ondeggiare le fronde. Gli alberi secolari sembravano madri severe che con pazienza offrono grembo braccia seno a figli irrequieti.

    Questo pensò Fulvio, guardando attraverso l’ampio vetro che correva per tre quarti del lato della camera. Appena entrato, il bosco a semicerchio gli si era presentato come se avesse abitato in quella stanza da padrone e lui si era sentito un ospite intimidito, quasi un intruso. Aveva lasciato che gli inservienti appoggiassero i bagagli sulla panca, aveva dato loro qualche spicciolo e li aveva visti uscire svelti e ossequiosi. Aveva, allora, tentato di riprendere fiato tra i battiti accelerati. L’altitudine, tutto quel verde all’improvviso e il lungo viaggio dovevano aver spinto il suo sangue in un flusso inaspettato. Alla sua età, poi.

    Si sedette sulla sponda del letto, senza distogliere gli occhi da quello spettacolo. Ma doveva venire a patti: lui si sarebbe inchinato a quella natura imperiosa guardandola con umiltà e discrezione, senza esplosioni di entusiasmo, senza facili esclamazioni. L’avrebbe esplorata senza avidità, pian piano e l’altra non l’avrebbe sopraffatto con la sua esuberanza; non gli avrebbe pressato il cuore con la sua sorprendente bellezza. No, non l’avrebbe ucciso, rivelandogli tutto il meraviglioso che, anni e anni prima, gli era stato celato se pure a poca distanza da dove aveva vissuto lui. Sì, questo era il patto: lo formulò a mente con determinazione, lo rimise in ordine e lo affidò alla sua volontà. Lui, chino sotto i suoi anni, lo porse a quella natura su un piatto d’argento, di quelli votivi che si usano per offrire cibo agli Dei. E si mise in attesa. Sapeva che la conferma sarebbe arrivata lentamente, dipanandosi nei giorni che lo attendevano e seguendo le orme dei passi che avrebbe calcato. Non poteva essere diversamente. In quel momento si pentì di non essere venuto da solo, per poter fare come gli pareva, senza contrattare con nessun altro scelte e programmi; soprattutto, per essere con se stesso e quella terra, dopo così tanto tempo in mezzo e tanta vita trascorsa. Ma il suo compagno di viaggio era nella camera accanto e non poteva cancellarlo.

    Si confortò sapendo che era di poche parole e sperò che non avrebbe interferito nell’intimità che stava cercando tra sé e tutto il resto. Avrebbe cominciato con il gustarsi quell’ora di solitudine prima dell’appuntamento che si erano dati nella hall dell’albergo. Gli occhi cominciavano ad abituarsi e ingoiavano senza un battito i profili degli alberi che gli arrivavano, ora, vestiti di verdi diversi. Distingueva i larici dagli abeti e i pini dai deodara; riusciva a individuare i grifoni dalle ali sfrangiate che volavano in cerchi ampi e, sui rami più vicini, i pettirossi, un po’ più grossi di quelli a cui era abituato e dalla grande macchia sul petto che, però, era color ruggine piuttosto che rosso vivo.

    Vide anche i piccoli di scimmia himalayana, attaccati alle madri che li spulciavano con abilità e li nutrivano. Notò il pelo chiaro e le barbe fluenti degli adulti accovacciati e le code longilinee delle scimmie langoor che si aggrappavano ai rami. Poi, quasi attirato da un richiamo flebile ma insistente, il suo sguardo si alzò di un poco oltre le cime degli alberi e le vide: le montagne tutt’intorno al bosco formavano un secondo cerchio, una corona ampia e bianca di neve. Era un largo abbraccio che lo avvolse e per un attimo si disse: da qui non scappo.

    La catena del Dhaula Dhar gli stava di fronte per la seconda volta nella sua vita, ma ora ne scorgeva una gran parte, molto più vasta e, soprattutto, grazie all’altezza a cui si trovava, gli sembrò di fronteggiarla da pari a pari e non di soggiacervi com’era successo la prima volta. In un lontano passato era stato così in basso, così schiacciato contro i suoi avamposti, da non potere nemmeno vederla tutta come faceva ora. Pur vivendo ai suoi piedi per cinque anni, non l’aveva mai veramente potuta guardare. Allora non aveva nemmeno potuto scorgere le vette dell’Himalaya, così come le aveva appena viste dall’aereo qualche ora prima. Ne aveva respirato l’aria, aveva sentito lo scroscio delle sue cascate, aveva intravisto alcuni picchi innevati; l’aveva sempre avuta sulla testa e dietro le spalle in quei lunghi anni, ma non l’aveva mai osservata come adesso.

    Ed eccolo lì, davanti ai suoi occhi, il Dhaula Dhar che di quella Grande Madre era una delle sentinelle. Incassò la testa tra le spalle e spinse il collo in avanti per spiare meglio, ma non si mosse dal bordo del letto, quasi vi fosse inchiodato. E iniziò una seconda cerimonia: si presentò a quelle montagne con nome, cognome e numero di matricola, poi aggiunse il numero del campo, dell’ala, della baracca, bisbigliando. Per ultimo, lanciò contro quei nevai un ultimo nome: YOL.

    Gli sembrò per un istante che il suono liquido di quella parola echeggiasse tra le valli e rimbombasse nella stanza, ma le scimmie continuarono a dondolare eleganti e i pettirossi a saltare sui rami; nessuno bussò alla porta, nessuno si allarmò.

    Quando guardò l’orologio non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso, né si rese conto, là per là, di quanto ne mancasse all’appuntamento con Gerardo. Le lancette puntavano su numeri che non richiamavano alcun significato alla sua mente. Il tempo vero, quello che sentiva dentro, o meglio, quello nel quale si sentiva preso, era circolare e lo avvolgeva in spire fluide che mischiavano passato e presente in stati gassosi, poco limpidi, che lo trattenevano restituendone un’immagine dai contorni imprecisi. Già, le immagini…

    Questo pensiero lo scosse e cercò di ricordare se aveva portato con sé le foto e dove le aveva messe. Preoccupato, si alzò dal letto con un brusco movimento che gli causò un leggero dolore alle ginocchia e barcollò andando verso la valigia. Cercò spasmodicamente negli angoli senza trovarle; poi, si rese conto di averle messe nel taschino interno del giubbotto, dove le trovò. Le tenne lì, rasserenato, senza toglierle dalla busta, senza dare nemmeno uno sguardo. Ormai, quel tempo tutto suo si era dileguato e aveva ceduto il posto a quello lineare, a quello degli uomini. Andò in bagno e si sciacquò il viso. L’acqua era piacevolmente fredda e sembrava limpida. Si chiese se veniva dalle montagne, ma non osò berla. Quante volte aveva bevuto acqua putrida, acqua con la sabbia, acqua calda da mettere le budella sottosopra. E ora faceva lo schifiltoso; chi era diventato? Chi era stato?

    Si asciugò lentamente, pressando l’asciugamano sugli occhi e gli zigomi, quasi a voler prendere meglio contatto con il volto e lì ancorarsi. Il sangue, che affluì meglio alle tempie, gli diede energia e si preparò a raggiungere il compagno.

    Gerardo si trovava già nella hall, sprofondato in un’ampia poltrona di bambù, rivolta alla grande vetrata sul bosco e sulla vallata sottostante. Sembrava assorto anche lui. Vedendolo arrivare, l’addetto alla reception inchinò il capo salutandolo e Gerardo si accorse di lui.

    Tutto bene?, chiese al compagno.

    Sì, solo un po’ frastornato dall’altitudine, ma ora va meglio, replicò l’altro.

    Hai visto che panorama? incalzò Fulvio.

    disse laconicamente Gerardo e aggiunse: Andiamo?

    Certo.

    Restituirono le chiavi delle camere al banco e si avviarono all’uscita. Il portiere dell’albergo aprì loro le ante della porta ancor prima che lo facessero loro e si inchinò velocemente. Gerardo passò e Fulvio restituì il saluto, un po’ a disagio. Aveva guardato in viso l’uomo, stretto nella divisa dell’albergo, non giovane ma nemmeno anziano, il viso aguzzo con dei baffetti sottili, occhi piccoli e acuti. I capelli neri, lucidissimi, erano parzialmente coperti dal copricapo a visiera. Si chiese il perché di quel disagio, ma non ci fu tempo per la risposta; dovette scansarsi bruscamente per evitare un taxi che sopraggiungeva lungo la stradina angusta. Imboccarono la discesa e dopo un paio di curve si ritrovarono sulla strada principale. Non era ampia e cercarono di destreggiarsi tra le due file di bancarelle disposte su entrambi i lati, camminando uno dietro l’altro. A ogni passo incrociavano i commercianti che li invitavano a comprare, scegliendo loro stessi dalla gran quantità di oggetti ammassati sui banchetti; offrivano mani-khorlo, i porta preghiere tibetani dagli smalti brillanti, statuette di Siddharta, le tre teste del ciclo della vita.

    I loro sguardi, però, oscillavano dalla verde parete di alberi che stava alla loro destra al punto finale della stradina, dove intravedevano un grande cancello sormontato da bandierine colorate che si muovevano alla leggera brezza pomeridiana.

    Fulvio respirò a pieni polmoni, non ricordava un’aria così frizzante e leggera; considerò che si trovava a una altitudine maggiore del posto dove aveva vissuto. Boschi non ce n’erano, era un fondovalle anche se a 1200 metri; lì, invece, si toccavano i 1700. Il vociare era sostenuto ma non sguaiato, eppure gli fece impressione pensando che era la strada del tempio. Se la sarebbe aspettata sgombra da ogni commercio, più silenziosa e percorsa da processioni di pellegrini; invece, come nella maggior parte del mondo, eccola anche lì la contaminazione tra lo spirito e il denaro. Lo disse a Gerardo, che corresse: Contaminazione tra religione e denaro. Rifletté un attimo sulla differenza e disse a se stesso: ‘vedremo’.

    Le tonache rosso mattone dei monaci li sorpassavano o venivano loro incontro, esseri dai capi rasati e visi rotondi, perfettamente a loro agio che con lunghi rosari bisbigliavano preghiere in mezzo a quel traffico di merci e persone. Qualcuno di loro si fermava a comprare del cibo o sedeva a bere un tè fumante nei piccoli chioschi affollati. Fulvio si strinse nel giubbotto e fu contento di indossare calzini di lana e comodi scarponcini. Fu inevitabile pensarlo, dopo aver visto tanti piedi scalzi; le tuniche appoggiate su una spalla non davano l’idea di proteggere da quell’aria fresca anche se, a guardarli, sembrava che quegli individui stessero perfettamente bene. Quante abitudini differenti, quante pratiche o esercizi della mente dividevano quei piedi dai suoi? Come possono gli esseri umani avere corpi così diversi da camminare insieme, gli uni semivestiti e gli altri coperti? Quali dimensioni, quale vita li divide, al punto da percepire la terra su cui camminano e l’aria che respirano in modo così differente? Il corpo, la mente, la natura… niente di assoluto, niente di obbiettivo. Siamo la casa di noi stessi, e siamo quello che abbiamo vissuto, pensò.

    Anche noi eravamo scalzi. Tu no? disse, all’improvviso, Gerardo.

    Fulvio si scosse, non si aspettava quella battuta e non credeva che il compagno guardasse i piedi dei monaci nello stesso momento in cui lo stava facendo lui. Soprattutto, fu sorpreso da quello che disse.

    Certo, anch’io. Lo avevo dimenticato. Con le pezze legate ai piedi sanguinanti, dopo la marcia nel deserto. E poi, scalzi sul treno perché non potessimo saltare giù dai finestrini.

    Sentivi freddo ai piedi?

    No, non freddo. Li sentivo bruciare o mi facevano male perché sanguinavano. O mi faceva male alla dignità di uomo essere tenuto scalzo per non fuggire. Ora che ci penso, no; non era freddo. E tu?

    Ho sentito tutto, come te. E anche freddo. Poi, mi sono abituato. E quando ci hanno dato le scarpe, perché non potevamo più fuggire, non ero più abituato a tenere il piede prigioniero. Tanto, non ti davano mai quelle giuste: o troppo grandi o troppo piccole. Quando potevo le toglievo. Finché non abbiamo fatto degli scambi tra di noi non abbiamo avuto le scarpe giuste.

    Come aveva potuto dimenticarsene? Come aveva potuto dimenticare di non aver sentito freddo ai piedi; di aver sentito di tutto ai piedi tranne che freddo. E come non ricordare che la mente e lo spirito, attratti da altre sofferenze, distogliessero la sua attenzione dai piedi scalzi e sanguinanti? Le uniche cose che il suo corpo gli aveva gridato, al di sopra delle mortificazioni, erano la fame e la sete. Una gran fame e la sete soffocante.

    Arrivarono in fondo alla stradina quasi appaiati; si guardarono intorno in cerca di una targa, un nome inciso, un cartello. Ma niente, davanti a loro solo un gran cancello dal colore incerto, di cui una grata stretta faceva da ingresso.

    La oltrepassarono e si incamminarono lungo il viottolo fangoso che li portò in un cortiletto: un bimbo, rotondo come la sua palla, giocava barcollando sulle gambette; alzò il viso rosso di freddo e offrì i suoi occhi allungati sugli zigomi sporgenti.

    Lo raggiunse la madre, ingolfata in una coloratissima casacca di lana grezza; aveva pesanti orecchini d’oro che mandavano bagliori sotto i lunghi capelli, neri e lucidi. Sorrise timidamente ai due passanti e il suo largo viso di tibetana si illuminò per un istante; poi, tirando il bimbo per mano, scomparve nel buio del negozietto zeppo di souvenir sacri.

    Fulvio e Gerardo trattennero ancora per qualche istante quell’immagine nell’ombra lasciata sulla soglia, e indugiarono un po’ finché si accorsero di un gruppetto di monaci che, con passo svelto, salivano una rampa di scale e decisero di seguirli. Videro una scritta in inglese che indicava il tempio e si avviarono in quella direzione. In cima ai gradini li accolse un grande spiazzo, una terrazza delimitata da colonne squadrate che sporgeva sulla vallata e i boschi. Era di cemento grigio, senza alcuna rifinitura, senza decorazioni di nessun genere.

    Al centro, una grande madia di legno intarsiato mostrava attraverso le ante di vetro i lumini votivi e luccicava di mille fiammelle che fluttuavano irrequiete agli spifferi di un vento sottile. Poco più in là, materassini, alcuni sovrapposti in alte pile, altri dispiegati a terra. Una donna minuta, con una lunga treccia eseguiva ripetutamente il chaktsel-lo, la genuflessione rituale al Buddha, portando le mani giunte alla fronte alla bocca e al petto. Si inchinava e si stendeva strisciando sul materassino, rialzandosi e ripetendo i movimenti subito dopo con una velocità e una disinvoltura che li meravigliò.

    Fulvio disse al compagno: Ha l’elasticità di un giunco.

    Guarda la bambina e il nonno, aggiunse Gerardo. Alla sinistra della donna, una bambina di cinque o sei anni faceva lo stesso, superando la madre in velocità.

    Il nonno, accanto alla piccola, era lento ma si piegava con tutto il suo corpo ossuto in un angolo così acuto che Fulvio pensò si potesse spezzare. Teneva gli occhi sempre chiusi e il volto era così assorto da far supporre grandi dolori da confortare e pressanti preghiere da lasciare al cospetto del divino. Altri pellegrini si prostravano in angoli più lontani di quella scarna terrazza grigia. I due viaggiatori distolsero gli sguardi per non profanare oltre quella intimità con il dio.

    Lasciarono le scarpe su una rastrelliera e entrarono nella sala principale. Un monaco, accovacciato in un angolo, ripeteva monotonamente i mantra e un enorme Buddha d’oro li sovrastò, sorprendendoli. Gerardo istintivamente si ritrasse, schiacciandosi contro la parete in fondo alla stanza; Fulvio restò ipnotizzato lì in mezzo, ostacolando l’entrata dei fedeli che, disinvolti, lo evitavano per prostrarsi e pregare.

    Ecco, questo non è qui da sempre, si disse. È arrivato dopo che siamo andati via noi. Anche questa gente dai visi larghi è arrivata qui dopo; quasi a conforto del fatto che non ne aveva visti, quando aveva vissuto laggiù a poca distanza. L’idea che nei sei anni di India avesse potuto vedere poco o nulla di tutto ciò che gli stava attorno gli faceva salire il sangue alla testa, anzi al cuore perché era lì che gli montava la rabbia. Poi, sopraggiunse il rammarico, più quieto della rabbia ma più amaro, di un’amarezza che gli piegava lo spirito in una mortificazione china e genuflessa come quei corpi tibetani, ma di quelli non aveva né la devozione né l’elasticità. E i suoi sei anni gli sembrarono, in quel momento, fatti solo di una mortificazione profonda e infinita che nemmeno il solenne Buddha d’oro, alto sette metri, avrebbe potuto alleggerire. Con gli occhi chiusi da due neri virgoloni, con la sinuosa bocca rosso vermiglio, le grandi orecchie e tutti gli ori votivi ai suoi piedi, quel colosso dalle forme burrose alzava la mano destra e, con l’indice puntato in alto, sembrava schernirlo. ‘Non commettere cattive azioni, accumula quanti più meriti puoi, abbi il completo controllo della tua mente. Questo è l’insegnamento del Buddha’, recitava la scritta ricamata su seta. Allora, forse, il Maestro intendeva ammonirlo. Voleva indurlo all’umiltà con la quale si accetta il proprio destino e si intraprende la ricerca dei significati del proprio cammino. Non era tornato per questo? Che cosa si era ripromesso con quel viaggio? Non era nostalgia, non doveva esserlo. Ancora si chiedeva se avesse fatto bene ad accettare, se non fosse stato più saggio ringraziare dell’offerta e rifiutare, mettendo, una volta per tutte, una pietra sopra a un pezzo doloroso della sua esistenza.

    Aveva avuto la buona sorte di sopravvivere, di essere tornato a casa, di essersi fatto una famiglia e una nuova vita. Avrebbe dovuto dire no, grazie Anna. È una parte conclusa del mio passato, non ho nulla da andare a vedere là. Ma sua figlia era stata così orgogliosa di quel regalo a sorpresa, che lei e il marito avevano fatto a lui e a Gerardo, che si era sentito travolto dall’entusiasmo di lei. Erano passati solo due mesi da quel giorno, ma gli sembrarono anni in quel momento, lì inchiodato davanti alla grande statua dorata, in mezzo alla sala e alla processione di fedeli.

    Si sentì toccare leggermente il gomito. Gerardo lo invitava ad accostarsi a lui, in disparte. Sì, certo, disse confuso e lo seguì. Gerardo capì che l’altro voleva restare ancora; non sapeva bene perché ma era chiaro che fosse attratto dall’effige di quel bambinone. Quanto a lui, gli erano bastati i toni monocordi dei mantra, l’odore degli incensi e delle collane di tageti per dargli alla testa.

    Torno sulla terrazza. Fai con comodo, ci vediamo là, disse. Fulvio, rimasto solo, emise un profondo sospiro, quasi che quell’angolo in ombra fosse un gran riparo; cercò di rasserenarsi e di riprendere contatto con la realtà. Ma la realtà era quella: lui era lì. Non poteva tornare indietro prima di aver concluso quel viaggio, doveva andare avanti. ‘Chiunque tu sia, aiutami. Perdona la mia tracotanza per essere venuto qui e guida i miei passi’, lo disse bisbigliando. Lanciò a quel faccione d’oro la sua preghiera e, sorprendendo se stesso, congiunse le mani, le portò tra il naso e la bocca, inchinando leggermente il capo e uscì.

    Nella terrazza non vide subito Gerardo, ma non si allarmò. Si mise a girovagare e andò verso la balconata di destra; si affacciò sulla stretta vallata e guardò i rami dei pini: poteva contarli a uno a uno, compresi gli aghi e i nodi di legno dei tronchi. Il sole incerto perforava il bosco, ormai pronto a calare oltre il crinale. Si spostò verso una breve scalinata; la rampa di sinistra portava a una piccola terrazza sottostante e quella di destra saliva verso un’altra. Vide Gerardo che da lassù gli faceva segno e lo raggiunse.

    Guarda che spettacolo da qui gli disse il compagno. Effettivamente, da quel punto così alto si vedeva ancor di più tutto intorno; la palla del sole morente era ancora nitida, liberato dalle cime degli alberi e giù si vedevano perfino le bancarelle della strada, piccole e distanti con le frotte di fedeli e mercanti, come puntini in movimento. Ma lassù erano in un silenzio avvolgente, attraversato solo dal sibilo intermittente del vento. Eppure, non erano soli, bastava che si girassero da un lato e dall’altro o che si sporgessero di sotto per scorgere ovunque tonache purpuree. Monaci seduti o in piedi, fermi contro il sole o a passeggio avanti e indietro per brevi tratti; ma tutti, proprio tutti, pregavano, leggevano, gesticolavano come a sospingere meglio le sillabe nell’infinito. Qualcuno si era tirato un lembo della tonaca sul capo rasato a ripararla dall’aria fresca. Gli esseri umani erano in cerca del divino: su quelle terrazze sembravano a un passo da lui. Molti, si intuiva, lo avevano trovato. In ogni caso, sembrò a Fulvio, che tutti si stessero allenando a un viaggio imminente, che stessero per lasciare questa terra e che quello fosse il luogo adatto per spiccare il volo.

    Hanno trovato la loro terra qui disse Gerardo. In migliaia hanno oltrepassato l’Himalaya a piedi per venire a Dharamsala. Hanno fatto anche fino a due mesi di marcia, con bambini, con anziani, alcuni anche con gli animali. Avanzavano di notte per non farsi sorprendere dai Cinesi e riposavano di giorno, nascosti nelle gole e negli anfratti. Se ci pensi, anche per loro è durato anni. Per noi è stata dura stare fermi, per loro marciare. E non erano soldati concluse. Fulvio sentì sciogliere un piccolo nodo tra la gola e il torace, ma non avrebbe saputo dire perché o per cosa; avvertiva il respiro più ampio e libero, questo poteva dirlo. Allargando i polmoni, allargava anche il petto e le braccia e era come se tutta quella umanità profuga potesse albergarvi, con il suo carico di dolore di perdita di speranza, da consegnare a lui, perché fosse preservato dalla dimenticanza e perché vi fosse dato un nome.

    Ecco: questo, da vecchio soldato, doveva farlo.

    Ancora una volta il compagno lo vide trasognato e si disse che era proprio un uomo strano. Lo aveva conosciuto esuberante e chiacchierone ma, da quando avevano intrapreso quel viaggio, si era estraniato più di una volta e si era chiuso nel silenzio. A un tratto, sembrò scuotersi: Mi sarei aspettato un tempio più bello. È un grosso casermone squadrato di cemento; nemmeno la più pallida idea di quello di Lhasa, ma nemmeno dei tempietti dei villaggi tibetani. Le autorità indiane avrebbero potuto riservare al Dalai Lama e ai suoi fedeli qualcosa di più dignitoso.

    Dalla devozione che si nota in loro, non sembrano essere spaesati o delusi. Sembra che si sentano là dove devono essere. Forse, per loro salire i mille gradini del Potala o entrare nel Tempio dorato e oltrepassare questi quattro rettangoli grigi, oggi qui a McLeod Ganj, non fa differenza. Purché abbiano un luogo in cui ritrovare il loro Dio e se stessi. E dove si sentano liberi e riconosciuti.

    Sì, deve essere così. In fondo, anche per noi sarebbe lo stesso se fossimo nelle loro condizioni.

    Ci siamo stati in condizioni simili: abbiamo ritrovato casa nostra devastata e inospitale, non per questo l’abbiamo amata meno o non siamo stati felici di esservi tornati.

    Mhm… borbottò Fulvio, ricordando ciò che non voleva. Poi, per primo imboccò le scale e scese seguito da Gerardo. Passarono sul retro della terrazza principale e, seguendo i gesti di altri fedeli, diedero un tocco leggero ai tib-choskhor, i grandi cilindri di ottone con le benedizioni incise in sanscrito, badando bene di far roteare le scritte per il verso giusto. Lasciarono le loro preghiere e si avviarono all’uscita.

    Il cortile era più affollato di prima e un gruppetto di scolari si faceva fotografare ai piedi di un alto obelisco, che non avevano notato, arrivando. Aspettarono che i ragazzi, un po’ chiassosi e ridenti, si allontanassero. Era posto di lato, non in centro, non in un angolo; ma piantato così, a caso, sembrava. Più largo in basso su una base quadrata, stretto a cuspide in cima, aveva gli angoli squadrati. Brillava di un nero lucido che sembrava onice. Tre semplici righe d’oro dicevano in inglese ‘Tibetan National Martyrs Memorial’, ‘In

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