Aspettando la tempesta
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Aspettando la tempesta - Josef La Casa
istante.
1
PERSO, SENZA META
Marco ha ventun anni e vive nell’hinterland di Milano, con suo padre, Fabrizio. È uno di quei ragazzi che di tempeste ne vive tante, o meglio, ogni volta che gli capita qualche situazione sgradevole, al posto di risolverla, la peggiora. Insomma è molto bravo a incasinarsi la vita.
Anche quando qualcosa va bene, rovina tutto, fa casini, senza pensarci. Sprofonda con poco: basta, ad esempio, una relazione non andata come sarebbe dovuta andare e sceglie valvole di sfogo sbagliate, un classico.
Suo padre è un uomo tutto d’un pezzo, indossa sempre una camicia, spesso accompagnata da un paio di bretelle rosse. Lavora in fabbrica anche dodici ore al giorno e quando torna a casa, distrutto dal lavoro, guarda programmi televisivi d’attualità, che parlano in continuazione di crisi, sbarchi di immigrati, tragedie, e commenta arrabbiato ogni cosa che sente.
È lunedì, sono le 22:00, Fabrizio e Marco hanno finito di cenare da poco e sono ancora seduti a tavola, con la TV accesa, una di quei vecchi modelli.
«Dovresti trovarti un lavoro, non puoi continuare così, non è vita», dice Fabrizio guardando suo figlio, con aria autorevole, conferitagli anche dai baffi, che non taglia mai, oltre che dalla sua corporatura robusta.
Marco scuote la testa e se ne va. Lui con suo padre non ci parla, si innervosisce facilmente e quindi lo evita ogni volta che riesce, come ora che prende la sua giacca di pelle, strappata, ed esce, senza salutare.
È ottobre, fa freddo e ha fatto buio presto. La città in cui vive è una di quelle città che appaiono sempre desolate e annebbiate, che offre quasi solo agglomerati di palazzoni popolari orrendi, con qualche vetro rotto e gli androni sporchi, e parecchi bar. Tracce di verde non se ne trovano facilmente, quasi solo grigio: una natura in bianco e nero
, questa è la natura che i pochi abitanti della sua città vivono, ogni giorno. Molti anziani si sono spostati in qualche tranquillo paesello di montagna, mentre parecchi giovani, a Milano. Quelli rimasti hanno quasi sicuramente qualche storia da raccontare. Di storie brutte se ne sentono parecchie: qualche arresto, qualche rissa, ogni tanto finisce anche peggio.
«Oh, hai sentito di Pietro? L’hanno beccato con un chilo di bamba», dice Marco a Giò, suo grande amico ormai da più di dieci anni.
«Sì, che coglione!», risponde Giò, con l’aria condensata che gli esce dalla bocca per il freddo, mentre si tocca il grosso piercing ad anello, d’acciaio, che ha sul setto nasale. Ha gli occhi gonfi ed il viso molto magro, per via degli psicofarmaci che prende.
Sono in piazza, seduti sulle gradinate della chiesa, come quasi ogni sera, con la birra in mano; la prima ma di certo non l’ultima della serata. Aspettano Sandro – chiamato Sandrone per via della sua corporatura robusta – amico d’infanzia anche lui, che però esce meno e non beve, perché lavora dal lunedì al sabato.
Il loro fornitore preferito di alcolici è un bar lì accanto, aperto fino a tardi per gente come Marco e Giò. È gestito da Ciro, chiamato Zombie perché non dorme mai la notte, comincia a sbronzarsi dalla mattina presto in compagnia dei suoi clienti peggiori ed è sempre fatto di chissà quale droga.
«Ciao ragazzi, impegnati come al solito, eh?», chiede Sandro, appena arrivato.
Loro sorridono e continuano a parlaredi ciò che a loro sembra importante, fino alle tre del mattino, spesso dimenticandosi le cose da dire a causa dell’alcol e programmando qualche bravata, tipo una spedizione contro qualche extracomunitario, bofonchiando che ci vorrebbe pulizia. Quando l’ultimo bar aperto della città, il loro preferito, chiude, si incamminano verso casa, col cappuccio della giacca sulla testa, barcollando e a tratti trascinandosi. Camminano nelle strade deserte, piatte e tutte uguali, prigioniere