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Niente di nuovo sulla terra
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Niente di nuovo sulla terra

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About this ebook

Nei trecento anni di vita della dinastia Spencer si susseguono eventi bellici, ribellioni e rinascite. Epoche e storie diverse con un unico filrouge: la stupidità dell’uomo. Nell’alternanza tra guerre che muovono dalla ricerca del potere e della supremazia dell’uomo sull’uomo, e brevi periodi in cui pare prevalere un diverso approccio alla convivenza, la ruota della storia gira, ma cambiano solo i protagonisti e il contesto, non il risultato.
Sia che si tratti del futuro prossimo o di quello remoto, si rinnovano gli eventi, si ripropongono le occasioni, si modificano gli alibi, ma alla
fine tutto torna a ripetersi come prima.
A nulla serve il forzato isolamento in cui cerca rifugio, e un futuro migliore, parte della popolazione.
Non bastano l’abolizione della proprietà e dei culti, il divieto di concorrenza e l’assenza di meritocrazia, a evitare conflitti, e distruzioni.
A niente serve neppure l’eliminazione coattiva delle pulsioni emotive.
Prima o poi, l’animo umano mostra ineludibilmente il feroce volto dell’egoismo.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateJun 3, 2017
ISBN9788867826094
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    Niente di nuovo sulla terra - Andrea Mennini Righini

    ANDREA MENNINI RIGHINI

    Niente di nuovo sulla Terra

    Andrea Mennini Righini

    Niente di nuovo sulla terra

    © Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio d’Adda-Mi

    www.gdsedizioni.it

    www.gdsbookstore.it

    Riferimento illustrazione pixbay.

    Progetto copertina grafica Editrice GDS

    Ogni riferimento descritto in questo romanzo a cose, luoghi, persone o altro sono da ritenersi del tutto casuali.

    Disponibile in formato cartaceo

    L’INIZIO

    (DOPO LA FINE)

    11 maggio 2101 – 23 aprile 2148

    Anno 2101 –11 maggio- ore 9 e 10

    Fabbrica di Lowen Spencer

    La pioggia caduta per tutta la notte aveva ripulito l’aria.

    I comunicati del mattino prevedevano per fine giornata una concentrazione di oltre centotrentamila ppm, ma al momento il pulviscolo nell’aria era accettabile e i filtri alle narici facevano il loro dovere.

    Avevo paura, le cose stavano precipitando. A scatenare l’inferno potevano essere la Cina, l’America del Sud o il Giappone o perfino uno degli Stati più piccoli, il risultato non sarebbe cambiato: una guerra senza esclusione di colpi e vie d’uscita.

    Nonostante fossi uno degli uomini più ricchi del paese mi sentivo vulnerabile come un uccellino implume fuori dal nido.

    Prima di entrare nel perimetro di pertinenza aziendale, appena più in alto rispetto all’area di parcheggio, mi fermai per guardarmi intorno e tirai su il bavero del soprabito senza che ce ne fosse alcun bisogno.

    Non pioveva più. Nelle pozze d’acqua che si erano formate si rifletteva il colore sfocato del cielo, la nebbia era calata all’improvviso.

    Uno shuttle di collegamento, ben visibile anche da lontano per il suo colore giallo, si stagliò sul fondo del viale arrancando nella salita del sottopasso che delimitava la proprietà Spencer.

    Intorno non c’era altro, a parte l’insegna luminosa che segnalava la presenza della fabbrica a chi si trovasse nel raggio di alcuni chilometri, peraltro senza nessuna ragione oggettiva dal momento che l’enorme cubo che la ospitava incombeva visivamente su ogni angolo della città, nebbia e pulviscolo permettendo.

    Dopo che la navetta ebbe parcheggiato, su mio ordine, nell’hangar sul retro della palazzina direzionale, scesi dal veicolo ed entrai dall’ingresso riservato alla Presidenza.

    La reception mi incuteva ancora soggezione, sembrava una piazza d’armi quadrata con i lati lunghi almeno cento metri e i soffitti di venti. C’erano tre porte oltre a quella d’entrata, una per parete e accanto ad ognuna di queste un totem con le diverse destinazioni raggiungibili.

    Sulla destra si entrava nell’area di vendita e nel sottosuolo, passando dalla parte opposta si arrivava nell’area degli studi bioinformatici e nella sezione robotica. Solo in questi reparti, tra addetti agli uffici e operai di controllo telematico dei robot, la struttura accoglieva più di tremila operatori.

    La porta centrale si apriva su due corridoi che percorrevano parallelamente tutto l’edificio e ospitavano il commerciale e le postazioni operative, ognuna di queste con i macchinari necessari per le diverse tipologie di produzione.

    Il Centro studi e la sede delle sperimentazioni si trovavano nella parte mediana dell’edificio, e fra di loro, gli uffici della direzione generale e di quella tecnica, oltre al reparto amministrativo e a quello del personale.

    Al vertice della struttura c’erano le suite per i clienti in visita e per gli ospiti di livello.

    Un gioiellino da 600.000 metri cubi che i miei avevano progettato per essere il cuore direzionale pulsante di una multinazionale ramificata in molti Paesi, e che mi ero trovato a gestire da solo quale ultimo rampollo della dinastia Spencer.

    In fondo alla reception, a occupare tutta la parete, troneggiava il simbolo dell’azienda: un cerchio giallo con all’interno la sigla D.S. vergata in rosso con un fulmine nero che l’attraversava, mentre più sotto ad altezza d’uomo, sempre in rosso ma con caratteri più piccoli, si trovava la scritta : solutions for industries.

    Tolsi la maschera filtrante e il cappotto. Argon come sempre era al suo posto, tra gli ascensori e il gabbiotto degli addetti alla sicurezza.

    «Buongiorno dottore».

    Il vecchio e fedele addetto al controllo degli ingressi era sempre lì, statuario e inamovibile.

    Era stato assunto da mio padre da ragazzo e, ora a settant’anni suonati, non se ne voleva andare in pensione a godersi il meritato riposo, né io me la sentivo di mandarlo via. Probabilmente il cuscino d’aria della poltrona nera che usava per sedersi aveva preso la forma delle sue chiappe.

    «Buongiorno a te Argon».

    Risposi col solito sorriso di circostanza che utilizzavo tutte le mattine a beneficio di impiegati e operai senza fermarmi, come al solito, per scambiare le solite due parole.

    Accompagnato da un addetto alla vigilanza raggiunsi l’ascensore che mi portò in pochi secondi al trentottesimo piano.

    Anche se ero perfettamente conscio che un capo deve avere la sua postazione sopra tutti gli altri, non avevo i mei uffici nell’attico. Preferivo alloggiare nella vecchia sala comandi del nonno, con la segreta speranza che qualcosa del suo genio aleggiasse ancora in quelle stanze.

    Donald Spencer, il padre di mio padre, il fondatore della più grande azienda di software dell’Europa centrale, era stato uomo con un paio di attributi colossali che aveva saputo cogliere il momento giusto.

    Nei primi anni del millennio il mercato dei programmi per computer aveva subito una forte evoluzione e Donald aveva fondato una piccola società che sviluppava programmi per la gestione automatizzata di medie aziende, allargando successivamente il business alla realizzazione di hardware.

    Con il prodotto che si vendeva bene, e la richiesta in forte espansione, il nonno investì tutto nello sviluppo e nella ricerca. Verso la fine degli anni venti, l’ufficio strategie e soluzioni della D.S industries brevettò uno dei più innovativi programmi di controllo automatizzato di gestione, un software di base che in automatico eseguiva quanto comandato direttamente dagli impulsi delle onde cerebrali.

    Non era più necessaria nessuna mediazione tra l’ordine che il cervello inviava e l’oggetto da utilizzare, bastava il solo pensiero, per giunta senza possibilità di errore.

    La prima garanzia di sicurezza era data dal perfetto sincronismo tra le onde cerebrali dell’utilizzatore e il software, che non consentiva intrusioni di terzi. Inoltre, per evitare il rischio che il programma scambiasse un singolo pensiero, magari ancora classificabile come ipotesi, come ordine definitivo, erano stati previsti due sistemi di controllo: la necessità di dare in sequenza per due volte il medesimo input e il blocco automatico su comandi distruttivi o irrimediabili, che il programma sapeva riconoscere in autonomia.

    In pochi anni il braindirect divenne uno strumento indispensabile di lavoro con migliaia di applicazioni in tutti i campi, oltre a essere la nostra gallina dalle uova d’oro. La concorrenza fu sbaragliata e una dopo l’altra le Software house e le fabbriche di prodotti informatici furono inglobate dalla D.S.. Il nostro sistema operativo diventò il supporto di base per la maggior parte delle attività quotidiane, oltre che la base per lo sviluppo in campi come quello scientifico e medico, sebbene le grandi commesse per l’azienda di famiglia arrivarono soprattutto dal settore militare.

    Non c’era Stato che non fosse nostro cliente, non c’era Ministro della difesa che non fosse venuto, quale gradito ospite, nei nostri uffici.

    Le alte gerarchie militari erano di casa, gente con colori della pelle diversa, lingue incomprensibili e divise di tutti i tipi che dopo aver visitato i depositi e valutato le diverse opzioni di acquisto, al momento dell’ordine sembravano dimenticare le loro diversità, dato che ognuno si congedava con la medesima identica richiesta: mi raccomando che non ci siano blocchi a ritardare i comandi.

    In una logica bellica di scontro militare il tempo di reazione di un’arma al comando di chi la impugna non poteva essere rallentato, pena la più veloce risposta di fuoco dell’avversario. Poco importava che tutto ciò potesse comportare errori e perdite di vite umane, il rischio era statisticamente accettabile.

    Il crescendo dei focolai di conflitto e l’aumento delle aree di crisi si traducevano in aumento del profitto e la D.S, sulla scorta degli insegnamenti del mio predecessore, aveva dirottato un buon sessanta per cento dell’utile nel settore della ricerca, con il risultato di avere in catalogo armi sempre più raffinate e congegni micidiali.

    Come industriale dovevo essere orgoglioso – e lo ero – per il bilancio aziendale e gli utili, ma come uomo i dubbi mi arrovellavano il cervello, soprattutto quando ero da solo nel mio ufficio. Mi chiedevo spesso se anche gli Spencer non avessero contribuito a ridurre il mondo in una polveriera pronta a esplodere.

    Per comprensibile autodifesa, e solo in parte per vera convinzione, mi autoassolvevo rispondendomi che non era l’arma a fare la guerra ma chi la utilizzava, che fosse una clava o un folker di ultimo modello non c’era differenza, il problema era l’animo umano e la sua naturale aggressività, non ciò che usava per offendere.

    Mi misi a sedere sulla poltrona fasciante ordinando al dispenser di versarmi un goccio di gin, poi regolai il flusso di aria per un massaggio lombare, che non poteva durare più di una decina di minuti, dopo i quali era prevista la riunione settimanale con i riporti aziendali di primo livello.

    Prima di scendere al quarto piano dove usualmente tenevamo le riunioni di briefing, feci proiettare sul cristallo di lavoro il grafico dei risultati delle vendite. Segnava un più nove per cento rispetto al già ottimo risultato del mese precedente, e se il barometro del tempo segnava bello per l’azienda questo stava a significare vento e tempesta per il mondo.

    Arrivai nella sala riunioni che c’erano già tutti.

    Dopo essermi messo comodo con la lentezza che si addice a un capo, feci un cenno a Robert perché iniziasse a esporre i dati aggiornati.

    «Il trend aziendale è in ulteriore crescita, i nuovi programmi di automazione del sistema di monitoraggio sono trainanti rispetto ai prodotti tradizionali della D.S.. Le critiche che riceviamo sono attinenti soltanto ai tempi di consegna della merce, in altre parole le cose vanno talmente bene che il nostro unico problema è che non siamo in grado di stare dietro agli ordini».

    Guardai le facce dei dirigenti intenti a fare calcoli e proiezioni.

    «Le sedi aziendali del nord est sono impegnate in uno sforzo massimo di produzione degli hardware per i catalizzatori difensivi, le altre unità produttive devono evadere ordini di adattamento del braindirect 16 ai comandi di onde cerebrali dei robot da prima linea bellica per almeno sei mesi».

    Mi alzai nervosamente dalla postazione pensando che forse non avremmo avuto tutto quel tempo, detti un’occhiata fuori dalla finestra guardando la concentrazione del pulviscolo che a quell’ora aumentava sempre d’intensità, poi mi rimisi a sedere di scatto. Robert, che aveva atteso che tornassi a prestare attenzione, ricominciò a parlare.

     «Quella che oggi intendiamo esaminare è una scaletta di priorità nelle consegne. Non possiamo trattare allo stesso modo le richieste che ci arrivano dalla Moldavia e quelle che giungono dalla Cina, neppure se le prime sono state effettuate in tempi antecedenti».

    Lo fermai con un gesto della mano.

    «Prima di andare avanti voglio sapere cosa ne pensa Jennifer».

    La signora Swanson, altrimenti detta Jennifer o Jenny, era la persona a cui prestavo più ascolto. Non aveva competenze tecniche né esperienza nello sviluppo di business plan, aveva però una spiccata capacità di analisi. Non aveva tra le sue qualità l’avvenenza né tantomeno la grazia, pareva una pianta da salotto addobbata male con una voce gracchiante, ma non mi perdevo mai le sue considerazioni.

     «Dottor spencer, colleghi, la linea fino a oggi adottata è sicuramente quella commercialmente più valida. Devo però invitarvi a riflettere sul fatto che i focolai di tensione nell’Armenia evolveranno in guerra e che in Ecuador il governo dovrà combattere in campo aperto i moti di ribellione supportati da Cile e Venezuela».

    Jennifer si fermò per bere una sorsata di acqua, dai volti dei presenti traspariva tutta l’antipatia nei suoi confronti.

    «La ragione per cui affermo questo è perché la richiesta di software provenienti da questi paesi devono avere la priorità, a meno che non s'intenda favorire gli insorti».

    Era buffo pensare che un’azienda sviluppatrice di programmi aziendali potesse decidere le sorti di una nazione. Intervenni per prevenire quello che sarebbe diventato un dibattito sterile e un concentrato di critiche.

    «Bene, gli elementi che ho appreso sono sufficienti, ho solo bisogno di pensarci su con calma».

    Nel prendere la giacca che avevo appeso all’attac-capanni, lanciai la bomba.

    «Sto valutando la possibilità di ritirarmi».

    Il silenzio fu molto più fragoroso dello scoppio di uno dei nostri ordigni.

    «Non dovete preoccuparvi, sono solo stanco. Chi guida questa Azienda non può permettersi cali di tensione emotiva o fisica e io sto esaurendo le batterie».

    Dal silenzio si passò al brusio.

    «Non abbandono né voi né la barca, ho solo detto che sto valutando l’ipotesi di lasciare, ma non lo farei senza garanzie di continuità per voi e per la Società. Mi sembrava corretto informarvi».

    Dopo aver congedato il gruppetto dei dirigenti mi ritirai nell’ufficio sigillando il cristallo d’ingresso.

    Da tre giorni non facevo altro che consultare la velina riservata che mi era stata inviata dal comando Centrale operativo occidentale. Altro che focolai di tensione, quello che si stava preparando era un immenso casino senza capo né coda, con un unico sbocco ipotizzabile: la guerra totale.

    Quel documento non era stato il primo. Da mesi ricevevo aggiornamenti di una situazione che evolveva verso i peggiori scenari ipotizzabili.

    E io mi stavo preparando anche se all’inizio non sapevo cosa inventare.

    Essere schifosamente ricchi e nel contempo certi che quel benessere di lì a poco si sarebbe volatilizzato era deprimente.

    Ero uno Spencer, qualcosa dovevo pur studiare, non poteva bastarmi la costruzione del bunker sotterraneo che stavo facendo progettare, e che avrebbe salvato me e pochi intimi, volevo e dovevo fare di più, ma non sapevo cosa.

    Anno 2101 -13 novembre- ore 16,14

    Uffici del Dott. Lowen Spencer

    La situazione andava degenerando, in sei mesi era successo di tutto. L’area balcanica era completamente fuori controllo, la Turchia rivendicava un ruolo guida mondiale sulla scorta di una vantata primogenitura islamica. Gli arabi, dopo la distruzione di Israele, contrastavano questo disegno egemonico per motivi religiosi, ritenendo che il popolo sciita fosse l’unico depositario della parola di Maometto. Gli Stati uniti, con quello che restava della vecchia Eurasia, erano impegnati a contrastare le minacce Cinesi contro la Germania e la Russia. Il Giappone, che aveva difficoltà a controllare le vicine colonie che solo recentemente aveva riacquisito, non aveva ancora preso una posizione netta. L’Australia, quasi sempre estranea ai conflitti internazionali, era impegnata a respingere le continue provocazioni della Corea unita per il controllo della Tasmania

    A complicare le cose ci si erano messe le organizzazioni terroristiche africane che controllavano militarmente gran parte del sud dell’intero continente.

    I problemi nati con l’aumento del consumo energetico e la diminuzione naturale dell’offerta si erano poi allargati al controllo della produzione alimentare in oriente, mescolandosi ora con questioni religiose e di razza, ora con rivendicazioni di sovranità su territori e lembi inutili di mare.

    E la terra soffocava sempre più nel pulviscolo, e l’acqua del mare diminuiva progressivamente per l’aumento della temperatura.

    Ogni sera andavamo a dormire sperando che ci fosse un indomani.

    Io non facevo politica. Non mi interessava, ero solo un imprenditore di successo che aveva ereditato una grande azienda e che doveva dare da mangiare a trecentomila famiglie tutti i mesi.

    Non volevo né potevo fare lo schizzinoso. I software e l’hardware in produzione erano quasi tutti destinati al mercato militare e noi vendevamo a tutti per non fare discriminazioni, e soprattutto per garantire gli stipendi.

    Non ci interessava il colore della pelle, il Dio in cui credevano i clienti o le rivendicazioni territoriali degli Stati. A noi bastava solo che la merce acquistata venisse pagata: pecunia non olet.

    La mia personale convinzione era che al mondo restasse poco tempo. Quelle che erano state le previsioni più nere sul futuro del mondo si erano dimostrate ottimistiche, e prima o poi qualcuno avrebbe cominciato a usare le armi, e le stok isotopiche non avrebbero lasciato sul terreno né vinti né vincitori. E neppure imperi.

    Tra le cose di mio nonno che conservavo sul tavolo di lavoro c’era una raccolta di carte (al tempo in cui viveva era ancora discretamente diffusa l’usanza di scrivere e prendere appunti su questa materia) raccolti in una graziosa cartellina gialla. Su questi fogli aveva appuntato di proprio pugno aforismi, frasi e battute di grandi autori del passato che lo avevano particolarmente colpito.

    Spesso nelle discussioni che intrattenevo a tutti i livelli, avevo saccheggiato anche questo patrimonio culturale spacciando per mie affermazioni che non solo non mi appartenevano ma che non erano attribuibili neppure a chi le aveva raccolte.

    Una sola di queste non avevo mai utilizzato, pur avendo sempre occupato un posto preminente nei miei pensieri. Si trattava di una frase che non aveva padrone, anche se veniva attribuita erroneamente a Einstein, uno scienziato vissuto un paio di secoli fa:

    Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana. Ma sull'universo non ne sono sicuro.

    Molto più modestamente anche la mia fiducia nell’intelligenza del genere umano era pari a zero.

    Per questo il grande bunker sotterraneo sotto casa era in via di realizzazione. Un rifugio a prova di tutto capace di ospitare una trentina di persone per almeno venti anni.

    Ordinai al dispenser un mezzo bicchiere di vodka ghiacciata, oggi non ero andato in ufficio l’aria era irrespirabile e avevo preferito prendere gli appuntamenti nel mio modulo abitativo dove avevo fatto allestire una grande sala riunioni.

    Dopo aver riposto carte e pensieri mi feci trasportare dalla scala magnetica nel sotto modulo dove da lì a poco sarebbero arrivati il capotecnico Stafford e la sua equipe. Non era mio costume farmi imporre calendari di lavoro o riunioni ma quella sera doveva essere un’occasione speciale. L’incontro mi era stato chiesto con forte insistenza perché era necessario vedersi prima possibile, magari oggi stesso.

    Queste erano le parole precise usate dal mio tecnico di fiducia fuori dalla D.S..

    Vidi arrivare Stafford dal monitor da polso proprio mentre il connettore fonico, sempre in funzione e programmato per selezionare gli aggiornamenti in tempo reale dello stato di crisi, stava trasmettendo dichiarazioni di fuoco del Leader cinese contro le ingerenze americane in asia minore minacciando rappresaglie qualora questa invasione non fosse terminata nelle successive trentasei ore.

    Ormai non ci facevo più caso.

    Il mio uomo entrò caracollando, in parte per la sua andatura naturale, per altra in ragione delle molte cose che trasportava in una buffa borsa a tracolla e dentro lo zaino che usava solitamente tenere sulle spalle curve.

     «Dottore, dottore buona sera».

    Se non lo avessi considerato un mezzo genio e non fosse stato per i risultati che procurava, senza conoscerlo lo avrei classificato come un mezzo demente e sicuramente non gli avrei dedicato un mozzicone del mio tempo.

    «Venga Stafford, si accomodi».

     Risposi, cercando di trasmettere al mio interlocutore la curiosità di conoscere il motivo di quella convocazione irrituale intimata al proprio Capo.

    Stafford non mi guardò neppure. Non si fermò nemmeno nella sala riunioni che avevo attrezzato per l’incontro, ma scese direttamente nel bunker in costruzione, per poi mettersi a sedere a capotavola sul tavolaccio di esoplastica che

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