Il mondo che verrà: Il lungo cammino
By Nicola Ibba
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Il mondo che verrà - Nicola Ibba
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Prologo
Quanto tempo ancora... quanto tempo ancora devo resistere all’interno di quell’enorme struttura medica in pieno centro città...
Mi chiedevo quanto ancora dovevo provarci prima che uno di quegli Individui mi strappasse la carne a morsi.
Più i giorni passavano e più trovavo difficoltà a entrare in quella stanza, restando ore rinchiusa in bagno a osservarmi allo specchio, intenta come al solito a legarmi i capelli, indossare il camice bianco e gli occhiali, per poi mandare giù due antidepressivi che il mio stomaco si rifiutava di ingerire, ed entrai nella camera bianca avvolta costantemente da quegli strilli angoscianti, fissando lo schermo a diciannove pollici davanti a me.
Registro di sviluppo Dottoressa Amanda Nardini, 14 febbraio 2036. Sperimentazione vaccino 6-2-5... soggetto 34, video in streaming...
La microcamera sugli occhiali riprendeva tutto, mostrando immagini ripugnanti.
Prova siero... il soggetto 34 è maschio, giovane età, sui diciotto anni circa... peso trentasei kg. La mancanza di radiazioni lo spinge a essere più violento, rischiando di strapparsi i polsi dai lacci che lo immobilizzano.
Fiatavo lentamente, osservando disgustata lo sfigurato volto che si ritrovava.
Per quanto tendono a mutare, la loro intelligenza non cala, tutt’altro... aumenta a velocità sorprendente; comunicano tra loro con versi striduli e privi di significato per l’udito umano.
Sospirai abbassando lo sguardo, facendo di tutto per non ascoltare il fracasso della camera accanto, fissando l’elettrocardiogramma.
Il battito cardiaco si sta stabilizzando... il soggetto sembra reagire bene al vaccino 6-2-5.
Sorrisi e mi levai gli occhiali mentre la microcamera continuava a riprendere.
Tieni duro ragazzo... tieni duro. Buon San Valentino...
Mi levai il camice e mi sciolsi i capelli, intenta a cambiarmi d’abito, indossando dei jeans strappati, una vecchia canottiera attillata e una giacca mimetica, prendendo da sopra il letto uno zaino, il fucile e l’arco, recandomi verso la sala mensa completamente vuota, pronta a uscire nuovamente in strada, a vagare in una delle città più antiche e famose d’Italia.
Ero sola, sola da ormai un anno, e avevo a disposizione un’intera capitale da saccheggiare; 2.864.67 abitanti morti, morti dalle radiazioni, dalle scosse sismiche, o morti in senso metaforico, visto che più della metà vagava per le strade, si nascondeva dentro i palazzi distrutti e abbandonati, credendo che forse ero l’unica rimasta in vita su tutto il pianeta terra.
Il cibo non mi mancava, avevo fatto scorta di tutto quello che potevo per evitare di stare troppo a lungo fuori, riempiendo la dispensa del centro medico; alimenti di ogni tipo, indumenti, armi, munizioni, attrezzatura, riviste. Tutto quello che volevo era a portata di mano, sapendo che più i giorni passavano, più quelli là fuori aumentavano, diventavano aggressivi e sempre più instabili. Ma io non mi arrendevo, continuavo a creare sieri, acciuffare Individui e sperimentarli su di loro, sperando che prima o poi avrei trovato una cura.
Non devi stare più sola... non sono sola... non lo sono...
Ogni giorno mi alzavo presto ed esploravo una zona nuova della città, per assicurarmi che fosse sicura. Alcune di esse erano coperte dalle radiazioni, e talvolta stavo ferma a pochi passi dal baratro, sentendo quegli striduli versi, pensando che bastava solo un altro passo per respirare quell’aria tossica e diventare una di loro, oppure peggio. Ma non lo facevo mai, non potevo farlo, e continuavo a vagare fino alla sera, stando in cima al Colosseo consumato dalle scosse, incline su una voragine enorme, desiderando di rivedere un’ultima volta il sole, il tramonto, coperto da quelle nuvole scure che non si diramavano nemmeno col vento, e alcune volte trascorrevo le nottate lì per non restare rinchiusa dentro quelle mura a sentire le sue continue grida; versi stridenti che mi pugnalavano il cuore.
E stavo distesa su quei blocchi di pietra in attesa dell’alba, fissando quella fotografia consumata dal mio sguardo, rovinata da tutte le lacrime che avevo versato.
Vedrai che troverò una cura fratello mio... ti salverò...
La accarezzavo delicatamente, abbracciando il fucile anestetico e l’arco, levando alto lo sguardo e intravedendo la volta celeste infiammarsi di rosso, credendo che il sole stesse finalmente sorgendo. Ma vidi una pioggia di detriti precipitare a ovest dalla mia posizione.
Mio Dio...
Un boato tremendo venne seguito dai frastuoni del cielo, assistendo alla caduta di un aereo da trasporto.
Parte I
«Emily, scappa! Emily, va via! Prendi la bambina e fuggite! Presto, fuggite!»
Per quanto cercavo di urlare, la mia voce veniva coperta da quelle devastanti esplosioni. La casa tremava e tutt’attorno a me cadeva a pezzi. Un bagliore accecante penetrava dalle finestre in frantumi, riuscivo a malapena a vedere il suo volto in lacrime, sentire le urla di mia figlia.
Sfondai la porta con un calcio, davanti a noi i campi di grano erano in fiamme, oltre le colline una nube nera si espandeva ricoprendo la grande città. Per un momento, mi fermai; non riuscivo a credere ai miei occhi, non riuscivo a credere che stava accadendo davvero.
«Presto, venite... salite sul pick-up!»
Udì vagamente la voce di mio fratello vedendolo correre verso di noi. Prese per mano Emily trascinandola verso la vettura. Io presi in braccio Caren, notando il suo volto arrossato da un lungo e interminabile pianto di disperazione. Corsi verso il Pick-up e mi voltai di scatto, assistendo alla caduta dell’enorme salice che si sradicò affondando sopra il tetto della casa. La terra stava tremando e davanti a noi quella nube nera era sempre più vicina.
«Fiuto è rimasto dentro! Papà, Fiuto è rimasto dentro» strillava Caren, stringendosi forte a me.
Io raggiunsi il veicolo e la feci salire nel sedile posteriore accanto alla madre. «Vado a prendere Fiuto... non ci metto molto» dissi, guardando con occhi colmi di lacrime Emily, mentre facevo indossare il berrettino rosa a mia figlia.
«Non abbiamo tempo!» strillò lei, strozzando l’ultima parola. «Dobbiamo andare via ora.»
«No! Io non vado via senza Fiuto!»
Continuavo a sentire vagamente i piagnucolii di mia figlia, l’insistente voce di mia moglie, e rimasi pietrificato a osservarle mentre piangevano, mentre tutto tremava, mentre io cercavo di mantenere la calma.
«Non posso abbandonarlo...» con amarezza pronunciai quelle parole distanziandomi dal pick-up. «Mettetevi le cinture.» Chiusi la portiera gettando un rapido sguardo a mio fratello. «Accendi il motore Brad» mi accostai a lui afferrandolo per le spalle.
«Non... non andare... è una follia...» mormorò a labbra serrate.
«Io non abbandono nessuno. Tra un minuto partiamo, accendi il motore» lo fissai tristemente e corsi verso la casa facendomi largo in mezzo ai detriti che cadevano dal soffitto, tra gli intricati rami del salice che lentamente cedevano sempre di più.
L’ultima cosa che sentii fu il vagito di Fiuto, il suo profondo e disperato ululo, e poi il buio totale.
Mi svegliai di colpo strizzando più volte gli occhi, era quasi l’alba, forse. Il fuoco si era spento diventando un cumulo di cenere, il freddo era sempre più intenso e ormai non riuscivo più a distinguere il giorno dalla notte. Mi strinsi a una vecchia coperta umida e unta di fango per avere più caldo, ma non sembrava funzionare.
Alle mie spalle c’era un vecchio mulino abbandonato da chissà quanti anni. Ormai non sapevo nemmeno più dove stavo andando, cosa stavo facendo, era da troppo tempo che camminavo in mezzo a quelle campagne deserte senza trovare un briciolo di vita.
Gli orologi si erano fermati durante l’estate del 2033. Era circa un anno che camminavo senza meta, in cerca di un riparo, di cibo, di altri sopravvissuti. Credevo fosse autunno ma non ne avevo certezza, il tempo era sempre uguale, scuro, freddo, tempestato di nuvole, il clima era sfasato, tutto cadeva a pezzi. Il freddo, uno dei principali pericoli che ogni giorno dovevo affrontare, aumentava man mano che il mondo moriva.
Le strade non erano mai sicure, i profughi ci bazzicavano in cerca di uomini come me da borseggiare, come se avessi qualcosa di prezioso. Non avevo nulla, indossavo solo una maglia, un giubbotto in pelle e dei jeans rovinati, nient’altro. Mi trascinavo dietro una sacca che conteneva qualche scarto di cibo, un coltello, delle forcine, delle riviste che raccoglievo lungo il cammino: tanto per leggere qualcosa. Una pietra focaia e dei fogli per me tanto importanti; forse l’unica cosa che mi dava un valido motivo per andare avanti.
Il fuoco mi aiutava a sopportare il freddo, a trascorrere le notti con più sicurezza, ma soprattutto teneva distante i Tramutati. Se stavo per strada rischiavo di venire aggredito da qualche gruppo di uomini. Molto spesso incontravo le Bande, ma cercavo sempre di evitarle. Loro erano armati, mentre io avevo solo un coltello che utilizzavo per scavare nella terra in cerca di qualche insetto da mangiare.
Dopo quello che persi, dopo tutti gli sforzi che feci per ritrovarle senza nessun risultato, la mia meta divenne il Giappone; sapevo che il disastro avvenuto due anni fa proveniva dalla mega centrale nucleare di Kashiwazaki-kariwa, la più grande al mondo; i dieci reattori esplosero misteriosamente creando un’esplosione a catena che mandò l’intero pianeta nel caos. Le radiazioni si espansero in tutto il mondo nel giro di un anno, nessuno riuscì a impedire questa catastrofe e morirono migliaia di persone. Non sapevo nemmeno se esistevano ancora delle comunità visto che la maggior parte dei sopravvissuti venne contaminata. Chi non moriva veniva di conseguenza mutata diventando creature deformi che ormai chiamavamo Tramutati.
Sapevo per certo che dovevo raggiungere il Giappone, dove tutto era iniziato, e che lì esisteva ancora un centro di ricerca attivo per eliminare la grande nube radioattiva che invadeva il pianeta e stava continuando a distruggere ogni forma di vita, ma da solo era una meta praticamente irraggiungibile. Dopo un anno non ero ancora riuscito a lasciare l’America.
Mi ero lasciato alle spalle le grandi vallate del Nebraska, sperando di trovare qualcosa di utile in Texas, e lì prendere il largo. Credevo che ormai mancasse poco, anche se avevo perso da parecchio la cognizione del tempo, non distinguevo più il nord dal sud e non volevo arrivare a New York; preferivo evitare le grandi città, proprio per il rischio radiazione.
Presi dalla sacca una bottiglietta d’acqua, era quasi finita è già da un po’ non trovavo più del cibo, l’unica cosa che mi era rimasta era una scatoletta per cani. L’etichetta era illeggibile e probabilmente era scaduta da diverso tempo.
«Fiuto... ehi, Fiuto! Hai fame?!» chiamai il mio cane che stava a pochi passi da me, sdraiato su un mucchio di terra mossa. Si alzò con le orecchie basse e spelacchiate. Anche lui privo di forza e parecchio magro, mi si accostò. «Eh... come va, Tito... hai fame?» gli feci un debole sorriso e lo coccolai mentre lui si sfregava sul mio fianco. Gli versai metà scatoletta a terra; l’odore della carne non era invitante e sembrava che anche lui non apprezzasse quella scadente colazione.
Tito era il nomignolo che gli aveva dato mia figlia. Lo presi quand’era ancora cucciolo, durante una delle mie spedizioni di lavoro in Romania. Mia moglie e mia figlia si affezionarono subito a lui. Si era sempre dimostrato un cane di carattere forte e indipendente, molto legato al proprio padrone, e un ottimo guardiano e difensore. L’unico che mi era rimasto, l’unico che anche nelle situazioni più drastiche non mi aveva mai abbandonato.
Lentamente si mise a mangiare il poco cibo in scatola che gli diedi e io mi prestai a fare altrettanto. Lo stomaco da quant’era chiuso si rifiutava d’ingoiarlo, non sentivo nemmeno più i gusti del cibo, mi ero dimenticato completamente il sapore di una buona bistecca, il dissetante gusto di una cola, oppure di una birra ghiacciata. Tutti alimenti che probabilmente non esistevano più.
Entrambi finimmo di mangiare e raccolsi tutta la roba. Ripresi il viaggio molto più presto del solito, dovevo trovare velocemente dei rifornimenti, sperando che in Texas avrei incrociato qualche cittadina da setacciare che non fosse coperta da radiazioni.
Camminavo in mezzo a quella terra arrida e quasi completamente morta, non incontravo animali da parecchio ormai, ma forse era un bene. La tentazione di ucciderli e mangiarli mi faceva rabbrividire, soprattutto perché non sapevo se fossero commestibili. Accade spesso che gli animali siano i primi a essere contaminati, ma senza mostrare alcun sintomo; possono bere acqua radioattiva, oppure cibarsi di carcasse. Dopo tutto il viaggio che avevo fatto l’idea di morire avvelenato non mi allettava per niente, ecco perché non volevo incontrare bestie di nessun tipo; la tentazione di mangiarle sarebbe stata troppa e volevo evitare che accadesse.
Camminai per diverse ore risalendo una grande altura, da quella posizione vidi una strada principale e, a qualche miglio dalla mia posizione, una struttura. Mi fermai qualche minuto a riposare, mentre Fiuto si accucciò ai miei piedi. Il vento stava aumentando sempre di più, non sentivo aria di radiazione, anche se verso ovest intravidi una enorme cappa nera; probabilmente si trattava di una città invasa dalla nube, ma era parecchio distante, nulla di cui mi dovevo preoccupare. Mi resi conto che ero entrato nel territorio Texano, ma lungo la strada non intravidi anima viva.
Amareggiato, ripresi a camminare discendendo la collina, poteva essere un azzardo avvicinarmi troppo alla strada, in passato mi ero imbattuto con della gente che voleva derubarmi. Molti di loro, in diversi casi, non si limitavano a levarti le mutande, ma arrivavano a massacrarti o addirittura ucciderti. Deducevo che fino a quel momento ero stato fortunato, ma non sapevo se fosse meglio venire ucciso per mano di un uomo o di un Tramutato, oppure morire di fame e di sete, o a causa delle radiazioni.
Non rimasi a pensarci troppo, ero solo felice di riuscire a camminare ancora con le mie gambe, e che accanto a me ci fosse Fiuto a farmi compagnia e proteggermi.
La mattina e il pomeriggio volarono via e dopo una lunga scarpinata raggiunsi quell’edificio. Era una stazione di benzina apparentemente abbandonata.
Stavo crepando dalla fame, speravo solo che quella fosse la volta buona per trovare qualcosa da mangiare. Persino Fiuto riusciva a stento a stare al passo, entrambi eravamo esausti e senza forze.
L’insegna Diesel penzolava accanto alle pompe di benzina e la scritta Self-service era quasi illeggibile. I distributori, da com’erano ridotti, non davano speranze di trovare un po’ di gasolio, che in tempi del genere era definito oro liquido visto che ne era rimasto ben poco in tutto il mondo.
Alcune vetture erano posteggiate alla rinfusa dentro il piazzale. La speranza di trovarne una funzionante mi sfiorò la mente, anche se a prima impressione sembravano ferme da parecchio tempo.
Mi allontanai dalla strada accostandomi lentamente verso i distributori, era tutto molto silenzioso e allo stesso tempo inquietante, l’aria che tirava pareva più grigia del solito. Avrei voluto ispezionare subito l’interno dell’edificio in cerca di cibo e vestiti asciutti, ma decisi di fare prima un sopralluogo nei dintorni, anche se dal trambusto che c’era era chiaro che qualcuno fosse arrivato prima di me.
Mi misi a controllare le pompe di benzina, mentre Fiuto si distanziò facendo il giro della stazione per assicurarsi che non ci fossero ostili nei paraggi.
Come supponevo, non c’era un goccio di carburante, e anche se ci fosse stato le bocchette erano troppo arrugginite e otturate per tirarlo fuori. Accanto ai distributori c’era un vecchio veicolo; un rottame, visto che qualcuno lo aveva smontato pezzo per pezzo.
Andai avanti ispezionando altre vetture, nessuna di esse utilizzabile, e anche lì i serbatoi erano a secco, avevano perfino strappato i sedili e il volante. Tutto quello