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Il Libro Perfetto
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Il Libro Perfetto

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About this ebook

Lorenzo ha quasi quarant’anni, uno studio di consulenza avviato, un matrimonio appena finito e una storia da scrivere, di cui conosce la conclusione ma non l’inizio.
Un viaggio nell’India nel Nord si trasformerà per lui in una straordinaria avventura: inseguirà le tracce del misterioso autore di un altro libro di cui è stato scritto l’inizio, ma non la fine.
L’autore di questa seconda storia è Leo, un musicista che, come Lorenzo, si è recato in India alla ricerca di ispirazioni per scrivere la canzone perfetta.
La ricerca di Leo porterà Lorenzo dalla mistica città di Rishikesh, attraverso le regioni del Punjab, del Kashmir e del Ladakh, fino a un monastero isolato della Valle di Nubra, circondato dalle vette dell’Himalaya.
Un viaggio nelle affascinanti e selvagge regioni dell’India del Nord, attraverso il dedalo di religioni, etnie e culture che le caratterizzano. Ma anche un viaggio alla ricerca del sé perduto.
LanguageItaliano
Release dateJun 20, 2017
ISBN9788893371650
Il Libro Perfetto

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    Il Libro Perfetto - Massimo Lazzari

    libro

    PROLOGO

    Di certo ti starai chiedendo perché ho scelto un titolo così ambizioso e pretenzioso.

    Anche io, come te, ho letto tanti libri nel corso della mia vita e anche io, come te, so con certezza che non può esistere un libro perfetto.

    I libri sono scritti da persone. Quindi ciò presupporrebbe che esistesse, o sia esistita in passato, una persona in grado di pensare a una storia perfetta e di scriverla in modo perfetto. Di più, ciò presupporrebbe che quella persona sia io.

    Tuttavia, prima di lasciarti pervadere dallo scetticismo, così tipico della cultura in cui sei cresciuto, prova a ragionare un attimo su che cosa significhi la parola perfezione.

    Chiudi gli occhi e pensa al libro più bello che tu abbia mai letto.

    A quello che ti ha emozionato fino a farti venire le lacrime agli occhi.

    A quello che ti ha tenuto incollato alle pagine facendoti dimenticare ciò che succedeva intorno.

    A quello che avresti voluto non finisse mai.

    A quello in cui ti sei immedesimato talmente tanto con il protagonista e la storia che hai pensato fosse stato scritto proprio per te. Solo per te.

    E ora riapri gli occhi e rispondi alla seguente domanda.

    Non si potrebbe forse dire che questo libro, a cui hai pensato, si avvicini di molto al concetto di libro perfetto?

    E se ti dicessi che esiste un libro in grado di farti provare emozioni ancora più intense?

    Di tenerti incollato alle sue pagine ancora di più?

    Di farti desiderare che non finisca talmente tanto che, a forza di desiderarlo, non finirà mai?

    E se ti dicessi che il protagonista di questo libro sei tu?

    E che quella che racconta è proprio la tua storia?

    E se ti dicessi, infine, che questo libro è stato scritto, non solo per te, ma addirittura, da te?

    Ebbene, ti posso assicurare che questo libro, che tu pensavi non potesse esistere, lo stai tenendo tra le mani.

    E che, se lo leggerai fino alla fine, anche se una fine vera e propria non ci sarà, capirai che questo è, senza dubbio, quello che potrai chiamare " il libro perfetto ".

    1 – UN VIAGGIO VERO

    Mi trovavo a Rishikesh da tre giorni e iniziavo a chiedermi seriamente che cosa ci facessi qui.

    Seduto sull’erba di un parco cittadino, osservavo il Gange davanti ai miei occhi. Impetuoso e limpido. Difficile credere che fosse lo stesso fiume sporco e melmoso che attraversava Varanasi, qualche centinaio di chilometri più a valle. La città sacra in cui milioni di pellegrini si recavano per purificare la propria anima immergendosi nel fiume. O per affidare alle acque inquinate il proprio corpo mortale, nella speranza di rompere il ciclo del samsara. Vita, morte e rinascita.

    A Rishikesh, in questa piccola cittadina dell’Uttarakhand, il Gange conserva ancora la purezza delle vette himalaiane in cui sorge. Il ghiacciaio di Gangotri può essere raggiunto con una breve escursione di un paio di giorni. Ci stavo pensando seriamente. Sarebbe potuta essere la mia prossima meta.

    Non c’era nulla, in effetti, che mi trattenesse ancora qui. Il posto era grazioso e immerso nel verde, ma un po’ troppo lontano da come mi ero immaginato il viaggio in India. Per le strade del centro, e nei parchi lungo il fiume, incontravo solo gente che praticava yoga e meditazione. O che provava a vendere ai turisti corsi di yoga e meditazione. C’era anche qualche anacronistico hippy, e molti che hippy non erano di certo, ma gli piaceva farlo credere. Tra questi ultimi vi erano molti italiani. Troppi per i miei gusti.

    Ero venuto in India per tre ragioni principali.

    Visitare un Paese che mi aveva sempre affascinato, ma nel quale, per un motivo o per l’altro, non ero mai riuscito a recarmi.

    Provare le emozioni forti che solo un viaggio da queste parti poteva offrire.

    Evitare le classiche mete da primo viaggio in libertà dopo il divorzio, e soprattutto evitare di incontrare troppi connazionali.

    Molti amici, nelle mie stesse condizioni, mi avevano suggerito di andare in Tailandia, Brasile, Cuba. Ma non era il turismo sessuale che cercavo, né calde spiagge tropicali in cui avrei avuto troppo tempo per pensare e piangermi addosso.

    Volevo un viaggio vero. Zaino in spalla e zero programmazione. Libero di scegliere la meta giorno dopo giorno. E di farmi sorprendere dalla vita, di provare emozioni reali. Per questo avevo scelto l’India.

    E poi c’era il Nepal, lì a portata di mano. Il sogno di una vita, il viaggio che non avevo fatto da ragazzo. Pianificato, e annullato, l’anno in cui il terremoto sconvolse Kathmandu, facendo sgretolare il tetto del mondo.

    Avevo ottenuto il visto sia per l’India sia per il Nepal. Tre mesi il primo, due il secondo. Quindi, potenzialmente, fino a cinque mesi per starmene lontano dall’Italia, dal lavoro, dalla mia ex-moglie.

    Paolo aveva capito la mia situazione e, nonostante lo studio fosse sommerso di progetti da portare a termine prima della chiusura estiva, non aveva battuto ciglio quando gli avevo comunicato la mia decisione.

    Lui aveva fatto la stessa cosa due anni prima. Dopo la chiusura turbolenta della sua causa di divorzio, aveva passato ben sei mesi in America Latina. In quel periodo mi ero caricato volentieri sulle spalle il peso dell’intero studio, anche dei suoi clienti.

    Questo mio sacrificio aveva consentito allo studio di preservare il fatturato. A Paolo di recuperare la serenità di cui necessitava per riprendere a lavorare con lo stesso entusiasmo con cui, qualche anno prima, avevamo avviato l’attività. A me di passare sempre più tempo in ufficio, lontano dall’aria tesa che si iniziava già a respirare tra le mura di casa.

    La conseguenza era inevitabile. Dopo poco più di due anni le parti si erano invertite. Paolo, dimostrando l’incapacità di imparare dagli errori, si era risposato. Con una stagista di dieci anni più giovane. Che nel giro di pochi mesi avrebbe sfornato il secondo figlio del mio socio. Un bel casino, gli avevo detto quando me lo aveva rivelato. Un bel casino. La stessa frase che mi aveva detto lui quando gli avevo confessato la fine del mio matrimonio e il desiderio di andarmene via per qualche mese. Non eravamo molto comunicativi tra noi.

    Poche settimane dopo ero già sul volo che mi avrebbe portato a Delhi via Dubai. Per tutta la durata non avevo chiuso occhio. Ero elettrizzato dall’avventura che stavo intraprendendo, ma anche spaventato.

    Non ero più un ragazzino, e quella che a vent’anni sarebbe potuta essere una straordinaria esperienza di vita, a quasi quaranta poteva rapidamente trasformarsi in un incubo. Troppe erano le incognite che mi tormentavano.

    Il cibo innanzitutto. La cucina indiana non era l’ideale per la gastrite cronica che mi affliggeva da troppi anni.

    E poi gli spostamenti. Troppi racconti di viaggi su bus sgangherati o su treni stracolmi. Di autisti spericolati e indisciplinati. Di strade malmesse, intasate da veicoli di ogni genere, da mendicanti, da vacche e altri animali. Ero determinato a non farmi influenzare più di tanto dagli stereotipi, ma non potevo evitare di pensare agli effetti di tutto ciò sul mio già provato sistema nervoso.

    Condizioni igieniche, malattie varie e clima instabile completavano il quadretto. Ma l’avevo scelto io questo viaggio. Finalmente. E volevo viverlo intensamente, nonostante le difficoltà che avrei incontrato. Anzi, soprattutto attraverso queste. Speravo veramente di trovarmi in situazioni di disagio, di scomodità e forse anche di pericolo. Volevo dormire in bettole fatiscenti. Mangiare cibo disgustoso con le mani. Condividere la carrozza del treno con centinaia di indiani sudati.

    Per la prima volta nella mia vita, volevo fare un viaggio e non una vacanza.

    Nei giorni prima di partire avevo fantasticato a lungo sui luoghi che mi sarebbe piaciuto visitare. Anche se avevo deciso di non fare programmi e di lasciarmi guidare dagli eventi, c’erano alcune cose che volevo assolutamente vedere. Fin da quando ero ragazzo.

    Il Taj Mahal ad Agra, i ghat di Varanasi, le spiagge di Goa, i templi del Kerala, gli slum di Mumbai. E poi il Nepal. Non vedevo l’ora di visitare Kathmandu e i suoi monasteri buddisti. E di fare trekking sull’Annapurna o su altri massicci himalaiani, al cospetto delle vette più alte del mondo.

    Rishikesh non rientrava nella mia lista iniziale. Avevo letto sulle guide di questo luogo, ma yoga e meditazione non mi tentavano per niente. Ero più attratto da emozioni forti, contrasti sociali, natura selvaggia. Eppure, mi trovavo qui da tre giorni e ancora non capivo cosa mi trattenesse dall’andarmene. O meglio un’idea ce l’avevo.

    « Hola Lorenso. Que pasa?»

    Quell’idea si materializzò alle mie spalle con un irresistibile accento castigliano. Mi voltai con un sorriso da ebete, contemplandone in silenzio le forme e i colori. Quell’idea aveva un nome. Vanessa.

    2 - VANESSA

    Vanessa era una bellissima ragazza di Toledo, di un paio d’anni più giovane di me. L’avevo conosciuta sul volo Dubai-Delhi. Il caso aveva assegnato a lei il posto accanto al mio, io avevo fatto il resto attaccando subito bottone. Non cercavo avventure amorose in questo viaggio, il genere femminile mi aveva creato non pochi problemi negli ultimi tempi. Però non avevo saputo resistere ai suoi lunghi capelli castani, agli occhi maliziosi, alle lentiggini, alle labbra carnose. E alle curve che si intuivano sotto i vestiti.

    Leggeva un libro di poesie di Pedro Salinas, in lingua originale. Mi ero presentato nel mio spagnolo stentato, retaggio di un corso frequentato durante l’Università e di qualche ragazza frequentata a Ibiza. Per fortuna lei parlava italiano meglio di quanto io parlassi spagnolo, avendo vissuto qualche mese a Roma. Nelle quattro ore di volo raccontò tutta la sua insolita e affascinante vita. Dopo aver studiato relazioni internazionali a Madrid, aveva viaggiato tantissimo, lavorando per organizzazioni no profit prima, e per istituzioni governative poi. Aveva vissuto in Ecuador, Costarica, Angola, Marocco, Filippine, Cambogia. Solo per citare i posti cui riuscivo ad assegnare una posizione sul mappamondo.

    A trentacinque anni aveva girato più di quanto una persona normale riesca a fare nel corso di tutta una vita. E aveva anche avuto più relazioni di quante una donna di quell’età potesse annoverare senza rischiare di essere chiamata nel peggiore dei modi. Aveva vissuto anche con una ragazza libanese, durante uno strano inverno a Bruxelles. Quando raccontò questa cosa, con il più innocente sorriso sulle labbra, non potei fare a meno di eccitarmi e di sentirmi a disagio per la mia perversione. In quel momento decisi che Vanessa era la mia donna ideale.

    Da un paio d’anni era entrata in contatto con una particolare tecnica di meditazione che le aveva cambiato la vita. Non ne avevo mai sentito parlare ma, stando a quanto mi raccontò Vanessa, era molto diffusa nel mondo. Tantissime persone la praticavano regolarmente, tra queste anche uomini e donne famosi.

    Vanessa mi disse di aver conosciuto un guru, una specie di santone, durante il suo ultimo viaggio in India, in una cittadina chiamata Rishikesh. Cercai questo luogo sulla guida e rimasi sorpreso nel leggere che, in effetti, era conosciuto come la capitale mondiale della meditazione e dello yoga. Non ero mai stato interessato a queste mode new-age, dedicandomi ad attività più tradizionali quali la corsa, il trekking, la palestra. Tuttavia, avrei dovuto sapere che i Beatles si recarono proprio in questa città verso la fine degli anni Sessanta, per apprendere la meditazione da un guru del posto, tale Maharishi Mahesh Yogi. Amavo i Beatles e conoscevo a memoria la biografia dei Fab Four, quindi questo fatto che ignoravo mi spiazzò.

    Vanessa mi descrisse sinteticamente in che cosa consistesse la meditazione e il suo percorso personale. Aveva frequentato il corso di base a Rishikesh, vivendo per un paio di settimane nell’ ashram del guru, una scuola residenziale di meditazione. Finito il corso, era tornata a Madrid e aveva iniziato a praticare regolarmente, e a frequentare altri seguaci che aveva trovato sui social network. Si era creato così un gruppo di persone molto variegato. Una coppia di italiani che gestivano una pizzeria nella capitale spagnola. Una signora di Formentera, con un passato da figlia dei fiori e che in estate vendeva braccialetti in un piccolo negozio sull’isola. Uno studente di cinema catalano, con la passione per David Lynch e per la marjuana. Un fotografo molto conosciuto in città, e il suo compagno, modello e attore teatrale.

    Spesso si ritrovava insieme a queste persone per meditazioni collettive e ben presto si era resa conto che la pratica apportava benefici fisici e mentali, sia a lei che alle persone con cui interagiva quotidianamente. Era stanca di viaggiare e di non avere un posto che potesse chiamare casa. Soprattutto, era desiderosa di fare qualcosa che potesse aiutare altre persone, di sentirsi ancora utile come negli anni in cui aveva collaborato con organizzazioni umanitarie nel Terzo Mondo. Prima di essere risucchiata dal vortice di una vita instradata sui binari della sicurezza economica e del conformismo sociale.

    Aveva quindi deciso di diventare insegnante di meditazione. Aveva sostenuto la prima parte del corso a Salamanca. Ora si stava recando a Rishikesh per completare la preparazione, con una sessione intensiva presso lo stesso guru che l’aveva iniziata, anni prima, a questa nuova vita.

    Nonostante l’entusiasmo che trasudava dai suoi racconti, continuavo a rimanere scettico nei confronti della meditazione. La mia razionalità e, soprattutto, gli schemi mentali con cui ero cresciuto, non mi consentivano ancora di accettare che fosse possibile chiudere gli occhi, recitare una parola adatta e, in questo modo, entrare in contatto con un flusso di energia benefico e illimitato.

    Ma in quel momento non ragionavo più con la testa. Era un’altra parte del corpo a decidere i prossimi passi. E quella parte del corpo premeva, letteralmente, per seguire quella deliziosa spagnola ovunque fosse andata. Era proprio quello che cercavo. Il cambio di programma improvviso. Il bivio preso a occhi chiusi. Una splendida ragazza aperta di mente e, forse, anche di gambe.

    In quel momento decisi che sarei andato a Rishikesh. In fondo avevo tre mesi di tempo per girare l’India. E sapevo che, come dicevano i Led Zeppelin, " ci sono due vie che puoi percorrere, ma alla lunga c'è sempre tempo per cambiare strada".

    Non sapevo ancora che anche i Led Zeppelin potevano sbagliare.

    3 – DELHI

    Appena atterrato a Delhi feci subito due docce.

    La prima doccia fu quella calda, di sudore. Era giugno, nel bel mezzo della stagione delle piogge, e l’aria della capitale indiana era satura di umidità e afa insopportabile. Pensavo di essere preparato, non avevo mai sofferto il caldo. Lo adoravo. Ma quello che provai appena uscito dall’aeroporto, non era caldo. Era qualcosa di abbastanza simile all’idea che avevo dell’inferno.

    La seconda doccia fu quella fredda che mi fece fare Vanessa.

    Io mi ero già fatto il viaggio nella testa. Avrei offerto alla spagnola di condividere con me la camera che avevo prenotato per la prima notte al Royal Plaza, unico lusso che mi ero concesso per recuperare la prevedibile stanchezza accumulata durante il volo. Lì, in quello scenario da mille e una notte, non avrei avuto problemi a sedurla. Nella mente apparivano scene del suo corpo nudo avvolto dalle lenzuola di seta. Nelle orecchie risuonava già l’eco di orgasmi castigliani. Sulle labbra potevo assaporare il sapore della sua pelle, che avrei leccato da cima a fondo.

    Invece Vanessa mi gelò, interrompendo il mio film privato. Mentre aspettavamo un taxi, annunciò che sarebbe immediatamente partita per Rishikesh. Doveva sbrigarsi e raggiungere la stazione ferroviaria entro un’ora. Avrebbe preso un treno per Haridwar, dove la aspettava un’auto che la avrebbe portata a Rishikesh. Aveva già un letto, senza lenzuola di seta, che la aspettava nell’ashram del santone.

    Ci rimasi talmente male che sentii il sorriso sciogliersi sul viso, come un ghiacciolo sotto l’afa di Delhi. Ci scambiammo i contatti con la promessa che ci saremmo rivisti a Rishikesh se fossi passato da quelle parti. Lei si sarebbe fermata lì per una decina di giorni, poi sarebbe rientrata in Spagna.

    «Forse verrò», le risposi in modo evasivo. «Ma non te lo posso assicurare. Ho deciso di non programmare nulla in questo viaggio».

    In realtà stavo pensando puoi scommetterci che vengo a Rishikesh señorita, domani sono già lì. Vanessa mi guardò sorniona e annuì. Mi aveva letto nella mente. Le lasciai il primo taxi e ci salutammo con due casti baci sulle guance.

    Rimasto solo fui assalito dallo sconforto. Mi trovavo in una delle città più popolose, grandi e caotiche del mondo. Non conoscevo nessuno. Non sapevo dove andare, a parte l’hotel che avevo prenotato per la notte. Avevo solo lo zaino, il passaporto con un visto per tre mesi e un bel po’ di contanti. Forse troppi per sentirmi al sicuro in un posto come Delhi, dove mille mani si allungano avide verso il turista impreparato.

    Saltai dentro il primo taxi libero e mi feci portare al Royal Plaza. L’autista mi sorrise e si tuffò nel traffico congestionato. Mi rilassai sullo schienale e, cullato dal rumore dei clacson e di una cantilena indiana alla radio, finalmente mi assopii.

    Quando l’autista mi svegliò pensavo di aver dormito dieci secondi. Guardai l’orologio e scoprii che in realtà il tragitto era durato più di mezzora. Pagai il simpatico indiano e lo salutai. Lui dondolò la testa a destra e a sinistra, sempre con il sorriso stampato sul volto.

    Uscii dal taxi e mi fermai a fissare le torri dell’hotel. Le avevo viste in foto, sul sito web. Ma non immaginavo fossero così alte e imponenti. Sopra quelle, un cielo basso e plumbeo, carico di pioggia monsonica. L’aria era satura di umidità, smog e un forte odore speziato, proveniente dai tanti carretti degli ambulanti che vendevano cibo. Entrai risoluto nell’hotel e mi bloccai ancora una volta, stordito dalla sontuosità della hall. Un ambiente immenso, sfarzoso, pieno di personale e turisti eleganti.

    Mi guardai in uno dei grandi specchi e provai subito imbarazzo. Scarpe da trekking, jeans, t-shirt, zaino e cappellino. Un abbigliamento più adatto a un rifugio di montagna. O a un ostello. Di sicuro a una persona di vent’anni più giovane. Provai a immaginare cosa sarebbe successo se fossi entrato, vestito in quel modo, in un hotel del genere in Italia. Ospiti che si girano a guardarmi con la faccia schifata, receptionist che mi accolgono con un sorriso di circostanza. Rimasi stupito invece di notare che nessuna delle persone presenti badava a me, ad eccezione del personale di servizio che mi salutava con grandi sorrisi e dondolii della testa.

    Avanzai verso la reception, pensando a due cose. Che gli indiani iniziavano già a piacermi. E che ero stato molto presuntuoso a prenotare una camera in un hotel del genere, sapendo che vi sarei giunto acconciato come un profugo. Mi ripromisi di evitare in futuro di commettere errori simili, almeno per quella parte di futuro che riguardava la permanenza in Asia. Le prossime sistemazioni sarebbero state più consone allo spirito del viaggio. Per il momento però ero contento di avere una camera con l’aria condizionata e un letto comodo che mi aspettavano. Dovevo riprendermi dal volo e dall’impatto con l’India. All’avventura avrei pensato l’indomani.

    Consegnai il passaporto a una bella e sorridente

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