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Il commissario Richard. Plenilunio allo zoo
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Il commissario Richard. Plenilunio allo zoo

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Per Andrea Camilleri, suo estimatore, Ezio D’Errico è un artista “dotato di una genialità rinascimentale”. E unico, più volte imitato, è il suo indimenticabile commissario Richard, che con De Vincenzi è tra i personaggi più originali della storia del giallo italiano (e anche dei “mitici” gialli Mondadori). Disincantato, concreto, solo in apparenza distaccato, il “simenoniano” Richard indaga in una Parigi e in una provincia francese non di rado inospitali, popolate di figure ambigue e spiazzanti, spesso ai margini della società, individui rifiutati, disadattati, solitari. Quale strano movente lega l'assassinio, avvenuto in circostanze terribili, di alcuni guardiani dello zoo di Parigi? Perché le aggressioni avvengono sempre nelle notti di luna piena? Richard pensa inizialmente al gesto di serial killer ma un ennesimo efferato delitto accaduto davanti ai suoi occhi apre nuovi inquietanti scenari. Una strana donna di origini russe e un curioso tipo di stregone polinesiano, sembrano infatti tramare qualcosa che va ben al di là di un piccolo episodio di corruzione scoperto per caso. E cosa c'entrano con il plenilunio allo zoo? In un drammatico faccia a faccia finale con tutti gli indiziati, il Commissario risolverà il caso grazie al suo infallibile intuito.
LanguageItaliano
Release dateJul 12, 2017
ISBN9788893040846
Il commissario Richard. Plenilunio allo zoo

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    Il commissario Richard. Plenilunio allo zoo - Ezio D'Errico

    Ezio D'Errico

    Il commissario Richard Plenilunio allo zoo

    Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti

    secondo gli standard dell'International Digital

    Publishing Forum

    ISBN 9788893040846

    Prima edizione digitale 2017

    PLENILUNIO ALLO ZOO

    PRIMA PARTE

    Capitolo primo

    L'Equatore a Parigi

    Se è vero che Parigi è il paese dove tutte le plaghe del mondo e tutti i popoli sono rappresentati come i ritagli di stoffa in un campionario di sartoria, possiamo ben dire che i tropici si sono rifugiati in fondo a quel triangolo del bois de Boulogne i cui cateti sono costituiti dal boulevard Wallace e dal boulevard Maillot, mentre l'Allée di Longchamp serve da ipotenusa.

    I lettori hanno già capito che vogliamo alludere al Jardin d'Acclimatation, che oramai anche a Parigi tutti chiamano Zoo, usando un termine che per la sua brevità si è imposto in ogni lingua. Lo Zoo di Parigi, oltre che di un vasto assortimento di animali esotici, si avvantaggia anche di un' altra attrattiva che costituisce la gioia dei piccoli borghesi e dei ragazzi desiderosi di trovare a pochi passi da casa un'atmosfera alla Conrad.

    Basta infatti prender un tranvai qualunque, sbarcare alla Porte des Sablons dove si trova l'ingresso principale dello Zoo (i ragazzi preferiscono giungervi col trenino «decouville»¹ che attraversa il bois de Boulogne) e dirigersi verso il centro del giardino, per imbattersi, proprio alla sinistra del cosiddetto palazzo d'inverno, nel villaggio dei «canachi».

    Si tratta di una cinquantina di capanne a foggia di «tucul» circondate da una palizzata. L'insieme riproduce con sufficiente approssimazione un villaggio della Nuova Caledonia o delle isole Figi, un villaggio insomma dell'Oceania, ed è abitato da autentici indigeni quasi tutti provenienti dall'arcipelago dell'Hawaii, i cui nativi vanno sotto la denominazione generica di «canachi»².

    Sono individui di media statura, dalla carnagione leggermente olivastra e dai capelli crespi, i quali dopo la chiusura dell'Esposizione Coloniale, hanno accettato l'offerta del Jardin d'Acclimatation, preferendo, forse con scarso sentimento poetico ma con indubbio senso pratico, lo stipendio fisso agli incerti della pesca e della caccia nelle isole d'origine.

    Questi «canachi» nelle ore di libertà hanno il permesso di andarsene per Parigi sotto la responsabilità del capo-tribù e beninteso vestiti all'europea, quando invece sono «in servizio» portano un gonnellino, delle acconciature di penne, delle collane di conchiglie e degli ornamenti fatti con zanne di animali.

    Hanno il loro stregone, le loro donne e i loro bambini, vivono quasi tutto il giorno in ozio e solo qualcuno si dà alla fabbricazione di modeste opere di artigianato, come sarebbero cestini di fibra di cocco, pettini di legno scolpito etc. che hanno il diritto di vendere ai visitatori.

    Tutti i giorni, alle diciassette, si vestono dei loro pittoreschi costumi ed eseguono al comando del capo-tribù e con l'assistenza dello stregone che per l'occasione indossa una truccatura terrificante, alcune fantasie guerresche, sotto gli occhi sgranati dei provinciali di passaggio per Parigi, che non rimpiangono i cinque franchi spesi per l'ingresso al Villaggio.

    Inutile aggiungere che la lingua parlata da questi aborigeni si va ogni giorno più inquinando coi peggiori termini dell'«argot» parigino, e che ad onta della sorveglianza esercitata dall'amministrazione dello Zoo, non è raro che qualcuno dei membri della tribù si ritiri dalla libera uscita in condizioni tali, da far presumere un'attiva frequentazione dei «bistrò» di Porte Madrid o dei quartieri circonvicini.

    Non faremo quindi ai nostri lettori il torto di descrivere lo Zoo di Parigi che certamente molti conoscono, e che in definitiva non è né migliore né peggiore di quelli che si trovano in tutte le altre capitali d'Europa, ma ci limiteremo a trasportarli con la fantasia fra le macchie dei grandi alberi di questo campionario tropicale, dopo la chiusura dei cancelli, allorquando le ombre della notte sopprimendo il cattivo gusto delle costruzioni erette dagli uomini, e la triste sagoma delle gabbie, fondono tutta la mediocre scenografia dello Zoo in un unico impasto di neri vellutati, rotto qua e là dalle poche lampade regolamentari, che d'altronde limitano la loro fioca luce alla Hall del Palmarium e al piazzale prospiciente i palazzi dell'amministrazione e dell'Istituto Anatomico.

    Qualche lumicino ad olio brilla nel villaggio dei «canachi», qualche finestra illuminata indica che si veglia negli studi di medicina, e tutto il resto è ombra fitta, col gracidare delle rane nel laghetto, lo zirlio dei grilli nel prato, e ogni tanto il soffio poderoso dei grandi carnivori che si agitano irrequieti fra le rocce artificiali, il cui profilo s'intaglia in modo pauroso contro il cielo quando la luna lo illumina.

    Entrare nello Zoo di notte, non è assolutamente possibile se non con un sotterfugio o con la complicità di un guardiano lubrificato da laute mance, e ben pochi a Parigi, e anche altrove, credo che abbiano avuto questo capriccio. Invece gli amanti dell'inedito potrebbero trovarvi un discreto diversivo alla vita di tutti i giorni. Abolite le balie, i ragazzi, i venditori di cartoline, i militari in permesso, e gli stessi «canachi» che a quell'ora dormono tranquillamente sognando forse di spiare con l'arco teso i pesci d'argento che brillano nelle acque verdi dei loro mari, restano le belve e gli animali d'ogni specie, a empire del loro ansito e della loro presenza invisibile il segreto delle notti allo Zoo.

    Diciamo presenza invisibile, perché le gabbie e le caverne sono immerse nella più assoluta oscurità, ed in questo buio fitto gli animali, che fatta eccezione per i volatili sono quasi tutti di abitudini notturne, si agitano, si lagnano con suoni gutturali, soffiano, ansano, fanno tinnire le sbarre e gli anelli, riempiendo l'aria di una strana sinfonia che nobilita lo Zoo, riportandolo quasi al rango di vera foresta tropicale.

    Qualche lontano strombettio d'automobile o il rombo di un motore, giungono in quel buio trasformati in guaiti e rantoli di una fauna sconosciuta, e subito per protesta scoppiano furibondi i latrati delle iene e lo sghignazzare degli sciacalli, cui fa da accompagnamento in sordina il brontolio dell'orso bruno i cui unghioni grattano le rocce di cemento con un rumore metallico caratteristico.

    Nella vasca delle Otarie, sonori schaffi³ liquidi denotano che l'elefante marino si è tuffato, e subito dopo s'ode lo sciacquio del suo tronfio corpo simile a un grosso sacco oleoso, che, divenuto improvvisamente agile, scivola come un siluro attorno alle rocce levigate del piccolo estuario.

    Dalle gabbie delle amadriadi, giunge a tratti il gridio di una zuffa, cui tiene dietro il rumore di qualche sgabello rovesciato. L'armatura della gran gabbia dei quadrumani tinnisce squassata dalle bertucce che si inseguono scapriolando nel buio come diavoli scatenati, mentre abbaia la scimmia col gozzo, avvinta al suo albero solitario, squittiscono i cercopitechi, latrano i babbuini, e i gibboni dalla pelliccia biancastra soffiano come vecchi infreddati.

    L'orango e lo scimpanzé, raramente fanno udire il loro grido, ma la marcia possente del loro corpo muscoloso fa gemere le tavole del ricovero; poi d'improvviso rugge il leone e subito si fa un gran silenzio.

    Nel buio fondo scintillano gli occhi verdi dei felini che fiutano col collo teso la ripa del fosso di protezione; l'ombra grottesca del formichiere passa e ripassa su un muro battuto dalla luna, e s'ode il crepitio dell'istrice che rizza sospettoso gli aculei e guata verso quell'ombra con gli occhietti da topo.

    Il concerto riprende col bramito dei mufloni i cui zoccoli battono come nacchere sulle balze cretose della montagnola che serve loro di rifugio. Silenziosi si accosciano i lama dalla palpebra cascante sull'occhio tardo, e i bisonti ruminano col sordo tamburellare del loro quadruplice stomaco.

    Poi il concerto viene ripreso dalle pantere che si stirano con un miagolio voluttuoso terminante in uno sbadiglio, e i leopardi tengono bordone con una specie di soffio prolungato che smuore in un rantolo.

    Un'ombra, probabilmente un guardiano d'ispezione, attraversa lo spiazzo del Museo di caccia e pesca, diretto forse a controllare la temperatura dell'acqua nella gran vasca dei coccodrilli da cui giunge un odore di muschio e d'erbe fradice.

    Un'altra ombra (forse un «canaco» ritardatario) scivola agilmente verso la palizzata del villaggio, e finalmente si ode un urlo terribile, un urlo che non è più umano e non è ancora ferino, lacerare l'ombra dei grandi alberi e salire altissimo verso il cielo inargentato dal plenilunio.

    A quel grido straziante e pauroso si immobilizzano le fiere, appuntando nell'oscurità gli occhi di bragia, mentre le code battono morbidamente i fianchi. A quel grido, la sagoma di qualche medico si delinea sulle invetriate degli studi e l'uomo di scienza guarda curiosamente la macchia buia dello Zoo, poi scompare. I guardiani di servizio ai due ingressi si tolgono di bocca la pipa e corrugano la fronte come per cercare nella memoria e nella loro esperienza la spiegazione di quell'urlo.

    Solo l'orango, che ha visto tutto, ha fatto un balzo pauroso nella gabbia, e la femmina gli si è stretta al petto tremando. Le due enormi scimmie antropomorfe hanno le sopracciglia aggrottate e i loro piccoli dolci occhi, dilatati dallo stupore, osservano sotto le bozze callose della fronte qualche cosa di veramente inaudito, qualche cosa che esorbita dalla loro povera logica di bestie umanizzate, qualche cosa di inspiegabile che ha culminato in un urlo e in un tonfo, e che si è concretato in una macchia nera, immobile davanti alla loro gabbia.

    Quando il commissario a riposo Émile Richard si decise a salire l'interminabile gradinata che conduce alla soffitta del dottor Georges Milton, un bel sole di primavera indorava la rue de Dragon, facendo scintillare gli ottoni del macellaio Toussaint e balenare le strisce bianche e rosse sul bastone rotante del parrucchiere Pierrefitte detto più brevemente Armandò.

    Il commissario aveva il faccione sorridente sbarbato di fresco, un bel cappotto di mezza stagione e, cosa strana in lui, portava all'occhiello la rosetta della Legione d'Onore.

    Le sopracciglia cespugliose, sulle quali con l'età pareva fosse caduta della farina bianca, avevano ogni tanto delle bizzarre contrazioni che denotavano perplessità e imbarazzo per parte del loro proprietario, il quale, giunto sul pianerottolo che il dottor Milton aveva trasformato in una serra di piante grasse, buttò all'indietro il cappelluccio a cencio, e si asciugò il sudore che gli imperlava il cranio calvo e possente.

    Evidentemente egli s'era preparato un bel discorsetto, ma al momento di snocciolarlo davanti al viso pallido e sarcastico del suo giovane amico Milton, quel tanto di fanciullescamente onesto che formava l'essenza stessa del suo carattere, gli impediva di apparir disinvolto come avrebbe voluto essere.

    Questo fenomeno non potrà stupire i lettori che conoscono i termini dell'amicizia esistente fra il vecchio poliziotto e il giovane medico. Un'amicizia bizzarra fatta di due ingenue ammirazioni. Il dottor Milton ammirava in Richard l'acume poliziesco, l'esperienza maturata attraverso mille prove, la calma serena con la quale il vecchio segugio affrontava le situazioni più pericolose, e il commissario dal canto suo subiva il fascino di quel giovane pallido, che era capace di stare a tavolino per ventiquattro ore di seguito nutrendosi solo di tazze di caffè, oppure di sognare ad occhi aperti per delle giornate intere lungo i «quais» della Senna come l'ultimo degli oziosi.

    Quando il commissario Richard aveva dovuto lasciare il servizio attivo perché raggiunto da quelli che i funzionari chiamano non senza una certa enfasi «gli inesorabili limiti d'età», era stato lui stesso che aveva consigliato Milton di valersi di alcune particolari attitudini mentali per fare il detective... ma perché dilungarci in queste spiegazioni? La maggior parte dei benevoli lettori potrà con un lieve sforzo di memoria ricordare il passato di questi nostri protagonisti, e allora...

    Quando il dottor Georges Milton andò ad aprire, aveva in una mano una provetta contenente un liquido giallastro, talché alla frase: — Oh... mio buon Richard, guarda chi si vede! — tenne subito dietro un avvertimento: — Non avvicinatevi ch'io non debba sciuparvi quel bel paltoncino nuovo con qualche spruzzo di acido solforico...

    Il commissario rispose con un gioviale: — Salute, illustre dottor Milton — ma si vedeva che l'accenno al paltoncino nuovo l'aveva fatto arrossire un po' di compiacenza e un po' di imbarazzo.

    — Qual buon vento vi porta? E un luogo comune, lo so... ma si adatta a questa giornata di primavera.

    — Il piacere di rivedervi anzitutto... e poi... poi...

    — La signorina Geneviève sta bene?

    — Mia sorella sta benissimo, grazie... si lamenta che non siate ancora venuto ad assaggiare il suo rosolio di prugne, sembra che quest'anno le sia riuscito meglio del solito.

    — Grazie, Richard... verrò di sicuro, e vi prego scusarmi verso vostra sorella... adesso poi con la buona stagione, Charenton deve essere un vero paradiso... scommetto che ci sono già le violette...

    — Be'... è vero che più s'invecchia più si diventa bambini, ma fino a raccogliere le violette non sono ancora arrivato... — rispose ridendo il commissario, poi aggiunse: — Ma io forse disturbo un vostro esperimento di chimica...

    — Per carità, ho bell'e finito... non è neanche un esperimento di chimica... è un tentativo di raggruppare in modo nuovo gli atomi di azoto contenuti in un banale fertilizzante che si vende in commercio, per tentare...

    — Di far crescere i vostri cactus grossi come gasometri?

    — Siete un incorreggibile burlone e vi punirò offrendovi una tazza di tè.

    — Ritiro tutto quello che ho detto se mi offrite un caffè...

    — Accettato... ed ora date seguito al vostro... «poi, poi»...

    — Ah, già... ecco... ho infatti una notizia da darvi... una notizia per la quale mi ero preparato una specie di alibi...

    — Oh... oh... di quale peccato vi siete tinto, o integerrimo commissario Richard?

    — Volete dire piuttosto quale peccato sto per commettere... ebbene sparerò la confessione tutta in un colpo... ecco... sto per rientrare nel servizio attivo!

    Il dottor Milton, che era in procinto di preparare

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