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Il Varco
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Il Varco

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Aveva continuato a scendere e scendere, molto più di quanto non fosse salito. Stava facendo buio. 
Quando si ritrovò in una brughiera capì che si era perso. Dove sono finito? si domandò guardandosi attorno. “Hai passato il Varco ragazzo, sei in un altro mondo.” Chi aveva parlato? Si voltò e la vide. Non era possibile. È un’allucinazione, pensò.  Ma quella gli si rivolgeva come se lo conoscesse. “Sei stato scelto per una missione amico, devi venire con me.” Tanto è un incubo, si disse, prima o poi mi sveglierò… La seguì nel bosco, lungo un sentiero che li portò a un capannone isolato. “Entra.” E lui entrò, diffidente. Non riuscì a capire subito. Lo spettacolo che gli si presentò non se lo sarebbe più scordato, anche fosse stato un’invenzione della sua mente allucinata. “Devi liberare i bambini e riportarli oltre il Varco, perché qui fanno una brutta fine…"



P.M. Mucciolo ha partecipato con il romanzo Le Ombre Azzurre al torneo letterario IoScrittore 2011, organizzato dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol, vincendo la pubblicazione in ebook. Nel 2016 è uscito l'attesissimo seguito: Abel.
Dice di sé, con una punta d'ironia: “Scrivo perché sono grafomane. Scrivo racconti, romanzi, saghe, cartelle cliniche, lettere di protesta, lettere agli amici e anche agli sconosciuti. Le cartelle cliniche e le lettere agli sconosciuti hanno molto successo”.
LanguageItaliano
Publisherp.m. mucciolo
Release dateJul 10, 2017
ISBN9788826481029
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    Il Varco - p.m. mucciolo

    Ringraziamenti

    Il Varco - Presentazione

    Aveva continuato a scendere e scendere, molto più di quanto non fosse salito. Stava facendo buio.

    Quando si ritrovò in una brughiera capì che si era perso. Dove sono finito? si domandò guardandosi attorno. Hai passato il Varco ragazzo, sei in un altro mondo. Chi aveva parlato? Si voltò e la vide. Non era possibile. È un’allucinazione, pensò. Ma quella gli si rivolgeva come se lo conoscesse. Sei stato scelto per una missione amico, devi venire con me. Tanto è un incubo, si disse, prima o poi mi sveglierò… La seguì nel bosco, lungo un sentiero che li portò a un capannone isolato. Entra. E lui entrò, diffidente. Non riuscì a capire subito. Lo spettacolo che gli si presentò non se lo sarebbe più scordato, anche fosse stato un’invenzione della sua mente allucinata. Devi liberare i bambini e riportarli oltre il Varco, perché qui fanno una brutta fine…

    P.M. Mucciolo ha partecipato con il romanzo Le Ombre Azzurre al torneo letterario IoScrittore 2011, organizzato dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol, vincendo la pubblicazione in ebook. Nel 2016 è uscito l'attesissimo seguito: Abel .

    Dice di sé, con una punta d'ironia: " Scrivo perché sono grafomane. Scrivo racconti, romanzi, saghe, cartelle cliniche, lettere di protesta, lettere agli amici e anche agli sconosciuti. Le cartelle cliniche e le lettere agli sconosciuti hanno molto successo".

    I

    A volte gli piaceva pensare che la sua vita era sull’orlo del suicidio.

    Un po' forte, via. Più che altro banale, soprattutto per quell’orlo, così scontato.

    Se avesse dovuto dirlo probabilmente avrebbe usato altri termini, frugato tra altre metafore, ma finché se lo raccontava da solo poteva anche essere poco originale. La sua esistenza sotto certi aspetti cominciava a essere anche troppo lunga. Insomma, non aveva vissuto già abbastanza? Aveva fatto quasi tutto quello che più o meno ci si aspetta uno debba fare. Studi, fatti. Matrimonio, fatto. Figli no, però il matrimonio l’aveva anche disfatto quindi con quella voce in più poteva spuntare la casellina figli.

    Lavoro, eccolo, c’era dentro proprio fino al collo in quei momenti in cui si prendeva il tempo per pensare alla lunghezza della sua vita. Piedi sulla scrivania, si guardava gli zoccoli di gomma su cui aveva scritto Doc con la biro in un punto che però stava nascosto sotto i calzoni, cercava di ignorare le telefonate e lasciava che i pensieri andassero per conto loro.

    Se mi facessi fuori adesso, pensava, smetterei di fare questo lavoro di merda. Certo, sarebbe più furbo cambiare lavoro. Anche soltanto fare il barbone, ché a farsi fuori si è sempre in tempo.

    La gente pensava che il suo fosse un lavoro invidiabile. Soldi, vacanze, macchina grossa. Magari anche la barca. Tutto il giorno a farsi sputare addosso poteva dare i suoi risultati in termini economici, certo bisognava esserci tagliati. Doc per cosa era tagliato? Di sicuro non per quello che faceva. Non era un professionista di successo, glielo diceva il silenzio imbarazzante del suo studio.

    Ma ecco che quando cominciava a considerare le alternative al suicidio e all’accattonaggio, il campanello faceva bling blong e lui era costretto a buttare l’occhio sul monitor che controllava la sala d’attesa.

    Sorpresa e disappunto, forse anche un filo di ansia. Era il garbuglio di cose che provava quando qualcuno, che pure era segnato sull’agenda esattamente a quell’ora, entrava e si sedeva sui suoi divanetti paglia di Vienna.

    Lo guardava in bianco nero, ripreso dall’alto. Più spesso era un qualcuno di genere femminile. Doveva ammettere che aveva più pazienti femmine che maschi. Niente di che. Belle donne non ne aveva mai viste da quelle parti. Ma neanche passabili. Erano per lo più madri di famiglia, mezza età e sovrappeso che abitavano nelle villette a schiera lì attorno. Parecchie vedove, qualche cadavere.

    Su cento, ottanta le avrebbe uccise.

    Invece, pur avendone non solo la possibilità, ma anche una mezza giustificazione, alla fine non riusciva nemmeno a far loro del male.

    Ha proprio una manina delicata, sa?

    Che soddisfazione avere le manine delicate. Sarebbe passato alla storia per le sue manine delicate mentre qualcun altro con grosse mani pesanti avrebbe preso un Nobel per la medicina, o un Oscar per l’interpretazione di un killer che strangolava le donne.

    E quando erano in anticipo? Lo erano quasi sempre.

    Adesso ti lascio lì finché non scocca l’ora esatta si diceva. Ma non ce la faceva mai perché la loro presenza era un disturbo, gli interrompevano il flusso di pensieri, lo distraevano.

    Le vedeva dal video chinarsi sul tavolino e prendere in mano una rivista da sfogliare, poi risedersi pesanti.

    E allora togli i piedi dalla scrivania, devi farla passare… che vuoi fare da grande Doc?

    La sera che arrivò il tipo strano aveva liquidato da un pezzo l’ultimo paziente e si sentiva già a fine giornata, quasi pronto per cambiarsi e tornare a casa. Si era appena cacciato in bocca un pezzo di cioccolato fondente troppo grosso quando sentì il campanello. Scattava all’apertura della porta.

    Diavolo, non ho chiuso, pensò.

    Guardò sul monitor mentre cercava di ridimensionare il blocco di fondente. Non ci pensava proprio a toglierselo di bocca per andare a vedere cosa volesse il tipo là fuori. Poi, cosa volesse… Che poteva mai volere uno che va dal dentista? Senza appuntamento. Era una rogna, senz’altro.

    Il blocco di cioccolato cominciava a sciogliersi ma i tentativi di girarlo in bocca lo facevano sbavare.

    Intanto il tipo in sala d’attesa, ancora in piedi, si guardava in giro. Si era piazzato davanti alla scrivania che un tempo costituiva la reception come si aspettasse di veder spuntare da là sotto la ragazza di cui Doc si era disfatto da tempo.

    Che vuoi da me? Che vuoi da me a quest’ora?

    Forse se nessuno si fa vivo si stufa e se ne va, pensava Doc.

    Ma dopo qualche minuto di muta osservazione, il senso del dovere si fece strada nella sua coscienza.

    D’accordo, solita tecnica, pensò Doc.

    Accese la radio, giusto per far sentire un po’ di rumore, prese il manipolo della turbina e schiacciò il pedale facendola stridere per qualche minuto, poi aprì e chiuse più volte un cassetto sbatacchiando i ferri. Alzò il volume della radio approfittando del dialogo in onda poi lo abbassò. S’infilò i guanti, mise la mascherina, passò in corridoio chiudendo la porta dello studio e aprì quella della sala

    d’attesa, presentandosi in tutto il suo professionale splendore.

    Ma il tipo che aspettava non ne rimase folgorato.

    «Buonasera, posso parlare con il dottore? » chiese.

    A dire il vero non era il primo cretino che lo spiazzava in quel modo, pensò Doc, doveva esserci qualcosa che non funzionava nella sua presentazione.

    Allargò un po’ le braccia, si guardò passando in rassegna la sua divisa verde modello Samoa a maniche corte e poi piantò gli occhi in faccia allo sconosciuto. Il cioccolato era un bolo governabile adesso.

    «Chi diavolo pensa io sia bardato in questo modo?»

    L’altro, interdetto dalla reazione non rispose subito.

    Se fosse stato altrettanto privo di censure e facile alla combustione quanto lui, avrebbe potuto rispondere che tutto si aspettava tranne che il titolare accogliesse di persona i nuovi arrivati mollando una bocca aperta nell’altra stanza, ma quello doveva essere un tipo diplomatico.

    Aveva una faccia da faina imbolsita. Tirò indietro un sorriso un po’ storto, cambiando completamente l’espressione che a una prima occhiata a Doc era sembrata dolente, rivelando un guizzo di divertimento negli occhi, poi, cercando le parole rispose:

    «Vede… mi scusi, è che non ero proprio sicuro… intendo dire, ho bisogno di parlare proprio con quel dottore» e si girò per indicare la targa sulla porta di vetro satinato. Ma senza staccarsi più quel sorrisetto sghimbescio che dava alle parole tutt’altro significato.

    Alzò perfino la mano, con il dito puntato, per sottolineare che si riferiva proprio allo specialista indicato sulla targa in ottone, e poi con lo stesso dito disegnò una parabola poco convinta verso di lui, come a dire che finalmente aveva capito che erano la stessa persona, ma era perplesso comunque.

    Era più difficile del previsto, pensò Doc, inutile infilarsi in una conversazione parallela.

    «D’accordo, d’accordo, sono io, tagliò, mi dica tutto… ma in breve, perché come vede sto lavorando… avrebbe fatto meglio a telefonare per un appuntamento.»

    Per carità del cielo ma ti stai ascoltando Doc? Fai piangere.

    Aveva ancora un pezzo di cioccolato che gli girava in bocca, dietro la mascherina.

    «Oh, no, no» si precipitò a rispondere la faina «non è di me che le dovrei parlare… non ho bisogno di… o perlomeno, non in questo momento» e si portò involontariamente una mano davanti alla bocca che Doc aveva già fotografato e archiviato come disagiata nel suo classificatore mentale. A quel punto gli uscì una smorfia dal mezzo sorriso che non voleva mostrare i denti «Verrò senz’altro prima o poi a farmi dare un’occhiata ma vede… adesso io dovrei parlarle» esitò non poco, poi «beh, ecco, dovrei parlarle di lei.»

    «Di me?» scoppiò Doc togliendosi i guanti che ormai gli sembravano ridicoli «Cristo Santo! Non sarà venuto per dirmi

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