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L'Angelo dell'Autunno: Le cronache di Evo 1
L'Angelo dell'Autunno: Le cronache di Evo 1
L'Angelo dell'Autunno: Le cronache di Evo 1
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L'Angelo dell'Autunno: Le cronache di Evo 1

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Fantasy - romanzo (282 pagine) - Le stagioni sono un luogo, non un tempo. Romanzo finalista al Premio Odissea 2017


Un mondo in cui le stagioni sono luoghi immutabili, l’antica magia è inaridita, lettura e scrittura sono conoscenze proibite.

Adottato da un capo dell’Inverno, la vita del giovane Thomas subirà una drammatica svolta quando durante una scorreria lungo l’Autunno s’imbatterà in un branco di Lupi, cacciatori di Angeli. Da quel momento conoscerà una realtà in cui una teocrazia impone la propria Legge attraverso la Voce e i Canti autorizzati, e chi invece pratica la lettura e la scrittura è un eretico. Thomas dovrà imparare da che parte schierarsi e come districarsi tra forze ed eventi che si agitano minacciosi intorno a lui, mentre i profughi dell’Inverno si accalcano sempre più numerosi contro il Vallo che protegge le Stagioni sotto la benedizione della Signora di Evo.

Mentre compie le proprie difficili scelte, Thomas si renderà conto che queste non fanno che condurlo verso un destino oscuro, rappresentato dalla profezia che incombe su Evo e che potrebbe cambiare le Stagioni per sempre.


Davide Camparsi vive a Verona, dove lavora come architetto. Esordisce nel racconto nel 2013 Perché nulla vada perduto che vince la XIX edizione del Trofeo RILL. Successivamente partecipa con successo a vari concorsi e selezioni per narrativa breve, vincendo anche nuovamente il RiLL nel 2015 con Non di Solo Pane, tradotto in spagnolo per la pubblicazione su Visiones 2016.

Complessivamente, dal 2013 pubblica una trentina fra racconti e novelle in e-book e antologie di genere da Dunwich Edizioni, Edizioni Il Foglio, Nero Press, Hypnos Edizioni, Edizioni Della Vigna, Tabula Fati, dBooks, Edizioni Pendragon, I Doni delle Muse, Esescifi, EF Libri, Letteratura Horror.

L'Angelo dell'Autunno, finalista al premio Odissea, è il suo primo romanzo.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJul 18, 2017
ISBN9788825403015
L'Angelo dell'Autunno: Le cronache di Evo 1

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    L'Angelo dell'Autunno - Davide Camparsi

    romanzo.

    1. Il corvo era nero

    Il corvo era nero.

    L’occhio del corvo ancor più nero, se possibile. Un pozzo cui affacciarsi e cadere.

    Uno specchio di minuscola tenebra che rifletteva l’anima del mondo: la brughiera d’erica con i suoi umidi bagliori violacei; la nebbia ipnotica che risaliva il pendio; il cielo che cedeva a malincuore il proprio azzurro alla notte incombente.

    Anche nell’occhio di un corvo, si meravigliò Thomas, era possibile trovare la bellezza necessaria a scaldare il cuore in una giornata come quella. E la bellezza, rifletté, sedeva tranquilla accanto alla morte.

    Il corvo mosse il capo con uno scatto repentino, spezzando il corso sognante dei suoi pensieri. Altrettanto rapido, l’uccello infilò il becco tra la carne ormai fredda dell’uomo che giaceva nella brughiera, strappandone un pezzo grande quanto un pollice. Mentre ingoiava il boccone livido, sembrò fissare Thomas a sua volta, con lo stesso acuto interesse.

    Un brivido corse lungo la schiena del ragazzo, che si strinse più forte nella pelliccia di montone. Non aveva paura dei morti. I morti erano oltre le Stagioni, non potevano più nulla: questo era quel che diceva suo padre, e lui credeva tanto alle sue parole, quanto ai suoi pugni duri e callosi. Ma c’erano le storie e c’erano i canti, ed entrambi dicevano che nell’Autunno vi erano più cose di quel che un uomo potesse immaginare: spiriti, ad esempio. E corvi che non erano solo corvi. Thomas credeva a quei racconti forse più che ai pugni di suo padre. I pugni erano duri, ma era stata sua madre a raccontargli le storie e tramandare i canti.

    E questo corvo era strano.

    Affondava i suoi artigli nel petto dell’uomo e tuttavia sembrava non perderlo di vista, come se l’uccello avesse qualcosa d’importante o urgente da comunicargli. Naturalmente non diceva nulla, si limitava a strappare pezzi di carne fredda dal cadavere che irrigidiva tra l’erica. Non esprimeva alcun timore, al contrario di Thomas; anzi, esibiva una malcelata arroganza nella propria determinazione. Forse era quel banchetto succulento a renderlo sfacciato.

    Oltre al corvo e a Thomas, c’erano altri cinque uomini nella piccola valletta riparata. Quattro, se si escludeva il ragazzo che ora giaceva a faccia in giù nella terra umida, la schiena squarciata dall’ascia di suo padre fino all’osso. Tre, se non si voleva contare il vecchio, ma il vecchio aveva combattuto bene, e non aveva gridato quand’era caduto. Né aveva implorato pietà mentre la spada di Sieg gli troncava di netto la mano che reggeva lo scudo. Aveva addirittura sputato, come a sfidarlo, prima che Cet gli facesse saltare la testa a qualche passo di distanza; un fendente che era parso quasi elegante nell’indifferenza del gesto. Thomas pensò che fosse giusto contarlo tra gli uomini.

    Da alcuni dei corpi spuntavano monconi di frecce spezzate. Quelle buone erano state recuperate: ogni cosa era preziosa nell’Inverno. E comunque non era saggio lasciare tracce: i Lupi della Signora avrebbero potuto tenere a mente le modalità d’impennaggio e riconoscerne l’autore, per poi dargli la caccia in ogni angolo di Evo. Così almeno affermava Cet, anche se Cet era di gran lunga meno degno di fiducia dei pugni di suo padre o dei canti di sua madre.

    I corpi erano stati denudati, lasciando in mostra le ampie ferite che ne avevano causato la morte. A Thomas non dava fastidio: il freddo della sera teneva lontano il puzzo di sangue, sudore e feci che l’agguato aveva lasciato sul campo. Anche l’imbrunire faceva la sua parte, confondendo i cadaveri ormai lividi, rendendoli simili a pallidi tronchi di alberi abbattuti da venti capricciosi. Sagome che si stagliavano scomposte lungo lo scabro pendio. In pace, ormai.

    Del cruento, mortale agguato del pomeriggio, non vi era più traccia, se non nella passeggera testimonianza di quei resti che presto la terra avrebbe inghiottito.

    Avevano tallonato il mercante e il suo seguito per ben tre giorni, tenendosi a debita distanza, lasciando che la vecchia Verga viaggiasse con loro, guadagnandosi la fiducia del gruppo, cucinando e stendendosi con quelli che non erano troppo schizzinosi, seminando tracce che Cet avrebbe potuto riconoscere.

    Il pomeriggio del quarto, abbastanza lontani dall’ultimo villaggio in cui li avevano incrociati, Verga aveva acceso il fuoco per la cena del mercante, suo figlio e i tre guerrieri di scorta, usando stoppia bianca per alimentare le fiamme. In quel modo il padre di Thomas aveva saputo dov’erano accampati e che quello era un buon posto per l’imboscata, progettata appena la banda aveva messo gli occhi sul mulo del mercante e il suo carico.

    Li avevano raggiunti in fretta, tenendo d’occhio l’accampamento a turno. Anche loro erano un piccolo gruppo: suo padre, Cet e Sieg, Auster col suo prezioso arco lungo, Farald il Vecchio e Cipolla, la figlia di Verga, che però non avrebbe preso parte all’agguato, come Thomas. Cipolla era la nuova donna di suo padre, da quando sua madre era morta, quasi un anno prima, e sapeva che lui non voleva rischiarla in una battaglia. Era giovane. Una donna giovane poteva dare altri figli: i figli erano importanti per un capo nell’Anello dell’Inverno. I figli erano discendenza: il proprio nome che sopravviveva al Dio delle Ombre.

    Rohlaf non aveva che lui, che non era nemmeno sangue del suo sangue. Aveva preso la madre di Thomas all’uomo che era stato davvero suo padre, uccidendolo in una razzia nell’Autunno. Lei era già gravida, ma aveva deciso di tenere entrambi: anche le cose più piccole avevano valore nell’Inverno. Non era un cattivo padre; duro, certo, ma nelle lande nevose non potevi permetterti lussi come la gentilezza e, anche quando la madre di Thomas non aveva saputo dargli altri figli, non li aveva abbandonati o venduti. Se Thomas non ricordava né una carezza né un abbraccio da parte sua, supponeva che almeno quello significasse qualcosa. Non avevano mai avuto nemmeno troppa fame: Rohlaf era un capo e, come molti capi, sapeva sopravvivere. Sua madre gli aveva spiegato che un capo duro era molto meglio di un capo gentile ma debole.

    Così Thomas era rimasto a guardare l’agguato steso tra l’erica, con Cipolla al fianco che trasmetteva un calore gradevole attraverso il corpo sodo e robusto, stringendosi a lui per carpire la sua parte di tepore. Se chiudeva gli occhi, poteva immaginare che fosse sua madre ad abbracciarlo, e quello era un buon pensiero.

    Per questo non vide quando Verga, avvicinandosi di soppiatto a una delle due sentinelle, le tagliò la gola da parte a parte col coltello con cui stava pelando le patate. Il tizio andò giù con un rantolo gorgogliante che fece squittire Cipolla, strappandolo dal suo sogno. L’altro uomo di guardia cominciò a urlare, dando l’allarme, un dialetto gutturale che Thomas non seppe riconoscere ma fece balzare in piedi il resto degli uomini attorno al bivacco. Il mulo ragliò scartando, spaventato.

    L’uomo che aveva gridato si precipitò contro Verga con la spada sguainata. Non fece tre passi che fu scaraventato a terra con la faccia nel fango, una freccia di Auster conficcata nella schiena.

    Rohlaf attaccò in quel momento, scendendo di corsa il crinale con Cet, Sieg e Farald al fianco che urlavano a loro volta come ossessi, mentre Auster si precipitava, un’altra freccia già incoccata, dietro al mulo in fuga.

    Thomas vide il ragazzo, alto e magro, quello che immaginava essere il figlio del mercante, stagliarsi in mezzo al campo. Un vecchio con lo scudo, diversi passi più indietro, gli gridava di raggiungerlo e nel frattempo si ergeva a guardia dell’uomo che l’aveva ingaggiato. Il ragazzo sembrava sordo o pazzo, perché Thomas lo vide avanzare in mezzo al bivacco, incurante dei richiami, la spada abbassata, all’apparenza troppo pesante per essere sollevata. Da quella distanza gli parve che stesse piangendo, o ridendo, o le due cose insieme.

    Quando Sieg lo raggiunse, non rallentò nemmeno: lo colpì così forte con l’umbone dello scudo da farlo ruotare su se stesso. La testa gli rimbalzò all’indietro con violenza, e Thomas pensò fosse bastato quel colpo a ucciderlo. Suo padre invece volle andar sul sicuro piantandogli l’ascia dritta in mezzo alle scapole, fin quasi all’occhio del ferro, tanto da doversi arrestarsi e usare un piede come leva per liberarla dalla carne viscosa.

    Mentre il ragazzo moriva, l’uomo con la freccia nella schiena si stava invece rialzando. La cotta di cuoio doveva averlo protetto in qualche modo, oppure Auster aveva centrato la scapola invece di qualche organo vitale. Sieg non gli diede il tempo di riprendersi, calando senza esitazione la lama contro il capo. Il cranio si spaccò con un rumore sordo, e l’uomo andò giù di nuovo, questa volta per sempre.

    Tutti insieme circondarono il vecchio e il mercante.

    Il vecchio sollevò lo scudo nella maniera corretta, come Farald aveva insegnato anche a Thomas. Doveva essere stato un guerriero capace in gioventù e si dispiacque per lui, ma quando infine cadde, lo fece con onore: il Dio Guerriero l’avrebbe accolto di sicuro tra le sue fila, oltre le Stagioni.

    Il mercante alzò le mani, come se il gesto potesse in qualche modo indurre gli aggressori a risparmiarlo.

    Rohlaf scosse la testa, mosse un passo in avanti, e sollevando l’ascia imbrattata di sangue la calò contro l’altro in un arco diagonale. La lama impattò tra spalla e collo, affondando in profondità nella carne, uccidendo l’uomo sul colpo.

    Poi, come un vento che d’improvviso si placa, nell’Anello dell’Autunno calò di nuovo la quiete.

    Cipolla era balzata in piedi correndo giù per il pendio, ridendo e battendo le mani incontro a Rohlaf, che si stava voltando nella sua direzione. L’ascia abbandonata lungo il fianco gocciolava sangue caldo sul terreno. Nessuno di loro era rimasto ferito e suo padre l’aveva presa al volo col braccio libero, baciandola con forza, stringendo la sua carne compatta e viva sotto le dita callose e il tessuto grezzo.

    Gli altri stavano già frugando i cadaveri, compresa Verga; Auster ritornava reggendo la cavezza del mulo. Più tardi l’avrebbero ucciso e mangiato: qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo e accusarli della morte del mercante, se l’avessero tenuto.

    Nell’Inverno erano concessi pochi errori e nell’Autunno ancora meno, a gente come loro.

    Thomas tornò a fissare il corvo e l’uccello smise di beccare, lasciando cadere un boccone mezzo divorato tra l’erica, sostenendo il suo sguardo.

    Il brivido di un cattivo presentimento gli solleticò la schiena, ma gli altri erano partiti da un pezzo e lui non voleva rimanere indietro. Aveva voglia di mettere qualcosa sotto i denti.

    Si fece coraggio e sguainò il coltello.

    Il corvo non si mosse.

    Thomas si avvicinò al cadavere. Avrebbe potuto spaventare l’uccello ma non gli parve una buona idea. C’erano cose lungo l’Anello dell’Autunno che non erano quel che sembravano, rammentò: forse il corvo era una di esse.

    Con cautela affondò la lama tra la carne grigia, fino a incontrare la resistenza dell’osso della falange. L’anello che circondava il dito sembrava avere qualche valore, a suo padre avrebbe fatto piacere averlo. Spinse forte e l’osso si spezzò sotto l’acciaio, producendo uno schiocco secco che fece sobbalzare Thomas ma non il corvo.

    Raccolse il dito, sempre sbirciando l’uccello nero che lo fissava a implacabile, e sfilò l’anello.

    Il corvo, appollaiato sulla carcassa, piegò il capo: al ragazzo parve che sorridesse al suo indirizzo o lo schernisse. Poi spalancò le ali e Thomas cadde all’indietro.

    Ch-roho ah-sh! – gracchiò il corvo. – Ch-roho ah-sh! – ripeté.

    Thomas lo fissò, spaventato.

    In quel momento fu certo che il corvo si stesse rivolgendo a lui: non ebbe dubbi.

    Invece l’uccello sbatté le ali un paio di volte e poi spiccò il volo, confondendosi ben presto col cielo dell’imbrunire.

    Thomas s’infilò l’anello in tasca, si rialzò e corse via. Mentre scappava dal luogo dell’imboscata, rivolse una preghiera frettolosa alla Signora, anche se gli avevano detto che la sua protezione riguardava solo coloro che appartenevano agli Anelli dentro al Vallo, e non i reietti dell’Inverno. Magari, per questa volta, avrebbe chiuso un occhio, se lui l’avesse pregata abbastanza forte…

    Quando raggiunse gli altri, la notte era scesa del tutto.

    Li trovò accampati lungo le rive del Severn. Il profumo della carne di mulo che arrostiva sul fuoco gli fece ben presto dimenticare i morti, le sue paure e il corvo nero dallo sguardo implacabile.

    Si addormentò accanto al fuoco, mentre Auster cantava una ballata lenta, lo stomaco sazio, convinto di godersi un buon sonno.

    Invece si svegliò di soprassalto, nel cuore della notte, madido di sudore. Aveva sognato ancora il corvo nero. Solo che questa volta, quando l’uccello aveva lanciato il suo verso stridulo, appollaiato tronfio tra le costole esposte e biancheggianti del cadavere, Thomas ne aveva riconosciuto le parole. Roche e sgraziate, intrise dello sforzo di esprimersi nella sua lingua.

    Non Ch-roho ah-sh! come aveva inteso nella brughiera. Ma Th-oho ah-sh! Th-oho ah-sh!

    Thomas! Thomas!

    Inorridito, rimase a fissare il cielo screziato da milioni di stelle acuminate.

    Il cuore un tremante pugno di neve.

    2. Errori e segreti

    Thomas riaprì gli occhi in un mattino imperlato di umida nebbia.

    Il lucore diffuso gli fece capire che la giornata sarebbe stata abbastanza bella e non troppo fredda, appena il sole avesse diradato la foschia. Era una cosa che non cessava di sorprenderlo: il fatto di essersi inoltrati in profondità nell’Anello dell’Autunno rendeva il clima mite.

    Si chiese come sarebbe stato vivere là. Non nel Cuore della Primavera o nell’Anello dell’Estate, ma almeno lungo l’Autunno, protetti dalla Legge della Signora… invece che di stenti, confinati nell’Inverno. Spinti alla ricerca di pericolosa fortuna quando il freddo diveniva troppo rigido, come capitava spesso, ultimamente, quando il gelo intirizziva i seni delle madri e si portava via i vecchi. Quando le scaramucce per uno sparuto territorio di caccia decimavano i villaggi, spingendo i profughi in fuga ad ammassarsi contro il Vallo, in cerca di una salvezza o un riparo che non avrebbero trovato mai.

    Sospirò. Era meglio non indugiare in quei pensieri. I bei sogni erano come le castagne, aveva imparato: un guscio spinoso che proteggeva, il più delle volte, nient’altro che un frutto avvizzito.

    Presto avrebbero fatto ritorno a casa: una decina di giorni di cammino lungo il corso del Severn e poi, risalendo le montagne, pochi altri per raggiungere il villaggio di Rohlaf. Oltrepassare il Vallo da questo lato, in direzione dell’Inverno, non sarebbe stato un problema. I controlli ai Varchi erano per i profughi o gli sbandati che giungevano da fuori e cercavano di entrare, non per chi abbandonava le terre fertili di Evo.

    Si erano trattenuti nell’Anello dell’Autunno fin troppo a lungo ed erano tutti nervosi. Forse perché avevano avuto fortuna, e nessuno di loro era abituato all’abbondanza. Nessuno che vivesse nell’Inverno lo era.

    E poi quello era il tempo degli Angeli.

    Questo voleva dire una cosa sola, secondo Rohlaf e Farald: ancora più Lupi a pattugliare l’Autunno. Anche se non eri un Angelo, gente come loro non era altro che selvaggina per i cacciatori della Signora. Briganti che tentavano la sorte incuranti delle leggi di Evo, e che non potevano aspettarsi alcuna misericordia in caso di cattura.

    Thomas rabbrividì.

    Aveva ascoltato diverse storie sui Lupi, anche se non ne aveva mai visto uno. Nessuna rassicurante. Di sicuro suo padre non ci teneva a imbattersi in uno di loro e nel suo Branco. Men che meno a così breve distanza dall’agguato teso al mercante.

    Si alzò, già spogliato del buonumore con cui aveva aperto gli occhi.

    Le pietre a protezione del fuoco attorno al quale si era addormentato giacevano fredde e annerite; Farald riposava lì accanto, vicino a Verga e Auster. Più in là, suo padre e Cipolla condividevano la stessa coperta, russando all’unisono. Non scorse Cet, né Auster, ma la nebbia era ancora compatta: forse montavano la guardia, oppure il tepore mattutino aveva destato anche loro anzitempo.

    Immerso nel chiarore lattiginoso, insonnolito, si diresse verso il fiume poco distante. Avvertiva il bisogno impellente di svuotare la vescica.

    Il candore umido del paesaggio, il pigro frusciare del Severn, gli restituirono tranquillità. Il pensiero del corvo l’aveva tenuto in apprensione per buona parte della notte e adesso si sentiva stanco; eppure, quella calma smorzata trasmetteva una strana e piacevole sensazione. Raggiunto il margine della riva, abbassò i calzoni e lasciò che il getto caldo e liberatorio si confondesse con la corrente del fiume. Si sentì subito meglio.

    Come gli altri, era combattuto tra la generosità che offriva l’Autunno rispetto all’Inverno, e il pericolo che rimanere in quei territori procurava. Persino la nebbia pareva meno fredda lì. Più docile, quasi accogliente. Thomas non aveva mai visto un Angelo, ma si chiese se le loro ali possedessero lo stesso biancore caliginoso e abbagliante. Alcuni dicevano che fosse un evento d’incredibile fortuna, altri affermavano che essere testimoni di un fatto del genere avrebbe portato solo disgrazie al malcapitato. Riguardo a ciò, era indeciso su cosa credere, ma anche la poca esperienza che aveva del mondo lo portava a propendere per la seconda ipotesi. Oltretutto, Angeli e Lupi non erano mai troppo distanti gli uni dagli altri.

    Si riallacciò i pantaloni e fece per tornare al campo, quando udì Cet brontolare da qualche parte, poco distante. Pareva avercela con Auster.

    – Come sarebbe a dire che ne manca una?

    – Quel che ho detto: non trovo una freccia. Sono certo d’aver colpito il mulo mentre tentava di fuggire. Ho visto l’asta conficcarsi nel culo di quella stupida bestia, ma quando l’ho raggiunta non c’era n’era traccia. Probabilmente l’ho presa di striscio e deve essersene liberata attraversando qualche cespuglio di rovi… –

    – Rohlaf ti scuoierà vivo, quando lo scoprirà – brontolò Cet.

    – E da chi lo verrà a sapere?

    Nel tono di Auster, Thomas colse una minaccia nemmeno troppo velata.

    La nebbia era ancora abbastanza fitta da impedirgli di scorgerli e da confonderlo sulla direzione da cui provenivano le voci, ma d’istinto si acquattò dove si trovava. Cet e Auster non lo trattavano male, ma aver perso un impennaggio nell’imboscata era un affare serio. Se suo padre l’avesse saputo, di certo Auster se la sarebbe vista brutta. E l’arciere l’avrebbe fatta pagare a chiunque avesse spifferato, questo era poco ma sicuro.

    Se l’avessero scoperto a origliare, beh… gli incidenti capitavano con estrema facilità, anche al figlio bastardo di un capo.

    – Io terrò la bocca chiusa – brontolò Cet – ma Rohlaf non è uno stupido.

    – Nemmeno io – lo rimbeccò l’arciere. – Torniamo al campo, gli altri si staranno alzando e la nebbia si dirada.

    Thomas fu colto dal panico. A un tratto si rese conto che, per non destare sospetti, sarebbe dovuto rientrare prima di loro. Ed era vero che la nebbia si stava alzando. Rimanendo carponi, sgattaiolò via lesto, trattenendo il respiro, cercando di non fare il minimo rumore. Lungo il fiume l’erba era alta, ma appena si fu allontanato dalla riva il paesaggio tornò brullo e privo di protezione.

    Rimase indeciso sul limitare della boscaglia, con il cuore che batteva forte, poi udì rumori nelle vicinanze e capì che non avrebbe potuto esitare oltre. Rivolgendo una preghiera frettolosa all’Oscuro, si lanciò verso l’accampamento a schiena bassa.

    – Aspetta… C’è qualcuno! – sentì dire ad Auster, ma la risposta di Cet andò persa, confondendosi con il batticuore che gli martellava nelle orecchie. Si augurò che la nebbia fosse ancora abbastanza compatta da nasconderlo, badando solo a correre. Quando raggiunse il cerchio di pietre annerite, si gettò sotto il mantello di montone che usava anche come coperta. A due passi da lui, Farald il Vecchio si stava destando: Thomas non aveva idea se avesse notato la sua assenza.

    – Dove siete stati? – lo sentì chiedere con voce impastata. Per un attimo credette che si stesse rivolgendo a lui, poi realizzò che si era espresso al plurale.

    – Cet montava la guardia – rispose Auster. – Io non riuscivo a dormire e ho fatto un giro qui attorno.

    Farald grugnì. – Tutto tranquillo?

    Un altro grugnito, questa volta da parte di Auster.

    – Solo qualche bestia un po’ troppo curiosa… chissà cos’era… –

    A quelle parole, Thomas avvertì un nodo in gola, poi il tacco di Auster o Cet lo scosse, premendogli sulla spalla. S’irrigidì come un ciocco di legno.

    – Il nostro piccolo bastardo invece ha il sonno pesante, a quanto pare.

    Thomas si rese conto che ignorarli ancora sarebbe apparso sospetto, così finse di svegliarsi in quel momento, sfregandosi gli occhi con forza. Fu Farald a venire inaspettatamente in suo soccorso.

    – Si è agitato tutta la notte – disse, fissandolo. – Incubi, magari. L’ho sentito vaneggiare su di un corvo nero e parlante… non ha smesso che un istante fa.

    Thomas li fissò a sua volta. Farald sostenne lo sguardo senza aggiungere altro. Auster e Cet invece apparivano perplessi, delusi quasi.

    L’arciere sorrise al suo indirizzo. – La prossima volta che fai un brutto sogno, avvisami, ragazzo. Le mie frecce non mancano il bersaglio. Nemmeno di notte.

    – Farald ha detto che si trattava di un sogno – intervenne Cet a sproposito. Di sicuro era il meno sveglio della compagnia, ma Thomas aveva colto l’allusione di Auster, la minaccia implicita nelle sue parole, appena mascherata da quel sorriso scanzonato e impudente.

    – Sogno o meno, terrò una freccia a portata di mano e allora vedremo di che pasta è fatto quel corvo. – Il sorriso di Auster si allargò, scoprendo denti piccoli, da volpe: a dispetto delle sue parole, un ghigno niente affatto amichevole.

    Fu Rohlaf a richiamarli all’ordine.

    La sagoma massiccia si stagliava nel mattino caliginoso, a qualche passo da loro.

    – Andiamocene da qui. Voglio lasciare l’Autunno il prima possibile.

    – Non ci fai mettere nulla sotto i denti? – si lamentò Cet.

    Rohlaf lo guardò storto.

    – Se avete fiato per parlare, ne avete anche per camminare. Muovetevi, ho detto.

    Fiancheggiarono il Severn fino all’ora meridiana, di buon passo, senza concedersi inutili soste. Nonostante il ricco bottino del giorno precedente, Rohlaf appariva nervoso e cupo.

    Quando avvistarono uno sparuto villaggio affacciato sul fiume, decise di tenersene alla larga, segno che ancora non si sentiva abbastanza lontano da dove avevano lasciato i cadaveri dell’imboscata. Ben presto il cattivo umore si propagò all’intero gruppo. Cipolla brontolò un poco, ma Verga la zittì bruscamente. Più degli altri, la vecchia sembrava condividere il malumore di Rohlaf.

    Continuarono a marciare fino all’imbrunire, consumando solo un fugace pasto in piedi; quando la luce affievolì, si immersero in una macchia d’alberi che costeggiava la riva.

    Thomas fu ben lieto di riposare. Nell’Anello dell’Autunno la luce del giorno durava più che in quella dell’Inverno e lui si sentiva provato. Inoltre, per tutto il giorno aveva sentito lo sguardo di Auster su di sé. In ogni caso, l’arciere si era limitato a sbirciarlo di sottecchi, arrovellandosi sui propri sospetti. Dal canto loro, Sieg, Cet e Farald il Vecchio, di solito ciarlieri, si erano limitati a scambiarsi poche battute di malagrazia.

    Al riparo degli alberi, Verga e Cipolla cucinarono parte della carne di mulo avanzata la sera prima e finalmente misero qualcosa di sostanzioso sotto i denti. Il ristoro del cibo alleviò un poco la tensione. Terminato il pasto, Rohlaf prese con sé Cipolla e i due si allontanarono nella macchia, con la ragazza che ridacchiava a qualche suo commento. Verga si accoccolò vicino a Farald, ma l’uomo la ignorò; la donna, scrollando le spalle, andò a cercare un po’ di calore dalle parti di Sieg.

    – Vuoi allenarti, prima di coricarti? – propose Farald.

    Thomas gli rivolse un sorriso stupito: spesso doveva supplicarlo perché gli dedicasse del tempo.

    – Certo – rispose, ingoiando in fretta l’ultimo boccone e correndo a recuperare la sua vecchia spada smussata. – Grazie!

    Lasciando gli altri attorno al fuoco, si allontanarono nella macchia di alberi, alla ricerca di un luogo adatto.

    I canti della madre di Thomas narravano spesso di creature e animali fantastici che regnavano in selve inaccessibili, ma ormai i loro nomi popolavano solo le leggende che venivano tramandate oralmente dai Cantori di Evo. Se queste creature erano davvero esistite, dovevano essere scomparse da tempo, oppure il loro numero era divenuto così esiguo da risultare insignificante. Qualche anno prima, Rohlaf aveva voluto vedere un Drago che si diceva fosse stato catturato in uno dei villaggi dell’Inverno, non troppo distante dal loro e l’aveva portato con sé grazie all’intercessione di sua madre. Quando però erano arrivati nella piazza del paese, in una gabbia poco più grande di un pollaio avevano visto solo una viverna secca e smunta, raggomitolata sul fondo della prigione a lordarsi nelle proprie feci. Il pungiglione, che si diceva velenoso, giaceva giallastro e flaccido all’estremità della coda, raggomitolata sotto il corpo magro. La bestia li aveva fissati con occhi dorati attraverso il ferro delle sbarre, opachi e privi di qualsiasi fierezza. Rohlaf aveva sputato a terra disgustato e una malinconia senza nome aveva accompagnato Thomas per il resto del giorno. Quando la sera avevano fatto combattere la viverna con dei cani da caccia, la bestia non era durata che pochi istanti sotto gli attacchi dei mastini, scatenando le proteste del pubblico che aveva assistito a quello spettacolo penoso. Rohlaf e

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