Gli occhi tristi di Rachele
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Gli occhi tristi di Rachele - Stefania Carpentieri
(1996)
Capitolo 1
Se febbraio nu febbraricia, marzu male pensa.
E tutti i contadini con il naso all’insù, guardavano le nuvole affacciarsi all’orizzonte che, imponenti, sovrastavano il cielo: massi bianchi e grigi che pellegrinavano lentamente verso una meta non prevista.
Il loro passo solenne lasciava con il fiato sospeso i coltivatori che temevano violente grandinate e cascate di pioggia scender dal cielo.
Azzate San Giovanni e nnu durmire ca sta visciu tre nuvule camminare, una de acqua, una de jentu, una de tristu maletiempu!
In quei tempi erano comprensibili le preghiere fatte affinché pioggia, vento e grandine facessero il loro corso e nel modo meno dannoso per le coltivazioni. Perché se febbraio non avesse svolto il suo sporco lavoro come mese gelido e burrascoso, marzo non si sarebbe mostrato clemente con i magiari, a scapito del raccolto che sarebbe andato perduto.
A fine febbraio, quando oramai tutte le formichine erano pronte a lasciare il loro formicaio e le mimose in anticipo, fiorivano sull’albero, i contadini riponevano nell’armadio i loro berretti di lana e al cappotto in feltro, preferivano un gilet in cotone pesante.
Gli agricoltori, come segugi, fiutavano la nuova aria ed erano pronti a rimboccarsi le maniche dei loro maglioni bucherellati dalle tarme, preparandosi a una lunga e difficoltosa vita nei campi, d’estate.
L’inverno era al suo fanalino di coda e anche le massaie si apprestavano a pulire con cura il camino. La canna fumaria doveva apparire lucente, senza alcun unto di fumo, per impedire che un improvviso incendio potesse scatenarsi con l’accensione del canto, con i primi freddi.
La cenere raccolta durante tutta l’invernata era utilizzata per pulire i panni sporchi. Grandi pentole di terracotta erano riempite con il residuo della combustione e mescolato con l’acqua dalle abili mani delle donne più anziane.
E sebbene la brutta stagione non fosse ancora giunta al termine, la voglia di chiudere un capitolo della propria vita e aprirne uno nuovo, scatenava quest’improvvisa brama di cambiamento, di primavera!
Il paesaggio agli occhi di tutti appariva ancora desolato. Le gelate delle mattinate invernali avevano seccato l’erba che iniziava a comparire timida, qua e là.
La terra era come un’immensa steppa decorata da alberi di ulivo e massi di roccia che uscivano prepotentemente dal suolo. Le lumache, rilasciando al loro passaggio l’umore vischioso, segnavano affascinanti percorsi sul terreno come un dipinto astratto.
Le pozzanghere provocate dalle abbondanti piogge, pian piano erano prosciugate dal sole e timidi fiorellini sbucavano dappertutto.
Foglie simili alle cipolle facevano presagire zolle di terra con lampascioni: tra i contadini si creava una sorta di gara per chi sarebbe stato capace a portarsene a casa anche solo due pugni in più, per sfamare la famiglia.
I lampascioni, cipolle selvatiche dal gusto amarognolo, erano amati da grandi e piccini.
Cucinati sia fritti che in agrodolce, erano il cibo che riempiva lo stomaco per almeno quattro ore; per questo motivo difficilmente si pativa la fame se nella dispensa mancava la pasta e nel frigo scarseggiava la carne.
Per i braccianti agricoli la campagna rappresentava il lavoro, il cibo e il futuro; perché in Salento, se non possedevi un lembo di terra da coltivare, faticosamente ti era consentito vivere: semmai era concesso sopravvivere.
La terra era in grado di nutrire 365 giorni l’anno. Laddove mancava la carne, dalla panca le casalinghe tiravano fuori sia ceci sia fagioli per cucinare gustose pignatte. Come contorno a questa pietanza accompagnavano le verdurine di campo. Zanguni e cicorie selvatiche erano onnipresenti nelle portate dei poveri: non sempre come contorno ma spesso come primo e unico pasto della giornata.
I più fortunati possedevano un piccolo allevamento di galline, conigli o tacchini.
E chi dopo dodici ore di lavoro serrato nei campi rientrava a casa con una cassa di verza o due teste di cavolfiore, nel fine settimana toccava mangiare la pignatta con i lombrichi che solo in quell’occasione fungevano da carne.
Al pessimismo dei giorni vissuti dietro ad una finestra con la speranza che un tiepido sole potesse fare capolino dietro le nuvole consentendo di caricare sulle spalle falce e zappa, sopraggiungeva la consapevolezza che i dì grigi erano oramai alle spalle. Così gli arnesi da lavoro erano pronti per essere utilizzati, portati al loro massimo splendore e all’occorrenza, molati.
Ogni contadino attendeva il canto del gallo alle prime luci dell’alba: con un piede nel letto e uno sul pavimento erano pronti per una nuova giornata.
Prima di svolgere la loro attività nei campi, come una grande famiglia i mezzadri si ritrovavano a chiacchierare nel piccolo bar del paese.
Solo uno scambio di battute, una tazza di caffè Quarta corretto con la Sambuca, due strette di mano e poi via nei poderi a sudare sette camicie.
Quando non tirava vento di tramontana che gli tagliava il viso, potevano dirsi fortunati; soprattutto a fine febbraio, il mese più gelido della penisola.
Il lavoro nei campi, in realtà, sfiniva chiunque: dall’apprendista contadino a chi il mezzadro lo faceva da oltre cinquant’anni.
Si imparava fin da piccoli a lavorare i poderi e le intemperie, chi svolgeva questo mestiere, le conosceva bene.
Essere braccianti non era un obbligo, era un mestiere tramandato da generazione in generazione. C’era chi lavorava come colono nelle grazie di un proprietario terriero e chi invece coltivava il terreno per vendere i suoi frutti nel mercatino rionale ogni martedì mattina.
Gli operai agricoli erano comunque rispettati da tutti seppur non vivessero nel lusso e non amassero i bagordi della vita agiata. Il loro fare spesso dimesso faceva di loro, gente rispettabile.
Conducevano una vita raccolta, intrinseca di valori e amore per Dio che spesso bestemmiavano senza tanta poesia e per la famiglia.
Non mancavano ogni mezzodì a tavola, a costo di percorrere a piedi anche una decina di chilometri.
E se per tutta la settimana erano costretti a indossare gli stessi abiti e le scarpe malconce, la domenica portavano la coppola e il costume sartoriale, cucito dalle donne di famiglia che si improvvisavano abili sarte.
I mocassini erano portati sempre a lucido, guai se così non fosse stato. Le pie donne non avrebbero atteso l’arrivo di un nuovo respiro per giudicare negativamente le loro consorti, quelle che per loro sarebbero diventate donne di poco conto
.
La pipa era la compagna di una vita, sempre pronta ad ascoltare in silenzio ogni loro imprecazione.
Si lasciava inspirare sapendo che in lei qualcuno ci vedeva una confidente fidata per poi scomparire dinanzi al sagrato della chiesa, la domenica mattina.
Durante i discorsi più complessi, ricompariva per essere utilizzata come mezzo di persuasione di fronte ad un interlocutore contrariato.
Librava nell’aria come la bacchetta di un maestro d’orchestra.
In un italiano rattoppato i magiari discutevano di politica italiana, sul possibile governo Fanfani e soprattutto quanto sarebbe durata, quella volta, la sua carica di Presidente.
Capitolo 2
Marzo si rivelò un mese uggioso e ciò non annunciava nulla di buono.
L’orto poteva marcire e quindi sia il guadagno sia il cibo da portare a tavola, si sarebbero ridotti notevolmente.
Se ciò fosse accaduto, solo un miracolo avrebbe potuto risollevare le sorti dei contadini e delle loro famiglie.
In casa Migali, si stava seduti ai lati di un canto oramai spento.
Il freddo persistente di quei giorni penetrava nell’abitazione attraverso gli infissi e per tal motivo, lembi di stoffa erano stati riposti sul pavimento per impedire che l’aria gelida potesse entrare nelle stanze per mezzo delle porte.
Un lastricato poco uniforme rendeva ancor più fredde le giornate a cavallo dell’inizio di primavera.
Da una grande finestra dai bordi arrugginiti, Antonio guardava la pergola di uva, ancora spoglia.
Alla sinistra del giardino si ergeva a stenti il recinto di ferro ossidato nella quale vi era stata collocata la cuccia di Diana, un pointer puro sangue astuto come una volpe.
Quando Ferruccio alle prime luci dell’alba si recava nelle radure imbracciando il suo fucile, Diana diventava il suo braccio destro.
Nel settembre del 1956 erano riusciti a recuperare un Germano reale di rara bellezza: il suo capo di verde sgargiante si stagliava da una tavolozza di colori ben stemperata. Il grigio sfumato dell’intero corpo era interrotto prepotentemente dall’azzurro acceso delle ali.
Dal collo, come una gorgiera, un marrone chiaro irregolare si estendeva all’altezza del ventre.
In famiglia, tutti restarono affascinati da quell’esemplare e anziché presentarlo a tavola, decisero di imbalsamarlo e di esporlo in salotto come fosse un bel vaso di cristallo pregiato.
A fargli compagnia, issata ai piedi su un’asta di legno, c’era una piccola volpe. Il suo corpo era stato collocato di fronte alla porta d’ingresso con il compito di proteggere tutti i membri della famiglia da gente avida e senza scrupoli.
Diana era una cagna avanti con gli anni e a stento riusciva a scorazzare libera nel giardino di casa. Il rudere in cui viveva era protetto da un albero di cachi di grandi dimensioni. Era imponente, solido come una roccia e alto come una torre fortificata.
Lì, d’estate, passava il suo tempo a giocare con Antonio, il figlio maggiore di Ferruccio. Entrambi erano uniti da un forte legame, quasi simbiotico, tanto da suscitare la gelosia di Daniela, l’unica sorella di Antonio.
Antonio era poco più che un adolescente.
Un giovane ragazzino di tredici anni, sensibile ed educato. La sua statura esile lo rendeva agli occhi degli altri, fragile e indifeso.
Aveva gli occhi di un nero impenetrabile, lucenti come un diamante. La sua carnagione olivastra e i suoi capelli ondulati gli conferivano tratti somatici medio-orientali.
Una creatura di Dio, insomma. Un disegno divino raro. La fortuna realizzatasi in carne e ossa che in molti allontanavano e in pochi desideravano.
In una società, quella del Mezzogiorno, forse troppa burlona per ammettere a se stessa che differenze sociali, in realtà, ve ne erano ben poche.
Come acqua piovana torbida posatasi dopo un forte acquazzone sull’asfalto, capace di dissetare solo un cane assetato: era così che Antonio si sentiva udendo i commenti sprezzanti dei suoi coetanei per un abbigliamento poco curato; per una disponibilità economica pressoché precaria che evidenziava il suo stato sociale.
Figlio di un contadino, il ragazzo si sentiva in obbligo con i suoi famigliari e spesso, di nascosto ai genitori, lavorava nei campi del vecchio Cosimo per aiutarli, anche solo con poche lire, ad arrivare a fine di mese. Quella moneta in più magicamente compariva nel borsello della madre e con quei soldi, Giuseppa poteva almeno comprare un po’ di farina.
Questa scelta lo portò spesso lontano dai banchi di scuola costringendolo a dover recuperare le lezioni perse di fronte ad una candela che rischiarava a malapena la sua camera umida e buia, nelle lunghe nottate invernali.
Il padre Ferruccio teneva moltissimo all’educazione dei figli. Nutriva la speranza che entrambi potessero intraprendere