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Il chiodo nel pupazzo
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Il chiodo nel pupazzo

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About this ebook

Una storia d’amore nata su una panchina; lei che aspetta il suo fidanzato, lui che la osserva da giorni, sperando di trovare il modo di avvicinarla. Ernesto, insegnante precario di filosofia, riuscirà a conquistare la bellissima Ludovica, strappandola al difficile rapporto con Gilberto, magistrato corrotto e fedifrago. I due iniziano una felice convivenza, sulla quale però gravitano delle ombre infauste. Sarà quella strana atmosfera che si respira nella grande villa in cui abitano, popolata di inquietanti manichini e ritratti di vecchi antenati, o quella profezia mai pronunciata su una Ludovica bambina da un frate venerato come santo... Sarà lo “spettro” di Gilberto che pare non arrendersi alla perdita della giovane amante o lo strano atteggiamento di Anna, amica di Ludovica, una donna assai esuberante e passionale... 
L’invisibile tensione che pesa sulle teste dei giovani innamorati si risolverà in tragedia, spingendo Ernesto tra le mura di un antico convento del ‘300, lo stesso che Ludovica frequentava da piccola, luogo di esorcismi e credenze medioevali. Qui, nell’incalzante susseguirsi di eventi ammantati di mistero, Ernesto potrà lentamente dipanare l’intricata matassa dei fatti che hanno stravolto la sua esistenza, per approdare a un epilogo assolutamente sorprendente. 
Un romanzo intenso, avvincente, dove la suspance del thriller si colora di forti suggestioni horror, che tiene costantemente viva l’attenzione del lettore e insieme pone importanti interrogativi sul dolore, il male, la superstizione e l’arroganza del potere.
LanguageItaliano
Release dateJul 19, 2017
ISBN9788856784756
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    Il chiodo nel pupazzo - Bruno Brundisini

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8475-6

    I edizione elettronica luglio 2017

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è puramente casuale.

    A Cristina e Brunella.

    In memoria di mia madre.

    "La domanda a cui occorre innanzitutto rispondere è perché gli uomini siano attratti dal male,

    lo siano a tal punto da preferirlo al bene"

    (Vito Mancuso)

    "Il male è una sfida al pensiero, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alla radice delle cose,

    e nel momento in cui si interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità."

    (Hannah Arendt)

    I. L’INCONTRO

    Estate 2015

    «Però Gilberto mi riempiva di regali!» lo provocò lei dal bagno mentre s’infilava l’accappatoio di spugna rosa.

    «E allora torna con lui!» sbottò Ernesto, rimanendo disteso sul divano rosso del soggiorno, con la schiena adagiata su un guanciale e le gambe allungate sul bordo opposto.

    Alle spalle la lampada da terra ricurva gli gettava addosso la luce gialla intensa.

    «Pazzo!». Ludovica si annodò in fretta un asciugamani sui capelli ancora bagnati e gli corse incontro a piedi nudi ridendo.

    «Sei pazzo che ci torno!».

    Si chinò sul suo viso cingendogli il petto con le braccia che gli gocciolavano sul pigiama. Gli diede un sonoro bacio e subito tornò nel bagno, lasciando sul pavimento le impronte dei suoi piedi nella semioscurità del resto della camera.

    Lui sentì le carezze di quel bagnato, del profumo di shampoo, di donna.

    Si erano conosciuti un mese prima, in quelle giornate afose di metà luglio, quando, per sbarcare il lunario, lui lavorava come factotum per un avvocato penalista.

    In blue jeans e camicia sbottonata, coi Ray-Ban e il berretto blu da baseball, lo zainetto sulle spalle, come un ragazzino, raggiungeva ogni mattina il tribunale per consegnare e ritirare documenti dai vari uffici. Comunicare con la gente era sempre stato il suo forte, così, in men che non si dica, era diventato amico di impiegati, avvocati, guardie carcerarie, carabinieri e detenuti che ogni mattina incontrava in quell’ambiente tappezzato di pratiche e faldoni.

    Tra le decine di figure in bianco e nero contrastavano i colori vivaci di una giovane donna che, con assiduità quasi giornaliera, sostava all’ora di pranzo su una panchina fuori dai cancelli del tribunale.

    Era sempre lì, composta, serena, ad aspettare qualcuno.

    Una donna tanto vistosa non poteva sfuggire neanche all’uomo più distratto. Quello che più colpiva era il profilo slanciato e i lunghi capelli biondi e leggermente mossi, che accoglievano una bellezza cristallina. Era una donna di classe e dotata sicuramente di buon gusto, a giudicare dagli abiti sempre diversi ed eleganti. Mostrava una cura particolare per il viso leggermente truccato e le unghie tagliate corte, smaltate con un timido rosa. Ogni tanto tirava fuori dalla piccola borsa uno specchietto tondo e si ritoccava le labbra con uno stick di burro di cacao, leccandolo con la sensualità di un bacio.

    Spesso, nell’attesa, si tirava sulla fronte gli occhiali da sole verdi e iniziava a sfogliare qualche rivista femminile poggiandola con molta eleganza sulle gambe accavallate.

    Doveva sicuramente avere molta pazienza, visto che era facile ritrovarla seduta là, al medesimo posto, anche dopo un’ora, magari intenta a digitare sul cellulare, ma sempre con la stessa aria tranquilla.

    Un enigma! Certo una scena stimolante, tutta da decifrare. Lui si appostò in modo da non essere visto per osservare meglio quello che succedeva.

    Ogni volta, a una cert’ora, lei riceveva uno squillo sul cellulare e dava una risposta che pareva essere un sì, non accompagnata da alcuna emozione, come se quella telefonata rientrasse in una consuetudine. Poi, quasi a rispondere a un segnale convenuto, ella si alzava e si allontanava dai cancelli, attraversava la strada e si fermava in piedi sul marciapiede opposto.

    Dopo una decina di minuti un signore più basso di lei, sui quaranta, con una maschera di serietà stampata sul viso, in abito grigio e cravatta, le veniva incontro dal tribunale con passo misurato.

    Lei lo accoglieva con un sorriso non ricambiato e i due s’incamminavano, senza toccarsi, verso un lussuoso ristorante della zona. Spesso un cameriere in livrea, vedendoli da lontano, veniva loro incontro premuroso e li invitava ad accomodarsi sempre allo stesso tavolo, fuori, in un elegante gazebo pieno di fiori e protetto da grandi vetrate gialle che, essendo estate, erano aperte obliquamente. La medesima scena si ripeteva più o meno agli stessi orari, col sole incandescente o con la pioggia a dirotto, con la sola differenza che, se pioveva, lei lo aspettava sotto una tettoia là vicino.

    Era assolutamente necessario sapere di più di quella donna, scambiare qualche parola con lei, magari approfittando dei lunghi tempi dell’attesa.

    Quale poteva essere il modo migliore per abbordarla senza apparire banale o scortese? Ci pensò a lungo e, alla fine, optò per una strategia del tipo o la va o la spacca, che già aveva dato i suoi frutti in altre occasioni. Certo, bisognava anche mettere in conto il rischio di un clamoroso fallimento se dall’altra parte ci fosse stato un netto rifiuto o, ancora peggio, indifferenza. Ma le possibilità di dare in sole quattro mosse scacco matto… alla regina erano elevate.

    Come prima mossa si fece notare nei suoi continui passaggi davanti al cancello, gettandole delle occhiate di sfuggita, senza attendere da lei un’eventuale risposta.

    Come seconda mossa, uscendo dai cancelli, si sedette su una panchina vicina e si mise a sfogliare un fascicolo giudiziario, ponendolo bene in evidenza, in modo che si capisse che era roba del tribunale. Aveva messo in conto una contromossa di fastidio a quegli sguardi, comunque discreti, e a quella presenza ripetuta che, si capiva bene, non era casuale. Se ciò fosse accaduto, la sua esperienza gli consigliava di gettare la spugna.

    Invece lei ricambiò a viso aperto le sue velate attenzioni e incominciò a rispondergli con dei sorrisi.

    Terza mossa: le rimandò il sorriso e, fingendo di rispondere al cellulare, si allontanò.

    Ultima mossa: il giorno dopo, senza perdere altro tempo, le passò vicino con disinvoltura.

    «Buongiorno» disse come se l’avesse notata solo all’ultimo momento.

    Si fermò in piedi davanti a lei e, quasi a riprendere un discorso iniziato il giorno prima, soggiunse: «ma anche oggi è qui?».

    «Sì» annuì lei entrando subito in confidenza, «è vero, ci siamo visti spesso qui davanti».

    «Anche oggi aspetta quel signore?» azzardò lui non immaginando un approccio così facile.

    «Sì, e lei come lo sa?».

    «È tutta colpa della mia curiosità. Perché nasconderlo! Frequento ogni giorno il tribunale per lavoro e non ho potuto fare a meno di notarla… e mi è capitato anche di notare un signore…».

    «Aspetto Gilberto. È un amico e andiamo a pranzo insieme in un ristorante qua vicino, visto che anch’io ho l’ufficio in zona».

    «Immagino che la faccia aspettare tanto! La vedo sempre qui, ferma».

    «Non è colpa sua. Sono io che arrivo sempre prima. Poi lui alcune volte fa tardi perché viene trattenuto in tribunale, con tutti gli impegni che ha».

    «Io non farei mai aspettare una signora!».

    «Ma tanto a quest’ora il mio ufficio è chiuso e non saprei che fare» e sorrise con imbarazzo.

    «Ma potrebbe andare ad aspettarlo su».

    «No, Gilberto non vuole che io entri in tribunale. Dice che è un brutto ambiente. Anzi non vuole nemmeno che io stia ferma qua… E poi… all’entrata bisogna passare attraverso il metal detector. Sa… noi donne abbiamo sempre addosso oggetti e oggettini ed è fastidioso ogni volta…».

    «Beh, visto che ci stiamo parlando io mi presento: sono Ernesto e lavoro come fattorino per un penalista» disse lui rimanendo in piedi.

    Lei fece una smorfia di disappunto. Evidentemente si aspettava un avvocato o qualcosa del genere.

    «Io… Ludovica».

    Subito dopo le squillò il cellulare.

    «È lui».

    Fece con la mano un gesto imbarazzato che lo invitava ad allontanarsi.

    Ernesto capì al volo.

    Ma subito dopo lei gli fece cenno di riavvicinarsi.

    «Gilberto mi ha detto che ha ancora molto da fare perché lo ha chiamato il presidente del tribunale e…».

    «…e quindi non la porterà a pranzo!».

    «È la prima volta che succede che non può scendere».

    Rimise il cellulare in borsa e si alzò con aria afflitta. «Vorrà dire che mi arrangerò da sola a mettere qualcosa nello stomaco».

    «Allora, se lei permette, oggi invece potrebbe essere mia ospite a pranzo».

    «Io ospite sua? Ma lei vuole scherzare! Così invita le sconosciute a pranzo!» ribatté scandalizzata.

    «Anch’io devo andare a pranzo e allora, visto che non accetta il mio invito, potremmo andare nello stesso ristorante, ma prendere due tavoli diversi, molto lontani».

    Lei rimase sovrappensiero.

    «Beh, se mi prospetta una soluzione così drastica, allora preferisco accettare l’invito. È meglio!» ribatté con un sorriso.

    «Non avevo dubbi».

    «Lei è un tipo convincente!».

    «Almeno provo ad esserlo».

    «Vedo che ci sa fare con le donne! Sa, io non sono una tipa facile da convincere».

    Poi apparve preoccupata e subito aggiunse: «Però in quel ristorante mi conoscono!».

    «Beh, se il signor Gilberto è un suo amico che problema c’è se lei va a pranzo con un altro suo amico?».

    «No. Intanto lei non è un amico e Gilberto, a dire il vero, è… più di un amico!»

    «Questo l’avevo capito. Allora la porterò in un locale dove invece conoscono me, e sanno che io non ho una amica che è più di un’amica e sono sicuro che non conoscono Gilberto. Non è un locale di lusso, anzi è molto alla buona, ma le assicuro che si mangia divinamente».

    «Ok. Se la mette così mi trova d’accordo. Di sicuro si mangerà qualcosa di commestibile. Nel ristorante di Gilberto ti portano con i guanti gialli della roba che fai fatica a mandar giù».

    «Ci sarà un po’ di strada da fare. Il locale che le propongo è a dieci minuti da qui, andando a piedi».

    «Oh! Questo non è un problema. Non mi spaventa camminare» disse senza più imbarazzo.

    Durante tutto il tragitto lei parlò delle sue capacità culinarie, delle tante ricette che conosceva a menadito, ma che non osava mettere in pratica per non rovinare la linea.

    Quando furono davanti al ristorante, lui le dovette spiegare che erano proprio arrivati e che quello era il locale. In effetti a vederlo dall’esterno, su un marciapiede stretto, senza insegne, né vetrine, quel posto dava l’idea di un magazzino. Dentro aveva l’aspetto di una di quelle osterie di fuoriporta prese d’assalto la domenica. Un’unica sala un po’ buia, un parquet consumato, un arredamento minimal, con molti tavolini di legno grezzo vicini tra loro, le tovaglie e i tovaglioli di carta. Dalla cucina veniva un odore pungente di frittura che le pale dei due ventilatori del soffitto, pur col loro affannoso roteare, facevano fatica a disperdere.

    A differenza delle osterie domenicali, a quell’ora il locale non brulicava di bambini che si rincorrevano tra i tavoli, ma di signori incravattati e signore in tailleur, gli habitué della pausa pranzo.

    «L’unico tavolo libero. Fantastico!» esclamò lei, prendendo subito posto vicino alla porta d’ingresso, con l’aria di gradire molto l’atmosfera casareccia del luogo.

    Poco dopo si avvicinò una cameriera dai capelli biondo cenere e il viso slavato, con un grembiule a fiori a spalline incrociate e un cappellino bianco, con una caraffa di acqua in una mano e nell’altra un block notes digitale e un tovagliolo sul braccio.

    Posò la caraffa sul tavolo e con l’accento dell’Europa dell’Est elencò il menù del giorno.

    «Qui fanno degli spaghetti alla carbonara da leccarsi i baffi e della carne alla brace…» la interruppe lui.

    «Allora mi butto sulla carbonara. Anch’io ne vado matta. Ma poi prendo solo un contorno d’insalata».

    La ragazza spuntò sul blocchetto le ordinazioni e si allontanò ringraziando.

    Ludovica non vedeva l’ora di parlare di sé. Nell’attesa del piatto incominciò col dire che era ormai una delle poche ragazze che, con in piedi una relazione seria, abitava da sola. Dopo un anno che stava in città, per rompere il cordone ombelicale con i genitori, aveva preso in affitto un bilocale ammobiliato, al terzo piano di una palazzina residenziale immersa nel verde. Un soggiorno con angolo cottura, una camera da letto, un grande bagno, che era la stanza preferita.

    Poi iniziò a parlare del suo paese natio, non lontano dalla città, col centro storico arroccato nella zona alta, antichissimo e bello come un presepe, con le fontane di pietra e le stradine mattonate, lucide e ripide, dove era difficile arrivare con la macchina.

    Lì, proprio lì, nel cuore più antico, era la sua casa, che dovevi raggiungere a piedi, lasciando l’auto giù nella grande piazza delle corriere. Arrivato sull’uscio, vi entravi dal piano terra scendendo tre gradini e, attraverso due stanze, ti portavi dall’altro lato, sulla ringhiera ricamata in ferro battuto del balconcino, da dove guardavi tutta la vallata e ti accorgevi di essere al secondo piano. Poche stanze disposte l’una sull’altra, cariche di mobili antichi, pesanti e tarlati, di silenzi, di intimità.

    Dai vicoli intorno, all’alba, insieme al canto del gallo, saliva il profumo del pane fresco, poi durante il giorno risuonava il rumore della pialla e del martello e al tramonto si diffondeva l’odore inebriante delle castagne e della legna che bruciava nei camini.

    In paese tutti la conoscevano.

    «Ero la classica Barbie di paese. Quando mi muovevo sollevavo una scia di mosconi e facevo venire il torcicollo a qualche signore quarantenne, già equipaggiato con moglie e prole. Poi, a diciannove anni, per via dell’università, ci trasferimmo tutti in città, io e i miei genitori. Ma dopo i primi esami di architettura mollai i libri e decisi che era meglio darmi da fare con un lavoro».

    Poi parlò del convento di frati che, arroccato sulla montagna, sorvegliava il paese come un angelo custode.

    Tirò fuori il cellulare e gli mostrò delle immagini della sua casa in paese e del monastero.

    Fece scorrere il display e comparve all’improvviso una foto del suo fidanzato con la toga nell’aula del tribunale. Ernesto l’aveva sbirciata e lei, con molto imbarazzo, non era riuscita a nasconderla.

    «Questo è il suo fidanzato?» puntò il dito verso il cellulare.

    Lei annuì.

    «È l’unica foto che mi ha permesso di avere» rispose lei mostrandola.

    «Ma come, non avete delle foto insieme?».

    Lei gettò uno sguardo di nuovo al cellulare e sospirò.

    «Gilberto è molto geloso della sua immagine. Non vuole che vadano in giro fotografie di lui insieme a me».

    Ma subito dopo gli occhi si illuminarono e, tra una forchettata e l’altra, parlò di quel suo fidanzato stravagante e fanatico, ma che a quarant’anni era già magistrato in Corte d’Appello. Che si era fatto da solo e vantava molte amicizie importanti nel mondo politico e delle istituzioni. Che andava fiero di un guardaroba strapieno di abiti firmati o di alta sartoria, di centinaia di scarpe, ed era sempre elegante. Che era appassionato di automobili di lusso o sportive, sempre lucide come nuove e ne cambiava una ogni sei mesi. Che amava solo i locali chic e le vacanze esclusive. Che le raccontava di avere in casa una collezione di armi di tutti i tipi, antiche e moderne, dalle sciabole alle pistole. Ma non gliele aveva ancora fatte vedere.

    «Gilberto» soggiunse con un velo di rassegnazione, «è un tipo all’antica, uno per cui dire smartphone equivale a dire una parolaccia. È molto geloso della sua vita privata, questo l’ho capito dopo un po’, e in un mese che ci frequentiamo non mi ha mai fatto entrare in casa sua. È sempre venuto lui da me. Ma non ci faccio caso, per ora mi sta bene così. Tanto son sicura che presto mi inviterà con tutti gli onori. Mi dice sempre che sono la sua principessa e, dopo il divorzio dalla moglie, da tre anni, non ha avuto

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