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Il Bersaglio
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Ebook438 pages7 hours

Il Bersaglio

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Sulle opposte rive di un fiume durante la guerra dei Balcani due cecchini si fronteggiano e si tengono l’un l’altro sotto tiro. L’io narrante è un cecchino macedone, cristiano, che si racconta al suo nemico, una donna albanese, musulmana. Entrambi sono l’uno nel mirino dell’altra, il primo a sparare ucciderà l’altro. Ma quella donna, vittima o assassina, è, in un mondo devastato e annientato dalla guerra, l’unico essere umano con cui confidarsi. Nemica, è forse la sua unica amica. Forse la morte, forse la vita.
LanguageItaliano
Release dateJul 21, 2017
ISBN9788899706203
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    Il Bersaglio - Blaže Minevski

    macedone

    1.

    Il sole splende alto sopra le rovine della fortezza mentre io oriento il mio fucile di precisione lungo il fiume e poi scorgo lei, che mi sta fissando; mi ha inquadrato molto prima che io la scoprissi: avrebbe potuto uccidermi in qualsiasi momento, sto dicendo prendendo aria tra i fili d’erba che si muovono davanti a me come un mulinello d’acqua. Il cuore mi balza sotto la tuta mimetica, come se fosse un grillo. La guardo nel reticolo dell’ottica come in una foto di maturità; anche lei mi sta guardando. Ha un occhio grande e azzurro, come il cielo sopra la fortezza; riesco perfino a vedere il suo angolino umido e capisco che mi ha fissato a lungo senza battere ciglio. Io, quando miro il mio obiettivo, chiudo l’occhio sinistro; lei lo tiene aperto, anche se non può vedermi con esso, è troppo lontana. Osservo i suoi capelli biondi che scendono tra le primule, come se fossero tutt’uno. Non riesco a distinguere dove finiscono loro e dove iniziano quelle altre.

    Mi avresti potuto uccidere ancor prima che ti avessi visto tra le primule, dissi, le primule, pronuncio, e lei sbatte la palpebra come se fosse d’accordo, come se leggesse le mie labbra. Osservo come tieni il dito sul grilletto, così come faccio io; puoi colpirmi, così come io posso farlo. Lo so che mi guardi proprio come se fossi davanti a te mentre il sole splende sopra le rovine della fortezza domandandosi incredulo. Il tempo passa attraverso i nostri occhi, sconosciuto, come se fosse il passato, e tu ancora accenni un ghigno guardando attraverso le mie lunghe, silenziose, vocali. Parlo a bassa voce, certamente, forse apro appena la bocca, osservando come l’angolo sinistro delle tue labbra trema leggermente, come se capissi, come se ti dispiacesse per me: ti chiamerò Doruntina¹, pensai, e tu mi guardi attraverso l’ottica e dal movimento delle mie labbra riesci a leggere il tuo nome. I tuoi capelli sono pieni di fiorellini gialli; sembra che le primule crescano sopra di te, e dappertutto intorno, mi sembra persino nell’aria; ti chiamerò Doruntina, ripeto un po’ più ad alta voce, lettera per lettera, e tu di nuovo sorridi facendo l’occhiolino con l’occhio sinistro, come se fossi d’accordo, sto dicendo, d’accordo, dissi, è così. Finanche ora sento il mormorio del flusso che mi scorre affianco, dieci metri più in là, ma il flusso che sgorga vicino alla fortezza scorre vicino a te e confluisce nella stessa acqua del fiume che sta tra di noi, in basso. Mentre ascolto quel mormorio, all’improvviso, come in un sogno, divento il racconto che si sviluppa da solo, perché la vita, sto dicendo, la vita, dissi, è sicuramente ciò che si andrà a raccontare. Racconto, sto dicendo, racconto, dissi e mi accorgo che mi legge le labbra, e di nuovo sorridi mentre tieni il dito ancora sul grilletto, in ogni caso: come passa in fretta il tempo, Doruntina, sto dicendo, il tempo, dissi, e niente cambia. Se mi lasciassi andare nel flusso fino a raggiungere te, i tuoi uomini mi ucciderebbero; se ti lasciassi andare nel flusso fino a me, i miei uomini ti ucciderebbero, dissi, e tu strizzi l’occhio sinistro facendomi capire che sei d’accordo, ti è tutto chiaro, Doruntina, mentre il fiume sotto di noi scorre inesorabilmente, quel fiume, quello stesso fiume che aveva trascinato via anche lei come un segreto. Quando mi girai, vidi solo il suo cappello che cavalcava le onde ridacchiando. Il cappello rideva e il fiume scorreva inesorabilmente, come adesso.

    Guardando come ora sorridi sollevando la parte sinistra della bocca, mi viene in mente di chiederti di aspettare la notte per poi lasciarci andare insieme fino al fiume, sto dicendo, il fiume, dissi, ma improvvisamente qualcuno mi ha colpito forte sul tacco dello stivale, sto dicendo, mi ha calciato, dissi e si è sdraiato al mio fianco, dietro il cardo. Sicuramente tu hai già visto che senza alcun movimento, solo spostando lo sguardo dell’occhio sinistro, ho intravisto il binocolo e il naso appuntito di Nibbio Codarossa.

    «Che aspetti?» mi ha detto. «Spara!».

    1 NdT. Doruntina è il nome della protagonista di un canto medievale appartenente alla letteratura popolare albanese che si è diffuso nel tempo presso gran parte della penisola balcanica.

    2.

    Ti chiamerò Doruntina, dissi, e tu fai un cenno con l’occhio sinistro, come se il nome ti piacesse. Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto. Anche Steve Liptof, professore di scrittura creativa all’International Writers’ Workshop dello Iowa, raccontava con ammirazione che la leggenda di Doruntina era la più bella favola d’amore che avesse mai sentito in tutta la sua vita. Forse per questo chiedeva in maniera insistente, e perfino fastidiosa, al nostro collega di studi il poeta Fatos Dedelli di Krujë, di inventare di continuo nuove versioni della favola di Doruntina. E tu sai che lei ebbe nove fratelli, nove giovanotti. Quando raggiunse l’età per il matrimonio, la richiese un uomo ricco che viveva al di là di nove cimiteri e nove montagne. Otto dei fratelli e la madre non furono d’accordo a concederla in sposa, perché il luogo era molto lontano; ma il fratello più piccolo, Costantino, fu propenso, e promise alla madre che ogni volta che lei lo avesse chiesto, l’avrebbe riportata a casa, oltrepassando le nove montagne e i nove cimiteri, per incontrarsi e abbracciarsi, sto dicendo, e vedo il tuo occhio vibrare, il vento caldo strisciare sul tuo collo, mio fiume profondo. Passarono molti anni, tu lo sai, e sopraggiunse una grave malattia, la peste nera o forse la febbre gialla e così, nella favola, i fratelli morirono uno a uno mentre la madre divenne cieca, e nonostante ciò pregò Costantino di mantenere la promessa di portare a casa Doruntina, per poterla abbracciare e per accarezzarla. Così per giorni la madre pregò in versi e lacrime ma Costantino non c’era da nessuna parte, lui non venne.

    Finalmente un giorno, il figlio più piccolo sentì la preghiera della madre e si risollevò dalla tomba e la sua bara si trasformò in un cavallo. Montò a cavallo, sto dicendo, a cavallo, sto dicendo, e partì attraverso quei cimiteri per portarla a casa. Quando ebbe superato le nove montagne, la trovò sola in una distesa di primule: i suoi capelli biondi ondeggiavano sull’erba come un velo dorato. Fermò il cavallo di fronte a lei e poi la fece salire dietro di lui e partirono attraverso tutti i cimiteri, nei ricordi del passato, sto dicendo, e vedo una goccia blu scivolare dall’occhio e cadere tra le primule. Quando arrivarono al villaggio, un vecchietto, stando in piedi sulla povera collina, li guardò e non poteva credere ai suoi occhi:

    «Quello è un cavallo, e sul cavallo ci sono un morto e un vivo» si meravigliò masticando una folata di vento in bocca. E mentre se ne stava così con la bocca aperta al vento, Costantino e Doruntina erano già entrati nel cortile ed erano scesi da cavallo. Lui le accarezzò i capelli sotto il portico, sto dicendo, o semplicemente le chiese di salire da sola mentre lui legava il cavallo dietro la casa. Salendo le scale Doruntina non si accorse che lui era già dietro l’ingresso, correndo verso la sua tomba vuota, sto dicendo, tomba, dissi, e all’improvviso, come se fosse qui presente, l’ombra tremante di Fatos Dedelli e la sua voce bassa, mentre il professor Steve Liptof impaziente inizia a sfregarsi le mani, nell’attesa del finale della favola. E, proprio come si aspettava, così accadde, la storia continua con Doruntina nella stanza di sopra: «Non appena entrò» leggeva Dedelli nell’ora di scrittura creativa a Iowa «vide subito sua madre seduta vicino alla finestra, senza sapere che fosse cieca».

    «Chi è?» domandò l’anziana donna.

    «Doruntina» rispose la ragazza, e s’inginocchiò.

    «Non mentirmi, forse sei la morte nera che mi ha portato via i figli e ora viene a prendere me?».

    «Sono Doruntina, mamma, tua figlia» disse e poggiò la testa sul grembo della vecchietta mentre i capelli le scivolavano sul pavimento, riversandosi nella stanza come se sgorgassero da una sorgente.

    «Chi ti ha portato qui» chiese sua madre.

    «Costantino» disse lei.

    «Costantino... È morto da molto tempo» sussurrò l’anziana accarezzandole la testa fino a quando non si sciolse come un fiocco di neve tra i capelli di Doruntina.

    In quel momento tutti noi soffiammo nelle mani chiuse come se il gelo ci fosse penetrato sotto le unghie. Il professor Steve Liptof era indubbiamente soddisfatto dalla nuova versione di Fatos Dedelli, altrimenti avrebbe agitato la mano come se stesse scacciando una mosca dal naso o avrebbe lanciato il gessetto nel cestino della spazzatura. Questa volta era davvero entusiasta del racconto. Anch’io lo ero, ovviamente. Per questo voglio che tu sia Doruntina, sto dicendo, per questo, dissi. E per questo tu sei Doruntina. Ora che ti vedo otto volte più vicina, sto dicendo che non ti appartenga altro nome che questo; ti si addice questo splendido nome, eterno, perché i nomi delle leggende non muoiono mai. Se non fosse stato per quello straordinario poeta di Krujë, non avrei mai saputo dell’esistenza di questo nome; se non fosse accaduto quello che ora sta accadendo, non avrei potuto immaginarti così bella, perché Dedelli odiava le descrizioni e i discorsi lunghi. Era partito da Iowa tre mesi prima di me e quando tornai a casa, venni a sapere che era rimasto ucciso in una rivolta dell’opposizione a Saranda. In seguito, avevo sentito dire che era vivo, ma che purtroppo, aveva perso la mano sinistra. Non so quale sia la verità, Doruntina, so solo che ti ho sognata molte volte con la tua chioma bionda, come nella favola, sto dicendo, la favola, dissi, e opaca come un bicchiere appannato dal respiro; una fata con un piccolo neo sopra l’angolo sinistro della bocca. Esattamente la stessa che sto guardando in questo momento, Doruntina.

    Se il capitano Nibbio Codarossa sapesse che ti sto osservando, che ti ho scovata, che ti tengo sotto tiro ma non sparo, mi sparerebbe immediatamente, dietro l’altare situato vicino alla finestra. Disegnerebbe un tarassaco sulla parete con il mio sangue, nella calcina risalente ai tempi di Bisanzio e, poi, con il piede sopra il mio cadavere, ordinerebbe a Osho Trombetta, Osho il trombettiere, di soffiare un paio di volte nella sua trombetta in segno di rispetto e riconoscimento. Adesso è adirato per la morte di Echo Altavoce, il volontario più anziano del nostro squadrone, una specie di suo vice. È morto prima che io arrivassi qua; stava facendo un bisogno dietro il muro del cimitero, scusa il mio linguaggio, e non sapeva che proprio in quella parte della recinzione si apriva un avvallamento, consentendo un tiro facile dalla fortezza fin oltre il fiume. Era rimasto inginocchiato con il pezzo di carta che gli avevo dato poco prima; lo teneva in mano come se non fosse successo niente, come se fosse preso dalla lettura. Quando lo tirarono fuori, si accorsero che era stato centrato nella bocca. Proprio in quel momento io stavo uscendo dalla chiesa, aprii la porta e il capitano Nibbio Codarossa mi indicò con gli occhi il cimitero; saltò nella trincea davanti a me, col capo basso, prese a calci le zolle di terra e iniziò a correre verso giù, verso un’altra direzione, sbattendo con le spalle sul terreno incrinato ai lati del fosso. Camminavamo veloci, senza dirci il motivo, né dove stessimo andando; imprecava, brontolava, soffiava via le formiche e infine si voltò leggermente verso di me dicendomi che avrei dovuto portare a termine il lavoro personalmente. Non appena giungemmo, mi sdraiai dietro il cardo, come già sai, e solo allora Nibbio Codarossa mi disse che avrei dovuto far fuori il cecchino che in tre giorni aveva già ucciso dieci dei nostri ragazzi, incluso Echo Altavoce:

    «O lui o tu» disse seccamente, scivolando sulla pancia indietro nella trincea, e maledicendo le formiche iniziò a correre verso giù, forse in direzione della chiesa, non so.

    E ora, che dirti di più, Doruntina; quando ti scovai tra le primule, scoprii me stesso, ciò che ricordo come me stesso.

    Prima di arrivare qua, prima che mi mandassero al fronte, mi era già capitato quanto di peggio potesse accadere. Davvero una grande tragedia era accaduta, qualcosa che distrusse totalmente la mia carriera e vita, se di vita si può parlare. Il mio primo e unico romanzo che avevo annunciato al ritorno da Iowa, e che era stato definito un capolavoro e immediatamente era stato tradotto nei Paesi limitrofi. All’improvviso crollò con un botto, si disperse come un torrente nell’abisso, svanì insieme con me, Doruntina. Rimase solo il mio nome distrutto, il mio povero nome. In seguito, se ci sarà tempo, e il tempo sei tu, ti racconterò cosa è successo, cosa mi è accaduto, quanto ho sofferto. Dato che stai sorridendo, vuol dire che mi hai capito; vedo il tuo potente fucile da cecchino in mezzo alle primule; luccica ben saldo nella tua mano bianca; appoggiato tranquillamente sul tuo avambraccio, tenero e sottile come un gladiolo. So che quando il puntino rosso del laser attraverso l’obiettivo si ferma sul bersaglio, è già fatta, anche se la vittima è situata a un chilometro di distanza da te e, chiaramente, non sa di essere puntata come una foto arrotondata di annuario scolastico. Hai un fucile potente, Doruntina. Guardo, sto dicendo, guardo, dissi, e lo capisco. Sono sicuro che si tratti di un Heckler&Kock SG1, un’infallibile macchina per uccidere; premi il grilletto e la pallottola sa da sola cosa fare. Tu, invece, non l’hai premuto... e ancora non lo premi, ancora non lo premi... perché, Doruntina? Perché aspetti, sto dicendo, aprendo per un istante il mio occhio sinistro che guardi, e tu te ne accorgi. Apro l’occhio e tu batti alcune volte il tuo ed emetti un sospiro tra le primule: i piccoli fiori gialli tremano come bagnati dalla pioggia, come farfalle eccitate. Dietro di te, sul lato sinistro della fortezza, appena sopra la chiesetta distrutta di San Giovanni Decollato, si staglia verso l’alto il minareto della moschea. Proprio ora sento, sto dicendo, tu senti, dissi, il grido del muezzin che in ginocchio richiama alla preghiera tutti quelli che sono appostati nelle trincee. Il muezzin, sto dicendo, il muezzin, dissi, dal minareto, ma forse tuttavia è solo un altoparlante. È venerdì tuttavia, e pomeriggio anche, probabilmente. Suppongo che tutti quelli che non sono in trincea andranno alla moschea, si sistemeranno davanti a quell’incavo semicircolare nella parete anteriore, verso la quale tutti devono rivolgersi, perché solo così si è in direzione della Mecca, e inizieranno a mormorare con i palmi aperti, accarezzandosi le orecchie con le dita. Sussurreranno Allahu Akbar, se non vado errato, reciteranno le preghiere, sto dicendo, preghiere, dissi, e s’inchineranno. Dio è grande, ma la vita è tutto ciò che abbiamo; la sua perdita è la più grande perdita per chiunque. Tranne che per me, ovviamente. Perché non ce l’ho.

    Il professor Steve Liptof del laboratorio a Iowa voleva che studiassimo tutte le religioni per scrivere un racconto sul paradiso e l’inferno. Adesso riconosco che mi piace molto il vostro paradiso, e tu sai bene che esso è un giardino con molti fiumi, forse come ciò che vedremmo se per un istante abbassassimo lo sguardo, verso il fondo della gola. È chiaro che non possiamo farlo, perché non ci azzardiamo a distogliere lo sguardo dal bersaglio, anche se il mio e il tuo flusso scorrono nello stesso fiume, Doruntina, e tutto intorno crescono frutti prelibati e fiori, proprio come in paradiso. È questo il paradiso che vedono quegli uomini con le barbe lunghe che cadono sotto i nostri cecchini, aerei e colpi d’artiglieria? È questo, Doruntina? Bevono all’ombra il vino che gli era vietato sulla terra, un vino che non fa ubriacare; bei ragazzi porgono loro i calici, mentre ragazze seducenti dagli occhi neri soddisfano ogni loro piacere, sto dicendo, piacere, dissi, e intravedo il tuo sorriso e i tuoi capelli che leggermente si muovono sulle tue spalle come se il tuo corpo fosse accarezzato da un vento segreto. Riapro l’occhio sinistro, sto dicendo, occhio, dissi, e per un momento vedo quanto sei lontana quando ti guardo con esso e quanto invece sei vicina quando ti guardo con l’altro occhio. Spaventato dalla distanza, chiudo l’occhio e guardo come stai sdraiata sulle primule con l’obiettivo puntato su di me. Sì, Doruntina, l’ultimo Heckler, senza dubbio, Heckler, dico! Conosco ogni suo pezzo; fin da scolaro raccoglievo tutte le informazioni possibili sulle armi che erano pubblicate nei giornali e nelle riviste di armi, e diventai anche membro del club di tiro a segno Falange. Con il fucile riuscivo a colpire persino un fiore a distanza. Mi ricordo che a seicento metri, con un Beretta italiano, a sei colpi, ero in grado di tagliare una piccola primula fiorita. Insieme al suo profumo, ovviamente. La guardavo senza respirare attraverso l’obiettivo. Nibbio, il comandante, lo sa bene; fu campione di tiro con fucile di piccolo calibro. Sì, Heckler, Doruntina, Heckler! Hai un Heckler; quello è un Heckler. A differenza dell’obiettivo del mio freccia nera che ti avvicina a me otto volte, tu mi guardi ingrandito dieci volte. Potresti infilarmi un dito nell’occhio; puoi accorgerti che non ho chiuso occhio da tre giorni; puoi vedere che il mio naso è rosso come un peperone, per via delle zanzare o dei ragni, è lo stesso; puoi anche vedere il mio obiettivo, il segno tra le mie sopracciglia, una cicatrice che ho da quando sono rimasto da solo intenzionato a raggiungere i miei genitori nell’aldilà. Non sono riuscito a raggiungerli, non sono riuscito a capire che il paradiso esiste unicamente affinché possiamo comprendere la vita sulla terra.

    Perché non spari, Doruntina? Fallo prima che arrivi Nibbio Codarossa; non voglio finire in imbarazzo davanti a lui. Hai diritto a farlo; avresti potuto uccidermi senza che ti avessi nemmeno vista. Ecco, mi hai permesso di vederti, e ciò è abbastanza. Sono sicuro che nessun cecchino lo avrebbe mai fatto, nemmeno io, Doruntina. Credimi, sto dicendo, credimi, dissi, mentre i fili d’erba marciano davanti a me, si mettono in fila davanti al mio respiro, si allineano e rimangono fermi come se fossero pronti a sparare, aspettando l’ordine, e io sento qualcosa pungermi nel torace e vedo un velo rosso scendere davanti ai miei occhi. Anche i fili d’erba aspettano il mio sangue indegno, Doruntina. Poco fa, prima di giungere qua, sono andato al campanile. Il nostro comandante Nibbio Codarossa, che tu hai sicuramente visto mentre io stavo sdraiato dietro il cardo, pensava che il vostro migliore cecchino fosse appostato nella moschea. Mi tirò fuori dalla trincea nella quale aspettavo invano che qualcosa apparisse sul ponte, mi fece salire sul campanile e da lì mi mostrò la moschea. Quel pomeriggio vidi una specie di testa grigia, simile a una zucca, e un sopracciglio appena sopra il bordo del balcone, ma l’ho mancato: il colpo è finito un po’ più in alto, nella parete del minareto. Solo in seguito, cioè stamattina, dopo che è morto Echo Altavoce, un vostro uomo, sto dicendo, ma in realtà una nostra spia, ci ha informato del tunnel scavato sotto la fortezza; ci ha riferito che attraverso di esso uscite sul prato coperto di primule e da lì tenete sotto tiro tutta l’area intorno alla chiesa. Per questo sono qui, Doruntina, sto dicendo, per questo, dissi, guardando come premi con il dito il grilletto. Ora so che Codarossa aveva ragione:

    «Il prossimo errore ti costerà la vita» disse venendo verso me. L’ha scelto lui questo posto dietro il cardo, pensando che da qui nessuno sarebbe potuto sfuggire al mio fucile.

    «Aspetterai e lo scoverai» disse e si allontanò.

    Chi dovrei aspettare, Doruntina, chi dovrei aspettare se tu già mi tenevi sotto tiro ancor prima che ti vedessi appostata tra le primule? L’errore è già stato commesso, sto dicendo, l’errore, dissi, e all’improvviso il professor Steve Liptof di nuovo piombò nei miei pensieri:

    «Nell’universo» disse «nel cosmo, non ci sono errori; gli errori esistono solo se osserviamo da qui, attraverso i nostri occhi» aggiunse, commentando il mio primo e unico romanzo che avevo iniziato a scrivere sotto la sua guida a Iowa City, nello Stato di Iowa, Stati Uniti. Adesso so che quella era una citazione dell’ottico Benedict van der Bruch, anche se non diceva mai che era sua ma di qualcun altro, spesse volte avevo pensato che tutto ciò che diceva era pronunciato per la prima volta e l’avesse detto proprio lui:

    «Se gli errori non esistono senza di noi, allora anche noi non esistiamo senza di essi» diceva passeggiando nel fondo dell’aula. «Ogni errore partorisce un nuovo errore. Per questo, commetti pure errori, senza aver paura di sbagliare» disse, sorridendo ironicamente e lanciando il gessetto nella vaschetta della lavagna.

    Pensa adesso, Doruntina, Steve Liptof e Nibbio Codarossa, anche se non si conoscono, e neanche sanno dell’esistenza l’un dell’altro, hanno la stessa visione sulla sostanza degli errori nel mondo! Si tratta di un errore generale dell’evoluzione, Doruntina, nulla può essere cambiato; la vita è solo un tentativo senza successo di correzione degli errori:

    «Ogni vita» mi disse il capitano Nibbio camminando davanti a me nella trincea «significa anche la tua vita, mio generale...». Continuò sorridendo. «Maledizione» aggiunse «esiste solo nella propria morte. La morte è un errore cosmico senza possibilità di correzione. La vita è parte della morte, mentre la morte non è parte della vita. Se capirai ciò, ti sarà tutto più facile. Ad ogni modo, esiste qualcuno che sia vivo, senza che nessuno sia morto prima di lui? Non esiste. Esiste qualcuno che non sia morto, e prima era vivo?» domandò. «Non esiste, maledizione, nessuno. La vita è la coda, la morte è la bocca. È tutto un cerchio. Tutte le vite sono legate tra loro come il vento e la brezza» disse ancora e si fermò sul bordo della trincea. «Da qui, dietro questo cardo» proseguì «qui aspetterai il tuo bersaglio. Usano un tunnel sotto la fortezza» concluse, e come un soffio di vento, come la brezza, percorse la trincea verso l’accampamento, o forse in direzione della chiesa.

    Il cardo è rimasto sicuramente meravigliato dalla mia stupidità di nascondermi dietro di esso, credendo, così sdraiato, di non essere visto. Poco importa, tu sei qui, Doruntina; attraverso l’ottica del mio freccia nera vedo il neo sul tuo viso; vedo le ciglia del tuo occhio sinistro, il sorriso accennato nell’angolino delle tue labbra, rosse e deliziose, con piccole gocce che luccicano come rugiada da un’anguria tagliata. Guardandoti così da vicino, sto dicendo che tu sia una creatura di sorprendente intelligenza, simpatia intrinseca e spirito libero, come avrebbe detto Jorge Julio Gabriel Eberte di Cúcuta, collega di corso a Iowa City, mentre il nocciolo selvatico accanto a te è mosso dal vento o dall’emozione; vedo l’anello forgiato nella tua mano sinistra, vedo il bottone sbottonato della tua camicia mimetica, simile all’erba, più vicina al colore giallo che non al verde, sto dicendo, camicia, dissi, e vedo una piccola parte del tuo seno bianco sopra le primule e una piccola farfalla svolazza per raccogliere l’umidità che si forma nel piccolo solco tra di loro; ecco, vedo anche la catenina che sprofonda nella camicia; la catenina con la piastrina con il tuo nome, proprio come la mia; la tua camicia si perde tra le primule, invece la mia prova a mimetizzarsi con questo cardo e un po’ con la terra screpolata intorno ad esso. Forse proprio per questo, Doruntina, forse per i tuoi capelli, la tua camicia, che sono uguali a tutto intorno a te, sto dicendo, capelli, dissi, e a causa del riflesso delle primule sul tuo viso, non ho potuto vederti subito, scovarti. Quando ti ho scoperto, mi avevi già sotto tiro. Anche adesso però, mentre ti guardo, a malapena distinguo il tuo collo sottile dagli steli; le tue mani dai fiori, sto dicendo, mani, dissi; sei così uguale a loro, e così diversa. Bisognerebbe sapere come fare a trovarti tra le primule. Se non sbaglio, sei qui da diversi giorni; hai aspettato che mi facessi vedere, e alla fine, ecco, sono uscito allo scoperto, tu mi stavi aspettando; ora sono il tuo bersaglio, Doruntina, sto dicendo, sono, dissi; devi solo premere il grilletto. Dalla tua mano e dall’occhio capisco che sei precisa, a sangue freddo, e paziente ad ogni modo. Probabilmente sei il miglior cecchino sulla riva sinistra. E quanto sei bella, Doruntina, quanto sei bella, sto dicendo, persino Fatos Dedelli non saprebbe descriverlo con le parole! Attraverserei tutti i cimiteri pur di accarezzare i tuoi capelli, ma so che non appena inizierò a discendere lungo il mio ruscello, questo secco ruscello, Doruntina, allora, se non tu, qualcuno dei tuoi uomini sicuramente mi ucciderà con piacere, ma succederebbe lo stesso anche a te, credimi; se tu iniziassi a percorrere il tuo ruscello, questo ruscello, sto dicendo, il ruscello, dissi, i miei ti ucciderebbero all’istante. Guardo la farfallina che si poggia sulle primule vicino a te; sì, quella farfalla, Doruntina, quella, sto dicendo, la farfallina, dissi. Eccola davanti a te, eccola davanti all’obiettivo! Vorrei che volasse fino a me, che mi sussurrasse qualcosa di bello, di dolce e calmo; qualcosa che ricorderei per sempre. Qui, vicino a me, su questo tumulo secco, non ci sono né uno scarabeo né una farfalla. Che cosa posso regalarti, Doruntina? So che non ho il coraggio di spostare la mano; non posso mostrarti il taccuino che porto nella tasca sinistra. Dentro di questa, Doruntina, nella tasca sinistra, ho Ljuba, sto dicendo, Ljuba Albachiara, dissi, la seconda moglie di Jurij Andreevič Strel’nikov. Qui, nel taccuino, lei dice che se esiste qualcosa che può sostituire l’amore, quelli sono i ricordi. Ecco, lei, la mia Ljuba Albachiara nella tasca sinistra, vicino al cuore, sto dicendo, il cuore, dissi, e i ricordi della tua farfallina che io vedo, ecco, te li regalo; i ricordi, Doruntina, sto dicendo, i ricordi, dissi, e all’improvviso, insieme con te, mio profondo fiume, come il vento, come la brezza, io ritorno a Iowa.

    Indietro, a Iowa!

    3.

    Giunsi a Iowa che stava appena smettendo di piovere; le ultime gocce d’acqua scivolarono dalle mie mani; il viottolo del collegio emanava vapore come un cane bagnato. Avevo ottenuto una borsa di studio dall’International Writers’ Workshop. Avrei trascorso i nove mesi seguenti a imparare come scrivere un romanzo, mi sono detto. Il professore Steve Liptof, uno scrittore di mezza età che da tanto aveva rimosso le proprie radici slave, una volta disse che il talento è una condanna, e poi, con alcune parole, spiegò che nel 1553, a Ginevra, lo scienziato Serveto fu arso vivo sulla pira, accusato per un libro di scoperte sulla medicina; nel 1600, a Roma, fu bruciato Giordano Bruno, a causa del suo libro De l’infinito, universo e mondi; diciannove anni più tardi anche il suo seguace, Vanini, fu ridotto in cenere per via dello scritto I meravigliosi segreti della natura, e in seguito anche Thomas Laquer per il suo Storia del corpo umano e così molti altri.

    «Se desideri diventare scrittore» disse Liptof «dovrai tenere sempre a mente che forse il lettore non può, ma anche non deve, necessariamente capirti, e per questo ha sempre il diritto di bruciarti se non dovesse piacergli ciò che hai scritto. Certamente, non serve una pira per far ciò; la pira è lui stesso, il lettore. Dalle ceneri del cuore non esce fumo di conforto. La sostanza sta nel fatto che tu non esisteresti, anche se forse sei vivo. Vorrei che imparaste, actually, vorrei che voi imparaste che il mondo non può essere cambiato dalle storie di finzione e ancor meno da quelle reali. Infatti, è sufficiente per un buono scrittore che scriva il proprio romanzo affinché esso diventi reale. E un dato reale è accompagnato da due inventati. Il romanzo non è realtà e la realtà non è il romanzo; il lettore non crede nella verità ma solo in una storia convincente. Il futuro della nuova letteratura sta, difatti, nel rendere reali i fatti inventati» disse Steve Liptof alla prima lezione. «Per questo la letteratura è associata alla memoria, ai ricordi, e non a una qualche musa, e quindi tutto ciò che si dimentica, più tardi verrà a mancare» aggiunse, sbatté le mani, si girò, fece qualche passo intorno alla cattedra e così io capii subito che era un brav’uomo: faceva movimenti taglienti con le gambe e le sue natiche vibravano come i piatti in un’orchestra di fiati. «Lo scrittore non si permette di interpretare» proseguì «non spiega i fatti della vita ma solo li descrive per renderli, quanto più possibile, vividi. Questo l’hanno detto anche altri, e lo ripeto anch’io e così è. La realtà è fantasia; la fantasia è realtà. Per oggi è tutto, fine della citazione, shitty sorry» concluse, scacciando una mosca dal naso; poi si alzò sulla punta dei piedi, si girò, e con velocità inusuale, come un corridore sulla pista di atletica, corse verso la porta dell’aula. Le sue natiche vibravano come piatti d’ottone. Si sentivano anche dopo che fu uscito.

    «Che cos’è la realtà qui, e cos’è la fantasia?» domandò qualcuno dalla seconda fila.

    Mi voltai e vidi Jorge Julio Gabriel Eberte.

    «Noi, a Cúcuta» disse «Cúcuta sud» aggiunse, sistemando i fogli in una cartella colorata come un pappagallo «non abbiamo problemi con la verità, amigo; noi abbiamo problemi con la realtà; nessuno» disse «nessuno, amigo, ci crede che scriviamo su cose realmente accadute!».

    «Neanche noi» dissi girato lateralmente verso di lui.

    «La nostra realtà è una realtà incredibile» si alzò in piedi Eberte, raddrizzato nella sua camicia sgargiante e appoggiandosi sulle sue braccia simili a zampe di uccello somigliava al pappagallo del racconto su don Dino di Padre von Madre, il medico che odorava di mandorle amare. I suoi capelli al centro della testa erano ispidi; proprio come un pappagallo che è saltato fuori da una pentola per zuppa, pensai. Tuttavia, cinque minuti più tardi, camminando sul viale che portava agli alloggi studenteschi del collegio, chiamato il complesso Mayflower, Jorge Julio amigo Eberte già ridacchiando parlava di una tale Cecilia Gonzales Pisano, una ragazza di sorprendente intelligenza, simpatia intrinseca e spirito libero, la quale viveva con la zia aristocratica in un edificio coloniale circondato da girasoli, di fronte al liceo in cui lui aveva studiato. Poi continuò parlando di una qualche Leticia Cabrera Sucre, donna dal profilo abissino e la pelle come il cacao, libertina a letto, con orgasmi forti e intensi, con istinto per l’amore che somiglia a un fiume rabbioso. Viveva in una piccola casa nei pressi del cimitero e i vicini si lamentavano che con le sue grida da cagna compiaciuta disturbava perfino i morti. Il becchino li tranquillizzava dicendo loro che un giorno le avrebbe fatto mordere il cuscino! E così fu.

    «Che cos’è ora la fantasia, e cosa è la realtà, quando tutto è verità?» domandò nervosamente Eberte mentre io e Fatos Dedelli potemmo solo sollevare le spalle non sapendo come consolarlo. Pensavamo solo a Leticia Cabrera Sucre e così i giorni seguenti sognammo solo tombe, cuscini e una puttana felice.

    Ecco, Doruntina, come vedi, e sicuramente stai vedendo, quel ricordo di Iowa per un momento mi ha fatto aprire l’occhio sinistro ma ha socchiuso quello destro e allora tu sei sparita, ti ho perso dal campo dell’obiettivo del fucile. Ora sei di nuovo qui, ma non sorridi più sollevando l’angolo sinistro della bocca. L’occhio sinistro che tieni sempre aperto ora mi sembra in qualche modo più piccolo, come addormentato: deve accadere qualcosa dissi e, trattenendo il respiro, appoggio l’occhio destro sull’ottica e scopro l’uomo con la barba lunga dietro di te. Il sole batte sulla mia schiena, sto dicendo, schiena, dissi e l’ombra cade sulle primule, le adombra. Sta abbassato, con le gambe aperte, guardingo dietro i ramoscelli sottili e insidiosi del nocciolo; completamente bagnato, digrignante come un cane, muove la testa, agita la mano. Sicuramente sta dicendo qualcosa, giacché la barba si muove e vibra tra le foglie come se si stesse per staccare. Sta indicando la moschea con la mano, e oltre di essa, dritto verso di me, anche se non può vedermi a occhio nudo considerando che da qui all’altra riva del fiume ci sono almeno seicento metri in linea d’aria. Mimetizzato dietro il cardo, chiudo la bocca e mi accorgo che l’uomo non ha una mano, la mano sinistra; la manica gli pende dal braccio, smossa dal vento. Porta un emblema rosso sulla tasca e sul basco. Riesco a vedere chiaramente che è molto arrabbiato: vedo gli occhi che gli fuoriescono come insetti cuciti sul viso. Ci sono solo due buchi nella barba, per gli occhi. Non riesco a vedere la sua bocca; non so cosa stia dicendo. Per qualche motivo è furioso con lei; forse le sta domandando perché non mi abbia ancora ammazzato, forse le sta dicendo che stamattina il loro cecchino calvo sul minareto è stato gravemente ferito, sto dicendo tra me. Sa che sono stato io a sparare, già l’avevo detto a lei, ma avevo detto di averlo mancato; almeno pensavo di averlo mancato. Da quello che riesco a vedere da qui, Doruntina è tranquilla; il suo volto è rilassato, solamente non ha il sorriso nell’angolo sinistro della bocca. L’uomo-barba continua ad agitare la sua unica mano, indicando verso questo lato del fiume, verso la sponda destra; indica e sta piegato, come se stesse per cadere su di lei e la schiacciasse. Il mio freccia nera ha un calibro 12,7 millimetri, dei buoni spegnifiamma e silenziatore, e proprio ora, quando è ricurvo sopra di lei, sto dicendo, mentre urla esattamente sulla sua testa, potrei con un colpo mandarlo a finire in mezzo ai rami del nocciolo, oppure incollarlo sulla parete della fortezza, è la stessa cosa. In effetti, con un colpo potrei uccidere entrambi; dopo aver attraversato la testa di Doruntina, colpirebbe lui dritto al cuore. So che potrei farlo; potrei spezzare la primula sul suo petto, se volessi, ma sprecherei cinque colpi per niente. E comunque, no! Assolutamente no, dissi, non merita un proiettile col sapore di Doruntina; ora, in questa posizione, non merita nessun proiettile, anche se già sento che il mio dito stuzzica il grilletto, mentre guardo la sua barba che salta sotto la gola, mentre i suoi occhi scivolano sopra di essa e sembra che stia scuotendo la testa. Allento il mio dito e lentamente lo rimuovo dal grilletto, mi rilasso; non merita di morire accanto a lei, sto dicendo:

    «Zitta, Doruntina sto dicendo zitta» dissi. «Lui non ha idea che tu mi stia guardando; perché se l’avesse saputo, ti avrebbe ucciso all’istante, così come Nibbio Codarossa ucciderebbe me, sommariamente, credimi; con un colpo alla nuca, senza battere ciglio. O forse ti taglierebbe la gola, Doruntina, per non far rumore. Sì, credo che ti sgozzerebbe; vuole sentire come il tuo corpo trema tra le sue mani e vedere come il tuo sangue trasforma le primule in papaveri, nella primavera sgozzata. I barbuti amano molto tagliare le gole; ti avrebbe rigirato come un capretto. Hanno dei coltelli speciali, affilati, taglienti, a doppia lama; ti afferrano per i capelli sopra la fronte, piegano la testa all’indietro, la gola si stende, si solleva sotto il mento come una vena e zac! Fatto. Ho visto in televisione come tagliano la gola ai prigionieri legati; prima li obbligano a ridere, a salutare i parenti; poi mandano la videocassetta in televisione, mentre in un’altra, che conservano per se stessi, li afferrano per i capelli, da dietro, e subito gli tagliano la gola; la vittima sente solo uno sguisss e niente più. E la testa già pende in mano al boia, il sangue sgocciola come da una spugna per lavagna nelle mani dell’esecutore. Il corpo ha degli spasmi nell’erba, si poggia con forza sulla schiena come se volesse alzarsi; le gambe provano a fare dei passi, come se volessero correre, e loro, sto dicendo, loro, dissi, quelli come lo Storpio dietro di te, dissi, guardano verso la testa morta, la fanno girare come una lanterna, agitano i coltelli, si rallegrano. Poi si fotografano con gli stivali poggiati sopra la testa. Ho visto foto simili, Doruntina, anche se prima di mostrarle scrivono che non sono immagini per persone dai nervi deboli o con problemi di cuore. Com’è possibile sgozzare una persona, sto dicendo, persona, dissi, se lo sai, e dovresti saperlo se sei una persona, la quale ha ricordi come li hai tu, la quale ha una madre, e forse anche dei bambini, così come te, se sei una persona. Mi chiedo, mio profondo fiume, se non faccia male anche a loro un po’ la gola quando conficcano il coltello nell’ultimo bacio di chi ha salutato la vittima prima di partire, sto dicendo, bacio, dissi, se non sentano il sangue ribollire quando schizza sul loro pollice come zucchero caramellato. Zitta, Doruntina, ripeto, e sto dicendo che

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