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Movida di morte
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Movida di morte

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About this ebook

Torino, borgo San Salvario.

Un misterioso assassino sta uccidendo dei ragazzi nell’ambiente della movida e la commissaria Maura Testa inizia ad indagare su questi delitti con la sua squadra.

La circondano diversi personaggi, a partire dal suo compagno ai suoi collaboratori più fidati. Più l’inchiesta va avanti, più la protagonista avverte inspiegabili sensazioni che la turbano in modo profondo. Qualcosa la tormenta. A ciò si aggiunge la frustrazione derivante dal fatto che ad ogni delitto la vicenda si complica sempre di più. Nel dipanarsi degli eventi il lettore, gradatamente, si renderà conto di quale terribile e crudele verità si celi dietro ai “delitti della movida”. La soluzione arriverà, ma ad un prezzo che nessuno vorrebbe pagare.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 24, 2017
ISBN9788892653207
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    Book preview

    Movida di morte - Nadia Delneris

    nato.

    PRIMA PARTE

    PRIMO CAPITOLO

    So bene cos’è l’inferno: il dolore a volte mi divora in un modo che neanche puoi immaginare...

    Ho visto tanti, troppi dottori; tutti mi hanno dato medicine, ma non è servito a niente: per guarire ho bisogno solo di lei, la Voce. Quando la sento, sto bene.

    Hanno detto che la mia malattia affonda le radici nell’infanzia. A pensarci bene, in effetti, i miei genitori non si curavano di me, a malapena sapevano che esistevo. Ma questa non è una giustificazione, i medici per me non capivano niente: io ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in me fin dalla nascita, una tara genetica, forse…

    Poi è arrivata lei, la mia fortuna, la Voce. Mi dice quello che devo fare. Lei sola mi conosce veramente.

    Forse è Dio o forse no, ma so che è qui per me. Sa cosa è giusto e ingiusto, è come una madre e mi punisce anche, se è necessario... È la mia unica vera amica perché sa capire ciò che è meglio per me.

    Tutto è cominciato un giorno alle elementari.

    C’era quella bambina, Aurora… Arrogante e presuntuosa: era ricca, i suoi genitori venivano a prenderla con la Mercedes Pagoda. Quanto li invidiavo! Anche i miei avevano macchine lussuose, a volte, peccato che poi gliele sequestrassero perché non pagavano le rate…

    Ho imparato in fretta la differenza tra quelli come loro e le persone come me: Aurora era davvero ricca, noi eravamo poveri disgraziati che non appena avevano centomila lire in mano ne spendevamo quattrocento facendo cambiali, che puntualmente non pagavamo. Eravamo una famiglia di protestati.

    Io lo sono diventato quando avevo vent’anni: mio padre ha voluto comprare a tutti i costi la Mini De Tomaso rosso fiammante, che poi mio cugino ha fracassato a un incrocio su una strada provinciale, anche se lui è rimasto illeso.

    Peccato.

    Chiaramente, non essendoci più la macchina, i miei hanno smesso di pagare e la finanziaria è venuta a cercare me.

    Alto livello di morosità era scritto accanto al mio nome presso ogni istituto di credito. Avevano intestato l’auto a me, perché ero l’unico pulito.

    L’ho scoperto una volta per caso, andando a chiedere un prestito per aprire un’attività. I miei non si erano neanche dati la pena di dirmelo, ma forse non lo sapevano neppure loro.

    In ogni caso, penso proprio che non gliene importasse nulla.

    Non c’è malvagità in me, ma solo la giusta rabbia contro chi infrange le leggi e l'armonia dell’Universo.

    Quella bambina, Aurora, per esempio, disturbava me e gli altri compagni.

    Ogni occasione era buona per dire che suo padre era una persona importante, sua madre andava dalla pettinatrice tre volte alla settimana e lei non vedeva l'ora di diventare grande, così avrebbe sposato il figlio degli amici più cari dei suoi genitori, ancora più ricchi di loro.

    Si comportava come se gli altri non contassero nulla e non aveva rispetto per nessuno. Faceva piangere tutte le bambine deridendole per quello che indossavano o per i loro capelli, e prendeva in giro i maschietti perché la guardavano come se fosse una dea.

    E lo sembrava, davvero. Aurora sapeva di essere la bambina più bella della scuola, ma era convinta anche di essere la più furba e intelligente, la migliore.

    Così, l’ultimo giorno della terza elementare ho preso un compasso dalla cattedra del maestro e gliel’ho ficcato dentro l’orecchio sinistro.

    Non ho provato alcun rimorso… anzi, lo rifarei.

    È stata la prima volta che ho sentito la Voce.

    Papà e mamma sono stati chiamati a scuola. Almeno si sono accorti che esistevo.

    I genitori di Aurora hanno chiesto un esoso indennizzo che non arrivò mai: i miei possedevano solo debiti. Quanto a me, il giudice minorile decise che avrei dovuto passare un po’ di tempo in un istituto per bambini problematici, come ero stato giudicato io.

    Quando mi davano tutte quelle medicine, appena potevo facevo finta di prenderle e poi le sputavo di nascosto, come avevo visto fare in un film.

    Dopo l’istituto però la Voce non è più tornata per molto, molto tempo... Ma ora, da qualche mese, è di nuovo con me. Mi ha ritrovato. So cosa vuol dire.

    È arrivata l’ora di combattere. Solo così potrò sentirmi davvero in armonia con l’Universo.

    SECONDO CAPITOLO

    Domenica 27 marzo 2016, Pasqua

    Sono le tre del mattino e non ho ancora chiuso occhio.

    Dezy mi guarda col suo musetto felino, non ha problemi, potrebbe dormire ovunque ci sia qualcosa su cui posarsi, è un gatto… Ma anche lei sembra inquieta e gironzola per la camera sbattendo lievemente la sua codina storta.

    Quando era cucciola alcuni ragazzetti stupidi e crudeli hanno cercato di farle del male. Per fortuna è intervenuto Giuseppe, mio fratello, che con il cric della macchina gli ha fatto prendere un bello spavento. Poi l’ha presa e, attraverso varie vicende, è rimasta a casa mia.

    Mi alzo trascinandomi verso la cucina; non accendo neanche la luce, non ne ho voglia. Allungo la mano verso la caffettiera, rimasta quasi piena da ieri sera, e ne verso il contenuto in un bicchiere che afferro senza neppure curarmi se sia lavato o meno.

    Sono i postumi della cenetta semi-romantica con Piero, il mio unico fidanzato preferito. È arrivato un po’ tardi, tanto io sono stata trattenuta con dei miei colleghi.

    Già, mi chiamo Maura Testa e sono una commissaria della Squadra Mobile di Torino. Prima ero alla Omicidi, ma ora sono stata distaccata qui a San Salvario presso la sezione contrasto al crimine diffuso. Mi hanno seguito anche il mio vice Guidi e una giovane ispettrice, Martina Giannini.

    Ieri sera due agenti in pattuglia hanno beccato alcuni ragazzi minorenni che stavano dando fuoco a un cassonetto. Dopo avere chiamato il 115 li hanno portati in commissariato, dove li abbiamo strigliati un po’, ma poi non abbiamo avuto altra scelta che lasciarli andare coi genitori, non c’erano stati danni. In fondo volevano solo divertirsi, giusto?

    Io stavo per andare a casa. Avevo già preso la borsa, quando il mio nervino isterico, come lo chiamo io, si è svegliato: a volte non riesco a resistergli.

    Gli ho fatto una girata pazzesca, insistendo sulle eventuali conseguenze del loro gesto.

    Il vandalismo è un fenomeno ormai ampiamente diffuso. Nessuno si rende conto che ciò che è di tutti è anche proprio. È seguita poi una perfetta lezione di educazione civica da parte di Guidi, sempre convinto che le buone maniere siano le più efficaci.

    Mi domando ancora adesso come abbia fatto a fare carriera in polizia.

    Naturalmente i genitori erano piuttosto seccati perché avevano altri impegni e hanno giustificato i loro pargoli dicendo: «Con tutto quello che succede in questo Paese voi andate a guardare due ragazzini che stavano solo giocando... Ma andate a Roma ad arrestare quella manica di ladri, corrotti e puttanieri!».

    Non che avessero del tutto torto, ma gli ho fatto notare che queste parole di fatto legittimavano l’atteggiamento dei loro figli, mentre il compito di un genitore dovrebbe essere ben diverso.

    Bisogna saper anche dire di no a volte, oltre a dare qualche sonoro manrovescio quando ci vuole.

    Guardo Piero. È alto, bello, ha quasi sessant’anni e non si direbbe; è forte, intelligente e gentile. Dorme. Oggi è Pasqua, mica deve lavorare lui, e nemmeno domani. Ma io sì. Il mio lavoro non conosce feste né orari, ma non mi lamento. In fondo non saprei fare altro.

    Aspetto con ansia la chiamata del mio fedelissimo vice, al quale ho chiesto di trovare al più presto delle informazioni su una persona, anche se in modo informale. Per questo non riesco a riposare, non vedo l’ora che mi dica qualcosa.

    Il caso che il commissario capo Tolli, non senza insistenze da parte mia, mi ha affidato, inspiegabilmente è diventato una specie di ossessione per me, come se dalla sua soluzione dipendesse la mia vita. Non è più solo una questione professionale, è diventato qualcosa che mi tormenta da dentro fin dall’inizio di tutta questa vicenda.

    Nella mia carriera ho affrontato situazioni tremende, ho visto pervertiti e bastardi di ogni tipo, individui che commettono i crimini più efferati; eppure davvero non riesco a capire perché questo caso, che per me fino a poco tempo fa sarebbe stato poco più di una routine, mi tocchi così nel profondo.

    È come se avesse risvegliato in me un qualcosa di oscuro che ho sepolto nei meandri della coscienza: non riesco a vederlo ma lo percepisco come un vento gelido che parte dai recessi più bui della mia anima…

    C’è un’ombra che ogni tanto mi passa davanti, e io so di avere vicino l’anello mancante della catena per trovare la soluzione ma, come ogni ombra, quando cerco di afferrarla si sposta insieme a me.

    TERZO CAPITOLO

    L’ombra mi tormenta da circa due mesi, quando una fredda mattina di fine gennaio abbiamo trovato il cadavere di una giovane donna disteso tra due macchine.

    Non l’avevano notata perché era nascosta sotto un telo simile a quelli che si usano per mettere sopra alle auto. Forse qualche anima pia, pensando che fosse una senzatetto, l’aveva coperta.

    La zona in questione è una delle più degradate e pericolose del borgo.

    Da quelle parti sorge un palazzo, un tempo famoso e famigerato, dove per decenni gli abitanti sono stati ostaggio di una manica di delinquenti, italiani e non, che facevano di tutto. Avevano occupato le soffitte, si allacciavano alla luce condominiale e hanno rischiato più volte di far saltare tutto per aria con bombole del gas difettose.

    Nessuno poteva fare nulla. La verità? Uno dei condomini era il fratello di un mafioso abbastanza importante da poter mettere i bastoni tra le ruote alle autorità.

    Il palazzo era il principale crocevia nella zona dello spaccio di erba, e passi, ma anche di eroina e cocaina. Una volta vi avevano sequestrato una sedicenne slava che si rifiutava di prostituirsi, così l’hanno torturata e seviziata fino alla morte.

    La svolta definitiva è arrivata quando molti anni fa una ventenne magrebina, imbottita di roba, per sfuggire alla polizia durante una retata si è messa a correre sui tetti ed è caduta perdendo la vita.

    Adesso i tempi sono cambiati, il palazzo è stato ristrutturato, gli abitanti un po’ meno.

    In compenso ci sono i locali e la movida.

    L’altra faccia della luna del divertimento del pueblo de la noche, come amano definirlo con un eufemismo, la conoscono in pochi però. La cosa più comica, davvero, è che si è sempre detto che grazie ai locali e alla movida ci sarebbe stato meno spaccio.

    Specialmente, guarda caso, da parte di chi rilasciava le licenze.

    Dal 2010 i comuni non hanno più facoltà di limitare il numero di bar e ristoranti che possono essere aperti sul loro territorio. Libero commercio, libera concorrenza, bla bla bla. Chiacchiere inutili per mascherare una politica di liberismo selvaggio. Darwinismo economico.

    In ogni caso posso garantire che il mercato della droga non è affatto diminuito, sia come residente che come poliziotta: anzi, è stato il contrario, e direi anche che era ampiamente prevedibile, se non logico.

    Quanto alla movida, è come il colesterolo: c’è quella buona e quella cattiva.

    Fino a mezzanotte o giù di lì ci sono persone che vogliono divertirsi e lo fanno nei limiti della civiltà. Dopo un certo orario si entra nel regno dell’alcol e le cose cambiano.

    I movidari di questo secondo tipo sono chiassosi, scatenati, sballati. Urlano, bevono, spaccano specchietti retrovisori e altre cosette del genere. Squallore e sporcizia regnano indisturbati: bottiglie di birra e liquori vuote, o spesso in frantumi, bicchieri di plastica abbandonati sui tettucci delle auto, urina, vomito.

    Questa situazione è perfetta per gli spacciatori, che si confondono nella folla. Vendono come non mai, per sballarsi non basta l’alcol. Sono aumentati e il mercato si è ampliato.

    È in questo contesto che il 28 gennaio due studenti mattinieri si stavano dirigendo alla metro verso le sei. Mentre camminavano hanno notato quello che a prima vista pareva un sacco di tela impermeabile, ma dalla forma strana. Ne hanno sollevato un lembo e si sono ritratti subito alla vista di alcune ciocche di capelli sparsi sul selciato: una ragazza. All’inizio hanno pensato che fosse una tossica, un’ubriaca o entrambe le cose. Era molto minuta e rannicchiata in posizione fetale, i lunghi capelli castani sparpagliati a terra.

    Sembrava una bambola gettata via da una bimba capricciosa.

    Con un residuo di senso civico i giovani hanno chiamato un’ambulanza, la quale è arrivata dopo dieci minuti: i paramedici hanno subito constatato il decesso per arresto cardiaco, la cui causa non era al momento possibile identificare. Il medico legale è stato lapidario: bisognava aspettare l’autopsia, che si è svolta il giorno dopo.

    Quanto al Pm, era presente solo fisicamente, giusto per rispettare la forma.

    Risultato degli esami: la giovane era stata stroncata da un ictus.

    Nessun segno di violenza o colluttazione, inoltre aveva ancora con sé la borsetta, abbandonata con dentro solo il portafogli vuoto, a parte la carta di identità.

    La poveretta è stata identificata dai genitori: come i documenti dicevano, si trattava di Giovanna Maggi, anni ventuno, altezza 1,59, occhi e capelli castani, studentessa in attesa di occupazione. Stato civile: libera.

    La ragazza abitava a Mirafiori, un quartiere abbastanza modesto, ed era venuta da noi a cercare alcol e altro con una compagnia di cosiddetti amici che poi avevano dichiarato: «Era fatta, troppo andata… Che schifo, ha sbroccato, abbiamo anche pensato di chiamare il 118, ma nessuno di noi poteva fermarsi, poi lei è sparita all’improvviso…». Begli amici.

    Il giorno dopo, il tizio che in teoria avrebbe dovuto chiamare l’ambulanza era stato sentito.

    Sembrava sinceramente disperato. Ha dichiarato che erano andati alla pizzeria Isterica e avevano bevuto parecchio. Giovanna a un certo punto si era alzata dicendo che voleva prendere una boccata d’aria fresca; la verità era che stava litigando con una del suo gruppo e si stavano insultando pesantemente. Sembra che questa tipa avesse spifferato certe faccende private della vittima su WhatsApp a qualcuno della compagnia. Stavano addirittura per arrivare alle mani, così qualcuno ha suggerito alla Maggi di fare un giretto per sbollire la rabbia.

    Erano circa le due del mattino quando è uscita e poi, dopo una mezz’ora, alcuni dei suoi amici l’hanno vista all’angolo fuori dal locale, e sicuramente stava già male.

    Dov’era andata? Aveva incontrato qualcuno? Nessuno lo sapeva.

    E quando non hanno più visto Giovanna, perché non l’hanno cercata? Ma, soprattutto, perché non l’avevano soccorsa subito? Erano ubriachi fradici, ecco perché.

    Tutto dunque deponeva a favore di uno sballo finito male, come spesso si sente alla Tv o si legge sui giornali. Magari quella povera ragazza, dopo avere bevuto birra e liquori, aveva ingerito qualcosa che ha scatenato una reazione talmente violenta da provocarle la morte.

    Le analisi poi effettuate hanno confermato questo sospetto.

    Dunque il caso era stato archiviato come colpo apoplettico causato da overdose.

    Ma io non ero convinta. Continuavo a chiedermi quando e come la ragazza avesse assunto ciò che l’aveva uccisa.

    Nel locale? O durante la passeggiata fuori programma?

    Fin dall’inizio non ho mai creduto che si fosse trattato di un incidente. Nonostante tutti fossero di parere contrario.

    Mi dicevano che non c’erano elementi per pensare che la ragazza fosse morta per motivi diversi.

    Uno si ubriaca, si droga e muore, semplice. Troppo, secondo me.

    A rafforzare i miei dubbi in seguito ho ricevuto una visita interessante.

    QUARTO CAPITOLO

    Una settimana dopo il funerale di Giovanna Maggi, in commissariato si è presentato un ragazzino che pareva un nerd, tutto dinoccolato e brufoloso. Aveva già rilasciato una deposizione a Guidi, ma il mio vice ha ritenuto opportuno che parlasse direttamente con me.

    Si chiama Aurelio Valli ed era un ex compagno di scuola della vittima, innamorato di lei da una vita.

    Questo però non me lo ha detto lui. Era più che palese.

    Il fatto è che sospettava fortemente che Giovanna fosse stata uccisa ed è scoppiato a piangere come un bambino di cinque anni. «Per favore, faccia qualcosa, nessuno mi crede… Non ho prove ma… lo so.»

    Gli ho allungato un fazzoletto e ho cercato di tirare su un sorrisetto di circostanza; non sono mai stata molto brava in questo, ma cerco di fare del mio meglio, così ho mormorato il più soavemente possibile un: «Dimmi Aurelio, ti ascolto». Lui, alzando il mento che tremava come una foglia, ha detto: «La conoscevo dalle medie... eravamo migliori amici... Lei non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Si sballava ogni tanto, sì, ma stava attenta. Qualcuno le ha fatto prendere quella roba per farle del male, si fidi. Beveva, sì, fumava… Ok, magari anche una striscia ogni tanto, ma non quelle schifezze».

    E in effetti proprio di schifezze si trattava: gli esami del sangue avevano rilevato nel corpo della vittima una massiccia quantità di un tipo di metanfetamina, lo speed: una miscela stimolante di caffeina e anfetamine. In genere lo si assume per restare in forma e tirare sino a mattina. Questa sostanza provoca un aumento della temperatura corporea, del ritmo cardiaco, della frequenza e della pressione arteriosa; la salita è immediata se fumata o iniettata, mentre se sniffata fa effetto dopo circa dieci-venti minuti e può durare parecchie ore.

    Secondo il patologo, però, Giovanna non l’aveva assunta in nessuno dei tre modi. A parere suo l’aveva ingerita. Strano modo, gli spacciatori di solito usano metodi tradizionali.

    E meno male che Guidi lo ha mandato da me: Aurelio, nel colloquio con il mio vice non aveva voluto dire tutto, perché temeva di essere coinvolto o non creduto.

    Lui quella sera non c’era per due motivi: non legava con gli amici di Giovanna e comunque era stato a un concerto a Piossasco dove si esibiva una banda dal nome impronunciabile e oscuro, pare tra le migliori nel suo genere. Inutile dire che non la conosco.

    Ricordo che sul momento ho pensato al classico caso dell’innamorato che non riesce ad ammettere come l’amata possa avere fatto qualcosa di così terribile: quindi decide che non era colpa sua, ma degli altri.

    Mi sono allora preparata a fargli il solito discorsetto, ne ho visti di casi come questi, quando lui mi ha prevenuta con un: «Ecco, guardi qua». Ha messo sulla scrivania un quaderno rosso a quadretti di dimensioni medie. L’ho preso e l’ho aperto. Una scrittura fresca, cristallina e pulita. «È il suo diario, sa? Non ci crederà, ma Giovanna non era una ragazza come tutte le altre. I suoi veri segreti non li condivideva sui social, se li teneva per sé, li scriveva qui. Io sapevo dov’era, me lo aveva fatto vedere una volta.»

    «E come mai ce l’hai tu?» gli ho domandato.

    «Quando sono andato a casa sua per fare le condoglianze ai genitori gli ho chiesto di stare un po’ nella sua cameretta e loro mi hanno accontentato. Ma io volevo prendere questo, ero sicuro che mi avrebbe detto qualcosa. Commissaria, sono una persona razionale, non le sto dicendo che ho visto il fantasma di Giovanna e ho avuto una rivelazione: questa è la sua calligrafia e si può provare senza problemi.»

    Mi sono detta: Che sarà mai perdere qualche minuto?

    Ho dato un’occhiata agli ultimi giorni e dopo pochi secondi ho sentito pizzicare il mio nervino isterico. Di solito mi avverte che qualcosa non va.

    Giovanna era convinta che qualcuno la seguisse da qualche tempo. Non era paranoica e nel diario non c’era nulla che lo facesse sospettare; conteneva quasi un anno della sua vita. Una vita normale, persino troppo.

    Ho chiuso il quaderno e ho iniziato a parlare: «Tu hai dei sospetti su chi potrebbe essere?» gli ho chiesto senza preamboli.

    «No, cioè, anzi, guardi, all’inizio, quando me l’ha confidato, non l’avevo presa sul serio, sa, è…» la voce spezzata «Era una bella ragazza, avrebbe potuto essere uno a cui piaceva. Ma quando lei mi ha detto che…» Lo interrompo: «Quando ti ha detto che il tipo che la seguiva assomigliava a quel cantante famoso, Justin...» gli rispondo. «Beh» continua Aurelio «comunque Bieber, Justin Bieber, sì… mi sono spaventato, perché io lo conoscevo di vista. Fino a pochi mesi fa abitavo a San Salvario.»

    QUINTO CAPITOLO

    Bieber, come no: un elemento già noto alle forze dell’ordine. Effettivamente in volto sembra il fratello maggiore del famoso cantante americano, idolo di molti teenager. In realtà però tutti lo pronunciano Biber.

    È comparso a Torino da pochi anni, sedicente profugo siriano che vive non si sa bene come; ai tempi delle incursioni della Finanza durante il governo Monti l’hanno fermato con una Bmw nuova di zecca intestata a una società con sede a Singapore. Ha detto che era di un amico e che la stava solo provando, così tutto è finito lì: mica sarebbe stato così idiota da far comparire il suo nome.

    Viene da ridere in questi casi, ma credono davvero che uno così possa essere tanto cretino? In questo Paese i cretini sono quelli che pagano, e non è retorica, ma verità.

    Biber è stato indagato molte volte nel corso di inchieste legate alla criminalità organizzata e ai suoi traffici.

    Si occupa prevalentemente di usura e recupero crediti, ma non disdegna lo spaccio se c’è da fare un buon guadagno.

    Quando era giovanissimo ha persino sfilato, ma poi ha lasciato perdere perché, come diceva lui, non era un frocio.

    Mi ricorda la storia di quel delinquente statunitense, un figo della malora, al quale dopo la diffusione delle foto segnaletiche su Internet è stato proposto un contratto per fare il modello.

    Giovanna aveva visto Biber per la prima volta all’Isterica, proprio il locale di San Salvario da dove è uscita prima di morire.

    Una pizzeria, o almeno questo è scritto sull’insegna: in realtà è un posto dove appunto si raduna la movida cattiva, l’altra faccia della luna. I frequentatori del dopo mezzanotte vanno avanti fino alle quattro o alle cinque del mattino e talvolta, per non annoiarsi, oltre alle solite cose suonano ai citofoni gridando: «Residenti, bastardi, non dovete dormire!».

    Io sono la polizia, anzi, una commissaria di polizia, e non ho potuto fare praticamente nulla. Figuratevi gli altri. Sì, qualche volta sono arrivate le volanti, ma poi qualcuno dai vertici del comune ha cominciato a dire: «Perché, poverini, sono solo dei giovani che si divertono... E poi non capite niente, la movida è anche cultura!».

    La miseria intellettuale e morale di chi afferma e pensa davvero una cosa del genere si commenta da sola.

    E poi guarda caso a parlare così è tutta gente che abita in zone residenziali o in collina, dove non si sente volare una mosca neanche a pagarla. Facile parlare bene della movida quando sei lontano e ben protetto dal caos di urla e schiamazzi notturni.

    Vogliamo dirla tutta? Alcuni proprietari e soci di certi locali hanno santi in paradiso. Punto.

    Ma almeno una notte mi sono presa una soddisfazione, anche se solo morale: ho fatto il tifo per due tizi che, esasperati dal casino mostruoso, sono scesi dalla macchina perché non riuscivano a passare nella via... Già, perché, come se non bastasse, spesso dopo una certa ora le strade sono gremite da una folla urlante che prende a pugni e a calci le auto. I due, armati di robuste mazze da baseball, hanno cominciato a menare fendenti a destra e sinistra... Quasi quasi saremmo scesi anche io e Piero a dare loro man forte.

    So che non dovrei dire queste cose. Ma pensare non è ancora reato, almeno finora.

    Poi sono andati via sgommando, incuranti di chi cercava di pararglisi di fronte.

    Intervenire? Manco per idea. Lo so, qualcuno dirà che non sono politically correct, ma io me ne frego.

    La ragazza dunque aveva riconosciuto Biber proprio per quella somiglianza, rivedendolo fuori casa e vicino all’università. Tante di quelle volte da farla insospettire.

    Giovanna, però, era anche una persona coi piedi per terra. Aurelio le aveva consigliato di andare alla polizia e lei aveva saggiamente risposto: «E cosa gli dico, che vedo sempre questo tipo? Siamo tutti liberi di circolare per le strade!». In effetti non l’aveva mai molestata né tentato di avvicinarla in

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