Una casa per Daniel
By Ilaria Rucco
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Una casa per Daniel - Ilaria Rucco
DOPO 112
DANIEL
Francia, 1970
In un grande giardino, pieno di piante e fiori, alcuni bambini giocavano a rincorrersi, un gruppetto era seduto a parlare su una panchina e altri due bambini si spingevano a vicenda sull’altalena. Accanto al giardino, delimitato da uno steccato rosso, si trovava l’ingresso di un orfanotrofio di un piccolo paese della Francia, Redon.
Uno dei due sull’altalena era Daniel, un bambino con i capelli ricci neri, dei grandi occhi verdi e un piccolo neo sul nasino. Aveva undici anni e viveva lì da quando ne aveva quattro. Una mattina di sette anni prima, sua madre, si era recata all’istituto e lo aveva lasciato lì, perché non aveva più la possibilità di accudirlo. Era rimasta sola da quando il marito, scoperto che lei aspettava un bambino, era fuggito.
Nicole, questo era il suo nome, aveva cercato contemporaneamente di lavorare e di accudire suo figlio, ma le spese di casa erano sempre troppo alte, così, dopo quattro anni aveva dovuto prendere una difficile decisione. Lasciare il bambino l’aveva devastata, ma in cuor suo sperava che qualcuno lo
adottasse dandogli un futuro migliore di quello che avrebbe potuto offrirgli lei.
In sette anni, però, nessuno aveva mai chiesto di adottarlo. Daniel era un bambino bellissimo, nonostante si leggesse la tristezza nei suoi occhi, cercava sempre di sorridere e di non pensare al fatto di essere stato abbandonato. Era lui, infatti, che portava allegria a tutti gli altri bambini.
Era legatissimo in modo particolare, a una bimba di nome Kiusha, una giapponesina di dieci anni che portava sempre due trecce fermate da elastici colorati. Daniel voleva bene a tutti, ma a lei era talmente affezionato, da considerarla una sorella.
Le loro giornate trascorrevano all’insegna delle lezioni, dei giochi con gli altri ragazzi e, una volta a settimana dagli incontri con lo psicologo. Quest’ultimo aspetto era fondamentale soprattutto per chi faceva fatica a esternare le cause dell’abbandono. Gli incontri erano differenti per ogni bambino, con i più piccoli si cominciava con i disegni, fino ad arrivare con i più grandi, a una chiacchierata amichevole, per facilitare così le cose.
C’erano poi i giorni fortunati, quelli in cui capitava che arrivasse qualche coppia per adottare uno di loro. La cosa che i bambini non sopportavano di quell’orfanotrofio, era il fatto di doversi mettere tutti in fila, come giocattoli in vetrina, così che i potenziali
genitori potessero scegliere il bimbo che volevano. Accadeva raramente che un bambino venisse affidato a una famiglia in base a delle scelte fatte dai responsabili; quando era stato fatto, i bambini erano sempre ritornati indietro. Il risultato tuttavia, era che ogni volta che veniva adottato uno di loro, negli altri si creava un profondo vuoto, non solo per aver perso un amico, ma anche perché molti di loro si sentivano troppo brutti o non abbastanza speciali da meritare una famiglia.
C’era tra di loro chi piangeva, o stava in silenzio per giorni, e chi, come Daniel, reagiva invece in maniera positiva, pensando che la volta successiva sarebbe stato più fortunato.
«Sì, la prossima volta toccherà a me», diceva ogni volta fra sé e sé, e questa speranza gli permetteva di andare avanti più serenamente.
Lui e Kiusha avevano sempre desiderato di essere adottati insieme, ma un giorno quel loro piccolo sogno si frantumò in mille pezzi.
Si trovavano per l’ennesima volta in fila mentre aspettavano che una famiglia scegliesse uno, o più di loro. Daniel e Kiusha si tenevano per mano. Lei quel giorno portava un vestitino rosso e delle scarpette nere con i lacci sciolti. Quando Daniel li notò, si abbassò per allacciarglieli: una cosa che faceva sempre, perché gli piaceva
darle a modo suo delle attenzioni. In quel preciso momento i signori Revel, si avvicinarono alla sua amica.
«Ciao, come ti chiami?» le chiese la signora, conquistata dal viso dolce della bambina e dalle sue lunghe trecce.
«Mi chiamo Kiusha» rispose con un filo di voce, in preda all’emozione, poi strinse più forte la mano del suo amico, che si era alzato e guardava la scena.
Daniel aveva capito che la scelta della coppia sarebbe ricaduta su di lei, quindi la guardò e Kiusha gli sussurrò speranzosa all’orecchio:
«Se sceglieranno me, sarai scelto certamente anche tu».
Invece, lui aveva già capito che non sarebbe stato così, infatti, la coppia aveva deciso di adottare un solo bambino. Kiusha diventò subito triste; aveva sempre desiderato una famiglia, ma la voleva insieme al suo amico.
«Io non andrò, non voglio», ripeté piangendo a Daniel appena rimasero soli in giardino.
«Non dire così Kiusha, finalmente il tuo sogno si è avverato; a me sembrano brave persone, quindi devi essere contenta. Sono convinto che un giorno riusciremo a rincontrarci. Troverò anch'io una famiglia, non preoccuparti, ne sono sicuro» le disse per darle coraggio.
«Dici sul serio?»
«Certamente» le rispose abbracciandola.
C’era una maturità, nelle loro parole, che poteva sembrare strana a chi non viveva la realtà dell’orfanotrofio.
La settimana precedente la partenza di Kiusha, Daniel cercò di non farle capire quanto gli facesse male vederla andar via. Non sapeva se l’avrebbe rivista o se avrebbe più avuto sue notizie.
La mattina in cui la coppia doveva andare a prenderla, Kiusha regalò a Daniel un braccialetto che aveva fatto con tanti nastrini colorati, poi si abbracciarono.
«Non dimenticarti di me Daniel».
«Non potrei mai farlo» la rassicurò lui sorridendo.
Mentre Kiusha salutava gli altri bambini, gli insegnanti e il signor Green, Daniel corse nella sua stanza, e dalla finestra guardò la macchina che portava via la sua amica con la nuova famiglia. La vita di Daniel da quel giorno cambiò.
Passavano le settimane, ma lui continuava a starsene da solo, aveva paura di legarsi di nuovo