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Frammenti di Dublino
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Frammenti di Dublino

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About this ebook

È una sera ventosa come tante nella Dublino degli anni duemila. Una misteriosa dark lady con un vistoso taglio sulla gola sta aspettando l’autobus alla fermata del Trinity College. Quest’immagine è l’inizio di una emozionante serie di avventure in terra d’Irlanda. Tra i personaggi coinvolti vi sono anche un inflessibile insegnante vegano, una bionda rubacuori con una missione da compiere e un astuto impiegato disposto a tutto pur di far carriera. Infine, chi racconta le vicende è un avventuriero con la testa tra le nuvole che ama trasfigurare la realtà attraverso la sua inguaribile passione per lo scrittore James Joyce.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 3, 2017
ISBN9788892669260
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    Frammenti di Dublino - Claudio Cassandra

    Premessa dell'autore

    Sono uno dei due autori di questo romanzo scritto a quattro mani: io l’ho ideato, ho cominciato a scriverlo e poi Flavio, l’altro autore, lo ha stravolto con le sue manie intellettuali e la sua ossessione per James Joice.

    All’inizio volevo solo raccontare delle piccole storie, ritrarre alcuni personaggi con cui avevo vissuto e lavorato. Col tempo, però, mi sono accorto di avere diverse cose in comune con questi colleghi immigrati, anche se io ho dovuto faticare di più per farmi strada nella vita.

    Provengo da una famiglia dublinese piuttosto numerosa. Sono il più giovane di quattro fratelli e due sorelle e, come potete immaginare, tra le nostre mura domestiche ci si stava un po’ stretti. Così a diciott’anni, finita la scuola, mi trovai subito un impiego: recupero credito porta a porta per le strade di Dublino.

    Il caso volle che la prima persona a cui presentai la cartella esattoriale fosse un pazzo furioso che mi puntò addosso un coltello da cucina sbraitando e minacciandomi di morte. Ricordo ancora il terrore che mi prese nel vedere il bagliore metallico della lama avvicinarsi al mio collo, la pelle che iniziava ad aprirsi al semplice contatto di quell’oggetto e io, impietrito, che non riuscivo nemmeno ad alzare le mani o a implorare la grazia. Ero convinto che se avessi detto anche solo una parola, il movimento del pomo di Adamo avrebbe fatto affondare la lama nella carne recidendomi la trachea.

    Potei muovermi solo quando il bruto mi ordinò di sparire e di non farmi più vedere in giro. Allora lascia cadere la cartella e iniziai a correre, mentre sentivo l’urina scendermi giù per le gambe. Non mi sono mai sentito così umiliato in tutta la mia vita! Quel giorno stesso presentai al manager le mie dimissioni e mi misi a cercare un nuovo lavoro.

    Cambiai azienda altre due volte finché fui assunto nella stessa multinazionale di Flavio. Quell’italiano mi piacque subito per i modi gentili e per quella sua aria da intellettuale sempre tra le nuvole. Tuttavia, non riuscivo a capire come un tipo del genere fosse finito in un dipartimento di recupero credito internazionale. Flavio non aveva studiato economia come me. Egli non faceva altro che parlare di poeti e di scrittori. Sì sa, però, che a Dublino tutto è possibile.

    Per pura simpatia presi ad aiutarlo con le pratiche amministrative e lui ricambiò parlandomi dell’Ulisse di James Joice, un'opera che qui in Irlanda non fanno studiare nemmeno a scuola per quanto è difficile. Quando poi iniziai a frequentare Flavio fuori dell’orario di lavoro, notai ancora di più quanta differenza ci fosse tra di noi: io sempre concentrato sulla carriera aziendale,, lui invece perso dietro ai suoi studi e alle sue fantasie letterarie. Da un certo punto di vista, ammiravo tutto questo entusiasmo libresco e, poiché non volevo essere da meno, decisi di iscrivermi all’università. Il mio scopo, però, era solo approfondire la mia materia, business, e fare carriera all'interno dell'azienda.

    Un giorno, proprio nello scrivere una tesina sui flussi migratori verso l'Irlanda, mi misi a riflettere sulla moltitudine di stranieri con cui entravo in contatto quotidianamente. Per documentarmi meglio decisi di chiedere consiglio a Flavio, che amava scrivere articoli sulla vita di Dublino e sapeva tutto sulle usanze della comunità italiana. Come immaginavo, egli accettò volentieri di aiutarmi e mi raccontò le storie dei suoi connazionali venuti qui per immergersi nel colore locale 

    Anche a me piacciono gli ambienti multiculturali. Dublino è l'unica città irlandese nella quale potrei vivere. Come Flavio adoro tutto ciò che non ha frontiere. Però, le somiglianze tra noi due finiscono qui. Ad esempio, lui ama la musica tradizionale irlandese, mentre io la trovo noiosa e fuori moda. Preferisco di gran lunga le canzoni pop e i ritmi ipnotici delle discoteche. Lui va matto per i pub tradizionali, mentre per me sono sporchi, unti e maleodoranti; molto meglio le fiere internazionali, i quartieri finanziari e le sciccose sale degli aeroporti.

    Come vedete io e Flavio non potremmo essere più diversi l'uno dall'altro, ma in comune ci rimane la voglia di leggere e di raccontare il mondo intorno a noi. Per questo parlavamo spesso di libri e scrittori seduti davanti a un calice di vino. Tutto lasciava intendere che la nostra amicizia sarebbe durata ancora per molto tempo, finche io commisi una leggerezza che mandò tutto all’aria. Si trattò di una specie di scherzo goliardico di cui mi vergogno persino a parlare. Lui, però, se la prese così tanto che non volle più rivolgermi la parola per intere settimane.

    Fu allora che mi venne in mente un’idea per farmi perdonare. Iniziai a mettere per iscritto le sue storie. Lo feci perché le trovavo interessanti e di una prospettiva completamente diversa dalla mia. E poi volevo dimostrare al mio amico che non serve una laurea in lettere per scrivere. Ciò che conta è avere passione e talento.

    Lo convinsi a leggere le mie bozze e lui le trovò subito interessanti, soprattutto la storia di una ragazza di cui lui mi aveva parlato con molto entusiasmo. Alla fine decidemmo di collaborare alla stesura di un intero romanzo e, purtroppo, questa decisione fu di nuovo motivo di dispute a non finire. Per esempio, Flavio insisteva a dare al romanzo una patina, se non una struttura, joyciana, come quando gli venne l'idea bizzarra di assegnare a ogni personaggio importante il nome di una divinità o di un eroe greco:

    «E questi nomi cosa significano?» gli chiesi.

    «Niente di particolare», rispose lui con aria di sufficienza. «Voglio solo dire che le nostre storie si ripetono all'infinito dalla notte dei tempi e chiunque altro può riviverle e farle sue.»

    Poi mi fece anche notare che ognuno di noi possiede una peculiarità, un suono dominante nell’accordo della sua personalità che può essere riassunto da un simbolo o da un nome. Perché dunque Flavio ha scelto il nome di Ulisse per caratterizzare sé stesso? Dopo tutto il suo personaggio non domina gli eventi come l’eroe greco, ma li subisce costantemente.

    Sia come sia, quando finalmente giungemmo alla stesura definitiva, egli fu così soddisfatto del risultato ottenuto che volle tradurre l'intero romanzo nella sua lingua. E infatti, la versione che i lettori italiani si accingono a leggere è quella fatta da lui stesso.

    Un’ultima riflessione prima di lasciarvi alla lettura di quest’opera. Credetemi, essa non contiene alcun tipo di esagerazione: anche le scene più violente descrivono solo quello che vi poteva e vi potrebbe ancora capitare passeggiando per le strade della capitale irlandese. Flavio definirebbe la Dublino degli anni 2000 opulenta e animata da culture diverse, ma sempre scossa da rigurgiti barbarici.

    Atena

    Una ragazza vestita di nero chiuse con una spinta il portone della casa dello studente e si avviò alla fermata dell'autobus di Nassau Street. Mentre attraversava il campus del Trinity College guardò in alto per controllare se aveva fatto bene a non portare l'ombrello. Sopra gli antichi edifici raccolti intorno ai cortili di pietra le nuvole si rincorrevano veloci, finché venivano mangiate dai tetti spioventi. No, quella notte non avrebbe piovuto, anche se con un simile vento ci si poteva aspettare di tutto.

    Forse avrebbe dovuto indossare qualcosa di più pesante. Il cappotto non arrivava a coprirle il ginocchio e veniva attraversato dalle folate di vento come se fosse stato un setaccio. Sotto aveva una gonna nera plissettata. Per fortuna poteva ripararsi tirando su un bavero piuttosto abbondante, altrimenti anche la gola sarebbe stata esposta alle intemperie.

    Arrivò alla fermata dell'autobus con una borsa di stoffa a tracolla e una mano che teneva stretto il bavero. Dall'altra parte della strada Molly Malone le dava le spalle mentre invitava i passanti a comprare i suoi frutti di mare. La statua della bella pescivendola le aveva fornito l'ispirazione per il costume che stava indossando. Peccato che non possiedo tutta la materia prima di Molly per riempire meglio la scollatura del corsetto!

    Un ennesimo colpo di vento le attraversò il cappotto mozzandole il fiato. ¡Qué frío!!! Come fanno le dublinesi a camminare da un pub all'altro con le loro scarpine aperte e i vestitini da Primavera del Botticelli? Non portano nemmeno le calze! Ma si, diventino pure blu come Puffette. Tanto lo so che alla fine si ammalano anche loro. Stiano solo attente a non fare la stessa fine di Molly.

    A pochi passi da lei due giovani, uno biondo leggermente stempiato e uno moro, parlottavano lanciandole delle timide occhiate. Erano incuriositi dal suo trucco funereo e dal grosso squarcio sanguinante che spuntava sopra il bavero. Il moro si fece coraggio e le rivolse la parola:

    «Ola Morticia, ¿qué tal?»

    «Sto bene grazie!», rispose secco lei in italiano e si voltò dall'altra parte a guardare le auto che spuntavano dalla curva.

    Il moro aveva parlato in spagnolo, ma non aveva affatto un accento nativo. Mi manca solo di venire rimorchiata da due irlandesi ubriachi alle nove di sera. Già da qui riesco a sentire il loro alito carico di birra. Ma quando arriva questo autobus? Ha già dieci minuti di ritardo!

    La ragazza aveva risposto in italiano, perché non voleva essere infastidita. Secondo lei, essendo pochi i dublinesi in grado di parlare questa lingua, c'erano buone possibilità che il giovane rinunciasse al suo approccio galante lasciandola in pace. Infatti, accadde proprio questo: confusi dalla risposta e scoraggiati dall’imperscrutabilità della dama nera si voltarono entrambi e ripresero a parlottare come se nulla fosse accaduto. Vedo che non aveva così tanta voglia di conoscermi il tipo! Pensò lei quasi con una punta di rammarico.

    Ma quei due si erano davvero sbagliati? Osservando il volto della ragazza era proprio difficile non pensare alla Spagna: ella aveva grandi occhi scuri che scomparivano quando rideva, lunghi capelli neri e un viso candido dai lineamenti un po' spigolosi. Oscar Wilde diceva che solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze. E infatti, la ragazza in piedi alla fermata veniva proprio da Valencia.

    In alcune strane occasioni, poi, si imbatteva in della gente che la scambiava per una irlandese. Lei stessa, all’inizio, non sapeva spiegarsi il motivo, visto che anche quando parlava utilizzava un perfetto inglese della regina. La risposta gliel'aveva data un ricercatore conosciuto a una festa Erasmus in cui si era imbucata. Costui era una persona un po’ goffa che cercava di rendersi più interessante sfoggiando la sua erudizione. Le aveva spiegato che in Irlanda non era raro incontrare ragazze locali con tratti mediterranei come i suoi. I geni sembra che discendano niente di meno che dai marinai della Invincibile Armada naufragati al tempo della regina Elisabetta:

    «...si sa che ogni nemico di Sua Maestà la Regina era, già da allora, un amico degli irlandesi, nello specifico delle donne irlandesi...»

    E già, anche il tipo che le aveva tenuto l'estemporanea lezione di storia era irlandese. Come potersi sbagliare, aveva un accento di Cork davvero imbarazzante! Una cantilena continua:

    «...Le donne del posto accolsero i naufraghi spagnoli e si innamorarono di loro. Fu così che il passaggio della loro razza lasciò una traccia indelebile nella popolazione locale. The Armada wanted to subdue the bloody Englishmen and eventually managed to conquer the heart of the Irishmen...¹"

    Riuscirono a conquistare il cuore degli Irish... men, irlandesi? Ma non stava parlando di DONNE irlandesi? Anche il lapsus freudiano gli ci voleva! Fortuna che quella volta arrivò Manzini a salvarmi con una delle sue battute oscene. Altrimenti il prof, tempo quindici minuti, mi avrebbe subito chiesto il numero di telefono e chissà cos'altro... Ah ecco l'autobus finalmente!

    Il viaggio verso Mount Merrion durò solo dieci minuti, perché con la strada sgombra l'autista lanciava il suo autobus come se si trovasse al volante di un'auto da corsa. A bordo i pochi passeggeri si scambiavano degli sguardi di disapprovazione ogni volta che le brusche frenate li costringevano a tenersi saldi allo schienale dei sedili di fronte a loro.

    Non era la prima volta che la ragazza cercava di raggiungere la casa di Manzini e Alison, ma fino a quel momento aveva sempre viaggiato di giorno. L'oscurità mandava in tilt il suo senso dell'orientamento. Guardava ansiosamente fuori dai finestrini del double-decker per trovare dei punti di riferimento, ma il buio e il riflesso della luce interna sui vetri non le permettevano di capire dove si trovasse. Così, decise di chiedere aiuto al conducente e gli fece vedere la mappa che aveva scaricato da Internet:

    «Mount Merrion Avenue Stop? Don't worry, I'll give you a shout.»

    Il giovane africano si dimostrò molto disponibile e le disse di non preoccuparsi perché le avrebbe annunciato la fermata. A dispetto della pelle nera sembrava conoscere le strade di Dublino come il palmo della sua mano. La sua disinvoltura rassicurò la giovane passeggera che si accomodò sul primo sedile disponibile.

    Mentre si lasciava dondolare dagli scossoni dell’autobus le tornarono in mente alcuni versi di una poesia che stava leggendo prima di uscire di casa. Il suo professore le aveva chiesto di consegnargli al più presto una tesina sul poeta Patrick Kavanah. Avrebbe dovuto ultimarla in un paio di giorni e per rispettare questa scadenza aveva trascorso tutta la mattinata ed il pomeriggio a leggere biografie, critiche e opere del suddetto autore. A un certo punto si era imbattuta in un componimento intitolato Chi ha ucciso James Joyce?

    Chi ha ucciso James Joyce?

    Io, disse il commentatore

    Io ho ucciso James Joyce

    Per la mia laurea

    Più ripeteva a sé stessa questi versi e più si sentiva nauseata e presa in giro. Le ultime strofe, poi, avevano l’effetto di privarla di ogni energia, di ogni entusiasmo libresco:

    Hai ricevuto denaro

    Per la tua conoscenza Joyciana?

    Ho ottenuto una borsa di studio

    Al Trinity College

    Io ho fatto il pellegrinaggio

    nell'afoso giorno di Bloom

    dalla torre Martello

    fino al riparo del vetturino

    Un’intera giornata era stata rovinata da questa maledetta ricerca. Adesso si sentiva svuotata ed esausta, e dubitava persino di riuscire a portare a compimento il compito assegnatole. Da un po' di tempo rifletteva sulle preoccupazioni che le rendevano sempre più difficile concentrarsi sugli studi del suo dottorato di ricerca. Doveva assolutamente dare una svolta alla sua vita. Non poteva più dipendere dagli altri.

    «Mount Merrion!» sentì gridare mentre l'autobus si fermava al bordo della statale N11. La ragazza, passando davanti l'abitacolo, rispose distrattamente «Thanks!» ma prima ancora di poggiare il piede sull'asfalto il conducente la pregò di aspettare un attimo. Si fece consegnare la mappa e le indicò la strada che doveva percorrere per raggiungere sana e salva la sua destinazione, una casa nascosta tra una miriade di viuzze che di sicuro le avrebbero fatto perdere il senso dell'orientamento.

    Scese dall'autobus ringraziando di nuovo il conducente. Attraversò la carreggiata e cominciò a guardarsi intorno. Si trovava nella parte sud di Dublino, la più opulenta, la più esposta agli scassinatori:

    «¡Qué lujo de vista!» pensò mentre il suono dei suoi tacchi risuonava sull’umido marciapiede di fronte alle villette a schiera. Sembravano tutte uguali di notte, con i loro giardini curati e i graziosi portoncini colorati che si affacciavano in fondo ai vialetti. La casa dei suoi amici però aveva un elemento inconfondibile: una gigantesca pianta grassa che svettava come un albero al di là della staccionata. Di sicuro non potevano esistere altri cactus di una simile grandezza in tutta l'Irlanda. Quel colosso sembrava essere stato trapiantato da una villa di Beverly Hills. Catturava l'attenzione di tutti i passanti per la sua imponenza e muoveva la fantasia della ragazza:

    «Vieni bellezza, vieni, la festa di Halloween è qui!» immaginava che le dicesse la pianta con le sue enormi pale spalancate. «Guardami bene! Non sono un cactus, non lasciarti ingannare. Sono in realtà una quercia, di quelle che si trovano in fondo agli arcobaleni. Mettiti pure a scavare vicino alle mie radici: troverai una pentola ricolma di oro zecchino. Tuffa le tue candide mani tra le monete scintillanti: quando le farai riemergere per ascoltare il tintinnio, alza lo sguardo e al posto della quercia troverai me, il mostruoso lepricano pronto a stringerti forte tra le mie braccia spinose.»

    La sua mente si scosse da queste grottesche fantasie non appena il portoncino si aprì e comparve un'... ape, o meglio una ragazza con i capelli rossi, un vestito a strisce nere e gialle, le ali e le antenne:

    «Hi Brenda!»

    «Hello Alicia! My darling!» rispose sorridendo la padrona di casa, prima di baciare entrambe le guance incipriate della sua ospite. Dietro di lei comparve un bel ragazzo con i capelli biondi e la faccia sorniona, che andava in giro sfoggiando un vestito da apicoltore. Aveva delle piccole api disegnate su una tuta bianca e un cartello che gli pendeva dal collo con la scritta I want you honey!, ossia Ti voglio dolcezza!

    Nessuno ricordava mai il suo vero nome poiché tutti lo chiamavano sempre e solo Manzini, una storpiatura del suo cognome risalente ai tempi del liceo. Brenda e Manzini condividevano una parte dell'edificio insieme ad altri studenti. Insieme avevano organizzato una festa di Halloween in grande stile per dare un po' di allegria a uno dei periodi più tristi dell'anno.

    L'ape e l'apicoltore si erano conosciuti a un corso di italiano all'università e, come i protagonisti delle favole, avevano subito provato una travolgente attrazione reciproca. Alicia ricordava che all'inizio era sorto qualche imbarazzo per il fatto che Manzini fosse l'insegnante e Brenda l'allieva. C'è sempre qualcuno che storce il naso quando sorge un nuovo amore. Loro però sembravano fatti davvero l'uno per l'altra, un'autentica simbiosi spirituale e culturale: lui le insegnava l'italiano e lei migliorava l'inglese del suo lettore, con l'aggiunta di qualche parola irlandese che non guasta mai.

    A proposito, qual era il vero nome di Manzini? Alicia ce lo aveva proprio sulla punta della lingua. Ricordava che tanti ragazzi in Italia si chiamavano come lui... tipo Mario... Simone... Alessandro... Comunque, non aveva molta importanza perché dire Manzini nell'ambiente dell'University College Dublin ormai era come dire Oscar Wilde nella Oxford vittoriana. Il suo nome era diventato sinonimo di fascino e trasgressione. Manzini rappresentava il dandy per eccellenza e i comportamenti stravaganti, che lui si poteva permettere, per gli altri erano del tutto off limits.

    Tuttavia, se Alicia avesse dovuto rappresentare la vita dell’amico tramite un’opera d’arte, ne avrebbe scelta una di stile modernista. Anzi, diciamo proprio astratta. Una di quelle composizioni caotiche nel mezzo delle quali si può intuire la presenza di un elemento sconcio, che però rientra di diritto nelle prerogative dell'artista.

    Ebbene, Manzini di prerogative ne aveva tante, compresa la galanteria. Una volta in un pub aveva regalato ad Alicia un intero mazzo di rose solo per convincerla a ballare con lui. L'ambulante indiano che gliele aveva vendute non riusciva a credere di avere tra le mani una banconota da 50 euro e non la finiva più di ringraziare il suo giovane cliente. Alicia si sentì a dir poco lusingata da tanta cavalleria e fu quasi sul punto di cedere alle avance di Manzini. Pochi giorni dopo però dovette ricredersi, essendo trapelata la notizia che il suo corteggiatore si era messo con Brenda.

    Manzini era un piacione incorreggibile che lasciava sempre un segno dietro di sé. Ormai, quando Alicia incontrava una studentessa dell'U.C.D. e le nominava il suo amico italiano, si aspettava di provocare, nel bene o nel male,

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