Il racconto del faro
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Alberigo Albano Tuccillo
Alberigo Albano Tuccillo was born in Italy in 1955. As a child he moved to Basel, Switzerland. After graduating in philosophy from the University of Basel he has been writing novels, short stories, poetry, librettos for contemporary music and plays in both German and Italian. He teaches German, Italian and Creative Writing. He is also a freelance translator. Find more: https://tuccillo.ch
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Il racconto del faro - Alberigo Albano Tuccillo
Il racconto del faro
Il racconto del faro
Colophon
Il racconto del faro
Da tanto tempo ormai rinchiudo in me il desiderio di non negar più a lungo né ai miei cari né agli amici più lontani, questa storia che, nonostante i molti anni già trascorsi, attende inalterata nella mia memoria, quasi fosse accaduta ieri. Ma una parola d'onore, data in fretta e senza la debita riflessione — parola il cui senso a stento si comprenderà, adesso che siedo alla mia scrivania, deciso a liberarmi l'anima scrivendo — mi ha costretto a tacere fino ad oggi. Infatti il mio caro amico e già professore, il dottor Jakob Horwath, alla cui eloquente arte di narrare devo la conoscenza degli strani avvenimenti sull'isola di San Giorgio, che qui riferisco, terminato il suo esimio racconto, volle la mia promessa che né dalla mia bocca né dalla mia penna non sarebbe uscita una parola su questa storia fintanto che egli fosse in vita. Ed io ho mantenuto la parola.
Se dunque ora, attraverso queste righe, m'accingo a soddisfare un mio vecchio desiderio e a concedermi il bramato sollievo, tutto avviene ormai senza entusiasmo, poiché stamattina mi ha raggiunto l'amara notizia che il dottor Jakob Horwath non è più fra i vivi. Ed ancor più mi colmo di tristezza perché dalla lettera che ho ricevuto da Dorothea, sorella minore del dottor Horwath, non apprendo soltanto la notizia della scomparsa per me così inattesa, ma anche del raccapricciante stato in cui il sofferente ha dovuto attendere la sua liberazione.
Per quanto tempo l'immortale nel suo petto avrà implorato di potersi spogliare del mortale! Quanto a lungo la sua mente offuscata avrà invocato la morte! Mille destini amari avrebbe preferito al suo, se un anno prima del suo decesso non lo avesse abbandonato la ragione, quel che riteniamo il buon senso, per cui rimase incapace di paragonare le sue sofferenze alla felicità degli altri. Non era più stato possibile a nessuno in questo anno di scoramento, né a parenti né ad amici, ricavare un senso da una sola parola pronunciata dalle labbra del disgraziato. E mai più quel che entrava dal suo orecchio aveva raggiunto inalterato la sua anima, racconta ancora Dorothea. Non il suo orecchio, bensì il suo cervello era diventato sordo! O peggio ancora: gli faceva udire suoni inesistenti, parole che nessuno aveva pronunciato, mentre invece il mondo reale per lui rimaneva muto. L'avvilimento e la prostrazione avevano segnato il suo volto. Lacrime amare avevano arrossato, infiammato, in fine quasi accecato i suoi occhi.
A prescindere dallo stranissimo fatto che Jakob Horwath dall'avvento della pazzia aveva parlato soltanto in italiano, nella più affliggente disperazione avrebbe continuato ad esclamare frasi strambe: «No! Non tornerò sul faro! Non c'è nessuno che mi capisca! Non posso tornar sul faro! Lasciatemi! Il faro no, in nome di Dio, non sul faro!»
Chi potrebbe non capire che l'arte medica non sapeva da dove cominciare, se neanche un singola parola dalla bocca del malato svelava l'origine della sua malattia? Chi potrebbe meravigliarsi dell'incapacità dei medici di portare aiuto, se nessuna parola guaritrice riusciva a penetrare nel suo animo?
Così il mio caro amico, lui che aveva amato la compagnia e l'amicizia più d'ogni altra cosa a questo mondo, solo era rimasto e solo era morto, sebbene fosse circondato unicamente dai suoi amici più fedeli.
Se solo l'avessi saputo prima! Ahimè, se Dorothea mi avesse informato subito delle sofferenze del Dottore, non appena la terribile malattia aveva cominciato a debilitare la sua vittima! Forse sarebbe stata la salvezza del macilento paziente. Quel uomo che destava compassione avrebbe potuto sperare ancora, poiché io solo conoscevo il significato di quel suo faro. Soltanto io possedevo la chiave, la soluzione che medici e amici avevano cercato invano. La sua storia, la mia promessa!
Ma ormai per loro, e per Jakob Horwath, questa spiegazione giunge troppo tardi.
Nonostante si udissero molte maldicenze, che avevano fatto del Dottore una persona guardata con sospetto, raramente benvoluta e quasi mai amata, io non esiterò a chiamarlo un grand'uomo. Molti lo temevano ed evitavano di averci a che fare. Lo si accusava di invidia, di vanità, lo si diceva astioso, infido, arrogante, losco e presuntuoso, uno sputasentenze, un moralizzatore pedante. Ma tranne forse per quest'ultimo, nessuno di quegli appellativi conteneva un filo di verità. Io amavo la sua presenza e apprezzavo la sua critica. Mentirei se asserissi di non aver mai sentito il desiderio, disputandomi con lui, di mandarlo a quel paese. Ma quale amicizia può dirsi immune contro simili sporadici impulsi? In verità non offrì mai seri motivi di lite, o anche semplicemente di delusione, né a me né ad altri.
Eppure — questo va detto — trattare con lui era tutt'altro che semplice. Condannava inesorabilmente gli sbagli dei suoi prossimi, senza clemenza si faceva giudice severissimo quando si vedeva di fronte alle consuete e spesso così innocue debolezze umane. E nel suo giudizio era tanto più deciso, quanto più egli amava chi lo subiva. Però chi vuol farsi un'immagine di lui, commetterebbe il più grave degli errori se credesse che verso se stesso fosse stato un giudice più clemente. Al contrario! In tutti gli anni in cui, anche dopo le lezioni, spesso nel cortile della scuola o a casa sua, mi fu consentito di seguire i suoi affascinati discorsi, di assaporare le sue sottili e acute osservazioni e riflessioni, di farmi condurre e sedurre dalla sua arte e facilità di parola, in tutti quegli anni, dicevo, davanti a lui nessuno mai ha affrontato esame più difficile che non egli stesso. «Soltanto chi non desiste mai dall'aspirare ai massimi valori otterrà forse qualcosa di appena mediocre!» soleva rimproverare chi riteneva che la debolezza umana fosse spiegazione e scusa sufficiente per ogni fallimento.
Horwath era un erudito, il suo interesse andava ben oltre la sua materia e si riversava su tutto ciò che al mondo è degno d'esser conosciuto. Uno scienziato, un filosofo, un artista. Un maestro del disegno, capace di fissare con pochi tratti sulla carta anche i volti più insulsi e insignificanti, spesso non ricorrendo che alla sua memoria. Un pianista che improvvisando liberamente suonava brani degni di incisione, andando a spasso per le tonalità con la stessa disinvoltura con cui la domenica soleva passeggiare nel suo giardino. Inoltre va ricordata la sua abilità didattica, la sua facoltà d'immedesimazione — doti forse più uniche che rare per uomini del suo stampo — per cui riusciva a trasmettere una parte considerevole delle sue capacità, delle sue conoscenze e dei suoi talenti, anche ai meno dotati fra di noi, al punto che, nel segreto del cuore, gli eran grati perfino coloro che peggio ne andavano dicendo.
Ma ciò che ai miei occhi rendeva veramente grande il dottor Jakob Horwath, era la sua conoscenza degli uomini, il suo umanitarismo. Mai ho incontrato uomo più abile di lui nel capire la gente, nello scrutare il profondo dell'animo, in cui vedeva buone e cattive intenzioni, odio e amore, sincerità e menzogna, con la stessa chiarezza con cui si vedono pesci colorati nell'acqua limpida. Ma sarebbe uno scellerato chi volesse sostenere che Horwath da questa sua facoltà ne abbia tratto vantaggio anche un'unica volta! Mai! Se scopriva timori, preoccupazioni, dubbi che turbavano un animo, non indugiava ad assistere col migliore dei consigli, offriva, se questo era nelle sue facoltà, anche aiuto materiale, riuscendo spesso a dipingere un sorriso nei volti che avevano perso ogni speranza. Se invece scorgeva delle ostilità o addirittura cattive intenzioni verso di lui, prima cercava di dissuadere discutendo, cosa che gli riusciva assai meno spesso, ma poi finiva per non avvedersene più, diventando ripetutamente vittima di malvagi sfruttatori della sua bontà.
Gli ho voluto molto bene, anzi, l'ho venerato, e mi si saprà perdonare se questa mia descrizione ha seguito più la voce del cuore che quella del lucido biografo. Se dunque credo di non dover aggiungere altro per spiegare quale fosse stata la nostra amicizia, della cui reciprocità non si deve dubitare, si capirà anche quale immenso piacere provai quando inaspettatamente e dopo tanto tempo incontrai il carissimo dottore a San Giorgio, proprio mentre cominciavo a non sopportare più il tedio dell'isolamento e della solitudine, bramando di poter riflettere su problemi che per una volta non fossero i miei.
In un periodo in cui le mie preoccupazioni e i problemi minacciavano di ingigantirsi fino a costituire un carico insopportabile, improvvisamente mi era venuta l'idea di impiegare i miei pochi risparmi per andare a San Giorgio, dove mi sarei goduto una lunga vacanza. Avevo deciso di restare sull'isola per un paio di mesi e il presentimento che avrei ripreso l'università con un mese o più di ritardo era ormai diventato una certezza. Le firme di frequenza le avrei ottenute comunque anche se nelle aule non ci fossi tornato che nella quarta o quinta settimana del semestre, e prima o poi le lezioni arretrate le avrei in qualche maniera recuperate. Ma anche se avessi dovuto paventare di rimanere irrimediabilmente indietro non avrei deciso altrimenti. Non potevo agire diversamente poiché ero troppo vincolato da me stesso, dalle mie ansie e da quei grattacapi forse dovuti alla mia immaturità, per tener conto di quello che il piano di studi e il calendario delle lezioni mi avrebbero promesso. Avevo bisogno di tranquillità e di riposo, e dunque mi ero prefisso di segregarmi lì a San Giorgio, lontano da ogni distrazione e di venire finalmente a capo dei miei problemi.
Da quell'isolamento mi ero aspettato molto, evidentemente troppo. Tuttavia quei giorni, sebbene avessero inciso indimenticabili impressioni nella mia memoria — e sarebbero bastati quei ricordi a giustificare il mio viaggio — essi non mi diedero le risposte che avevo sperato di trovare lì sull'isola. Al contrario: benché mai prima d'allora avessi riflettuto con più impegno e metodo, le domande e le incertezze si moltiplicavano quanto più cercavo risposte e certezze. Arrivai al punto di non saper più discernere né il bello dal brutto, né il vero dal falso, né il giusto dall'iniquo. Quesito per quesito, dubbio per dubbio non ero riuscito ad ottener altro che la distruzione tutto ciò che fin lì era stato base e sostegno del mio pensiero. I timori, il malessere cominciavano a crescere in me e solo raramente mi rallegravo al pensiero che se tutto fosse proceduto per quel verso il mio scetticismo, logicamente, si sarebbe dovuto rivolgere anche contro se stesso, riportandomi quindi le certezze abbandonate. Se avessi continuato a dubitare di tutto con ferrea costanza, forse sarei arrivato al punto di dubitare anche del dubbio stesso, per cui mi sarebbe stato più facile abbandonarmi alla fede, forse troppo vieta e comoda, ma ormai per nulla più incerta e problematica dello scetticismo.
Chi mette in dubbio ogni cosa, prima o poi dovrà chiedersi anche che senso possa avere questo dubitare di tutto — forse nessuno?
Ma questo raziocinare era ormai diventato un semplice gioco che non serviva ad altro che a fingere un progresso. Allo stesso momento però esso tesseva una fitta ragnatela sotto cui tacevano e si nascondevano questioni ben più serie. Né la professione, né le amicizie, né altre cose utili e direttamente legate alla vita erano oggetto di quello speculare ormai fine a se stesso. Mi era rimasto quel po' di buon senso che mi faceva capire l'assurdità di tale scervellarsi, cosicché cominciai ad accarezzare l'idea di partire l'indomani. Volevo ancora passare un ultimo pomeriggio a San Giorgio.
A circa quattro chilometri dall'isola, a nord-ovest, là dove si incontrano le correnti calde e fredde, là dove le onde da ogni direzione urtano violentemente l'una contro l'altra, spumeggiando anche quando altrove il mare