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La casa di sassi
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La casa di sassi

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La casa di sassi, vera protagonista di questo lungo racconto, è un luogo reale, una vecchia casa dell'Appennino Tosco Emiliano che ospita e accoglie ben quattro generazioni di una stessa, allargata famiglia e dove si svolgono, si intrecciano e si dipanano le storie e i destini di tanti diversi personaggi.

A Camilla era stata offerta l'opportunità di acquistare una parte della vecchia casa di sassi, un antico casale immerso in una valle dell'Appennino Tosco Emiliano.

Prospiciente alla casa, in un locale ricavato dal fienile, c'era la "camera nuova" la stanza nella quale lei era nata e dove aveva trascorso lunghi periodi di vacanza durante la sua infanzia e la sua adolescenza con sua sorella Isabella e con nonna Fe'.

Dopo diversi ripensamenti, insieme a suo marito Alex, aveva deciso di non lasciarsi scappare quell'occasione, se non altro per motivi affettivi.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 21, 2017
ISBN9788892679733
La casa di sassi

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    La casa di sassi - Gabriella Marchi

    ritorno.

    LA CASA DI SASSI

    I fari abbaglianti illuminavano l’ultimo tratto di strada sterrata dopo la svolta a destra della strada comunale. Era buio pesto nella stagione avanzata, ai bordi del viale il vento agitava le foglie degli alberi secolari formando ombre più scure. Camilla e Alex con la figlia Sara che si era addormentata sul sedile posteriore vicino al gatto Charly, chiuso nella sua gabbietta dove finalmente aveva smesso di miagolare, andavano a trascorrere il fine settimana nella casa di campagna immersa in una valle dell’Appennino Tosco-Emiliano. La frazione, dal nome strano del piccolo Comune di cui la casa faceva parte, non figurava nemmeno su tutte le carte geografiche. Era un’oasi lontana dalla città, senza rumori di clacson, di sirene, moto, motorini e automobili, senza lo smog che oscura il cielo. Lì regnavano la pace e il silenzio, interrotti solo dal cinguettare di qualche uccello o dal verso di qualche animale. Giunti in prossimità dello spiazzo davanti al fienile scesero dalla macchina per dirigersi verso la vecchia casa percorrendo la strada ghiaiosa dove Camilla, con il suo inseparabile bauletto contenente le creme e l’occorrente per il trucco, stentava sugli altrettanto inseparabili tacchi alti, Sara ancora un po’ assonnata, portava la gabbietta con il suo gatto, guardandosi intorno. Proseguendo ancora pochi metri si girava l’angolo della stalla, dove si ergeva una pianta d’alloro che era cresciuta oltre all’altezza del tetto, mentre Alex le precedeva con le borse e una torcia per illuminare la strada verso la porta di casa.

    Il muro della facciata era scrostato e fatiscente e, la porta di legno vecchia e verniciata di verde tempo addietro - perché si diceva che il verde tenesse lontano le vipere - lasciava filtrare l’aria che faceva volare le foglie secche sul pavimento di mattonelle di cotto, consumato e pieno di buchi.

    Dovevano trovarsi all’appuntamento il giorno seguente per la firma del contratto d’acquisto di quella casa che, dopo tanti ripensamenti e pareri contrari o favorevoli, valutando l’offerta conveniente da parte del vecchio proprietario - un lontano parente di Camilla, figlio del fratello di suo nonno, da tempo residente in Francia - che l’aveva ereditata alla morte del padre. Non potendo più usufruirne, nemmeno per qualche breve periodo quando voleva tornare per ritrovare le sue radici e i suoi vecchi compagni, ora che la salute era divenuta troppo cagionevole e anche la distanza ormai rappresentava un viaggio troppo lungo da affrontare da solo, aveva deciso di venderla in quanto anche la sua seconda moglie gli aveva espresso chiaramente di non desiderare più tornarvi. Anche per lei quel viaggio era diventato troppo lungo e non se la sentiva più di doversi adattare in quella casa senza le sue comodità. La scaletta per giungere alla camera era troppo ripida per le sue gambe, il letto era diventato scomodo, mancava ogni mezzo pratico per le attività domestiche, il che richiedeva un maggior sforzo ed elasticità che non sentiva più di avere. Per quelle ragioni lui si era rassegnato a venderla dando loro la priorità perché, da anni, vi avevano soggiornato per i loro periodi di vacanza i genitori di Camilla, Ester e Dino.

    Alex e Camilla, ormai convinti, avevano deciso di non lasciarsi scappare l’occasione.

    In casa faceva freddo perché nelle mura si aprivano grosse crepe dalle quali entrava l’aria. Dalle fessure che solcavano le pareti uscivano correndo animaletti che, per la loro forma e velocità, la gente del posto chiamava millepiedi e altri ragnetti neri. Dai soffitti scrostati pendevano brandelli di intonaco ingiallito e gli angoli erano velati da grosse ragnatele, ai bordi del pavimento mancavano addirittura alcune mattonelle e si potevano intravvedere solchi di terra nuda.

    Mentre Camilla cercava di dare una ripulita, Alex aveva acceso la vecchia stufa a legna, anche se il calore rimaneva circoscritto nell’area vicina. Sara aveva liberato il gatto dal suo trasportino. Charly - Mao si era guardato intorno incuriosito e aveva corso per la casa infilandosi in tutti gli angoli dai quali usciva col pelo imbiancato dalle ragnatele finché, una volta presa confidenza con il nuovo territorio, era andato a raggomitolarsi su un morbido cuscino vicino al calore.

    Charly era il nome ufficiale del gatto ma poi lo si chiamava Mao o semplicemente Gatto. Era stato il regalo tanto agognato da Sara per la promozione del secondo anno al liceo scientifico in seguito divenuto per lei, figlia unica, un amico, un fratello con cui giocare e da coccolare quando tornava a casa da scuola e Charly Gatto l’accoglieva sempre sulla porta strofinandole le gambe e facendole le fusa.

    L’unico locale decente di quella casa era il bagno che, per necessità, era stato fatto costruire abbastanza di recente riducendo il soggiorno per evitare, in caso di bisogno, di dover uscire da casa per andare nella stalla o la notte soprattutto non dover usare i vasi quando, in alcune occasioni, si andava in campagna per trascorrervi qualche giorno di vacanza, come ad esempio a Pasqua o in estate.

    Le camere da letto erano al piano superiore al quale si saliva da una scala ripida ricoperta da una moquette grigia e polverosa, la stessa che si trovava sui pavimenti di assi un po’ sconnesse delle camere. Era stata posata qualche anno prima da Isabella, la sorella di Camilla e da Francesco suo futuro marito, quando per trascorrere un po’ di tempo insieme da soli, avevano scelto la casa di sassi. Francesco era pratico in restaurazioni così aveva piastrellato la cucina, insieme poi avevano collaborato per rimediare alle scrostature del legno consumato dal tempo delle travi, degli infissi, delle finestre, e degli armadi a muro, ricoprendo il tutto con una vernice molto spessa. Per ravvivare la casa, avevano usato diversi colori: rosso per le finestre, marrone e verde per gli armadi e per le travi del soffitto, senza però rendersi conto che era un vero e proprio scempio ricoprire quel legno antico.

    Nel soffitto della camera più grande c’era una botola che dava accesso al solaio rimasto inutilizzato da anni e ormai abitato soltanto dai topi che a volte la notte si sentivano correre e rosicchiare.

    I mobili erano quelli riciclati dalle case di città fatta eccezione per un vecchio comò e uno specchio antico. Alle pareti erano appesi grandi poster e quadri senza cornice, alcuni dipinti da Isabella, che servivano per coprire qualche buco o qualche grossa crepa.

    Le camere al piano superiore erano ancora così fredde che a ogni respiro o sussurro, dal naso e dalla bocca uscivano nuvolette di vapore. Negli anni passati, in quelle campagne per riscaldare il letto si usava il prete. Consisteva in un attrezzo di forma ovale costruito con assicelle di legno, chiuse sul fondo e nella parte superiore da due piastre di ferro. Al suo interno vi si appoggiava una pentola con il manico lungo nella quale si mettevano delle braci ardenti ricoperte da cenere. In mancanza del prete ormai disperso nei tempi, Alex aveva fatto scaldare sulla stufa due mattoni e, quando erano diventati belli caldi, li aveva ricoperti con stracci e inseriti tra le lenzuola per riscaldarle almeno un po’. Questo espediente era servito a intiepidire il letto ma di contro anche a inumidirlo. Alla fine però il silenzio e la stanchezza avevano avuto il sopravvento sulle scomodità.

    Il giorno seguente aprendo la porta Camilla, Alex e Sara furono accolti da una limpida giornata di sole, l’aria era tiepida e i colori autunnali erano uno spettacolo di tonalità di giallo e rossastro. Davanti alla casa, dietro la pianta di un grosso fico c’era un vecchio muretto oltre il quale, fino al limite di un fossato, si allungava un prato con piante di mele, susine e ciliegi. Tutt’ intorno si udiva solo il cinguettare degli uccellini.

    Quella casa che stavano per acquistare era parte di un casolare di sassi dove avevano vissuto quattro famiglie, compresa quella di nonna Fè, la nonna materna di Camilla e Isabella. Due entrate si trovavano sul lato frontale, quello che dava sulla strada sterrata, altre due invece si aprivano sul retro in un cortile aperto che proseguiva fino a un terreno erboso un tempo lavorato a vigneto.

    Sempre di pietra, di fianco al casolare, c’era ancora la grande stalla, con il soffitto di mattoni rossi e l’interno suddiviso in campate sorrette da vecchie colonne di legno ormai consumato. Alle pareti di sassi si appoggiavano le mangiatoie delle mucche. Il pavimento era ricoperto da grosse pietre, ma alcune mancavano da quando era andata in disuso così come mancavano al pavimento della cantina antistante. Qui, dalla terra umida, emergevano disparati e stravaganti oggetti come un paio di vecchie scarpe, qualche collo di bottiglia, il manico di una scopa rotta. In un angolo era appoggiato un grosso giogo, nell’altro, un pezzo di legno che era appartenuto a un aratro. Un piccolo finestrino senza vetri lasciava filtrare solo un tenue fascio di luce e nel contempo permetteva libero accesso ai pipistrelli. Anche nella stalla tutto ormai era ricoperto da grosse ragnatele e la cantina abbandonata aveva l’aspetto inquietante di un tetro tugurio. Il piano superiore era formato da un grande fienile che era servito un tempo per contenere il fieno e i sacchi di grano e poi era diventato il deposito di vari attrezzi. L’alto soffitto era ricoperto da tegole bucate, tutte le pareti esterne e interne erano di sassi molto spessi. Due ampie finestre ad arco e senza vetri lasciavano entrare, portate dal vento, le foglie secche delle grandi querce che andavano a posarsi e ad ammucchiarsi sul pavimento con gli escrementi degli uccelli che avevano costruito i loro nidi al riparo sotto il tetto. L’entrata del fienile era stata chiusa da una provvisoria rete di ferro che fungeva da cancellata. Subito fuori si estendeva il porticato e l’aia antistante che arrivava sino al bordo della strada. La prima abitazione del casale era quella di nonna Fè, e anche quella aveva annessa la sua stalla con la cantina. Al piano superiore una parte di questo secondo fienile era stata trasformata anni addietro in una stanza detta la camera nuova perché improvvisata in occasione del matrimonio di Ester con Dino.

    Camilla aveva deciso di comprare quella casa di sassi perché era attigua a quella di nonna Fè che per lei e sua sorella Isabella era stata come una madre. Con lei, infatti, avevano trascorso i giorni più spensierati della loro infanzia e adolescenza. Ora la nonna giaceva nel piccolo cimitero vicino alla chiesa del paese e dopo la divisione della proprietà tra gli eredi seguita alla sua morte, la casa di nonna Fè era stata destinata a zia Emma .

    Erano emozionati, anche Alex era rimasto affascinato da quel luogo e quel giorno finalmente avrebbero firmato davanti al notaio divenendo i proprietari di quella casa, del fienile e della stalla, la stessa stalla dove da piccole Camilla e Isabella andavano con la nonna quando le famiglie dei contadini si radunavano la sera a spannocchiare.

    In perfetto orario si erano diretti in paese, dove li attendeva il notaio, dopo aver lasciato il gatto Mao in casa con la sua ciotola piena. Dovevano trovarsi all’appuntamento insieme con il parente francese e i vicini per definire i confini, con il loro compromesso per le firme del contratto e il libretto degli assegni da versare.

    Camilla era ancora quasi incredula e infinitamente orgogliosa per quell’acquisto ricordando quanto sua madre e suo padre l’avrebbero approvato. Ora lei andava a compiere quel passo e non le importava che la casa non fosse di grande valore economico o non rappresentasse un’importante investimento. La sua soddisfazione consisteva soprattutto nel fatto che in quella casa sarebbe rimasto sempre impresso il ricordo dei suoi genitori. La segretaria li aveva annunciati e dopo breve tempo li aveva fatti accomodare nello studio.

    In quegli ultimi anni era già la terza volta che le capitava di doversi rivolgere a un notaio. Ricordando una precedente esperienza Camilla era ormai quasi curiosa di conoscerne un altro, e non tanto per il suo aspetto fisico, quanto per sentire come avrebbe esposto il contratto. Camilla e Isabella erano, infatti, già state convocate per il rogito di un piccolo appezzamento di terreno e della metà di un bosco - la loro parte di eredità in quel luogo. Quella volta il notaio era stato un signore di mezza età con una testa grossa, liscia e lucida e con una leggera protuberanza nel mezzo. L’uomo aveva letto una decina di pagine tutte di fila con il tipico accento emiliano, citando norme e leggi catastali, nomi di defunti di viventi e di eredi diretti e indiretti con date di nascita che non corrispondevano. Anche i loro nomi erano stati sbagliati: Camilla e Isabella, perplesse e divertite da quella lettura che sembrava una farsa, avevano dovuto coprirsi la bocca per non scoppiare a ridere. Terminata la procedura e firmato i documenti si erano ritrovate proprietarie di un pezzetto di terreno e di un mezzo bosco che, insieme, non valevano quanto il costo del rogito e della parcella del notaio.

    Questo notaio, pensava ora Camilla, era almeno un signore di bell’aspetto: abbronzato e con affascinanti occhi verdi. Li aveva fatti accomodare intorno al lungo tavolo di noce sul quale, oltre ai documenti, c’era un portaritratti d’argento con la fotografia della sua famiglia. La lettura era stata seria e precisa e l’atto d’acquisto si era chiuso in brevissimo tempo. Definiti gli accordi e concluse le pratiche burocratiche, Alex, Camilla e Sara erano rientrati in quella che ora finalmente era, e sarebbe stata in futuro, la loro casa di campagna. Prima di tornare in città, dove dovevano riprendere il lavoro e Sara la scuola, avevano ancora a disposizione l’intero pomeriggio e parte del giorno successivo. Alex poteva così concedersi un sonnellino sul vecchio divano ai piedi del quale stava raggomitolato il gatto, Sara doveva finire i compiti e Camilla poteva approfittarne per fare una passeggiata nei dintorni. Fermarsi e scoprire quale potere può avere per la mente il ritrovarsi, da soli e nel silenzio, lungo un antico sentiero per far riemergere tanti ricordi di un percorso passato.

    Fermati a guardare un fiore, una foglia, un sasso, un filo d’erba … ad ascoltare il rumore del mare, del vento o soltanto il silenzio … Fermati a pensare come il tempo può arricchirti … Se puoi fermati, cogli quest’attimo meraviglioso di divina armonia

    (poesia Sufi)

    IL SENTIERO DEI RICORDI

    Si era tolta le scarpe col tacco per sostituirle con comode scarpe da tennis, indossava un paio di jeans e un maglione, i capelli biondi raccolti in una coda. Si era anche ricordata che la nonna diceva sempre di portare un bastone per difendersi da eventuali animali, così Camilla camminava sicura. Si sentiva libera e istintivamente aveva imboccato la vecchia strada, ridotta ormai a uno stretto sentiero, che portava alla piccola chiesa del paese. Lungo quel percorso che si snodava tra campi e boschi regnava il silenzio, quel momento era magico per pensare, per sognare. Era soddisfatta di possedere quella casa, in quel luogo che racchiudeva i suoi ricordi più belli. L’idea di potervi tornare tutte le volte che voleva l’aiutava ora a far riemergere tanti episodi della sua infanzia. Quella strada, infatti, l’aveva percorsa centinaia di volte. Il profumo intenso dell’erba umida, degli alberi, della legna, e il respirare quella brezza frizzante, la faceva sentire così vicina ai tempi trascorsi che le sembrava di riudire le voci e i richiami dei contadini nei campi, l’odore di fieno, di funghi

    … Se chiudeva gli occhi poteva rivedere le siepi con le more, le fragole selvatiche e risentirne il sapore. Poteva riascoltare il canto degli uccelli, il muggire delle mucche, il canto dei galli la mattina. Ricordava le corse nei prati con sua sorella Isabella che ora le mancava per condividere quelle sensazioni che avevano vissuto insieme tanti anni prima.

    ADATTARSI A CONVIVERE CON UNA SORELLA

    Camilla non aveva mai dimenticato il giorno in cui una culla di vimini fu collocata in mezzo alla stanza della casa dove abitava con i suoi genitori in una cittadina della periferia di Milano. Lei era eccitatissima, le avevano detto che doveva nascere il Fratellino. Camminava avanti e indietro, poi si sedeva, se sentiva un rumore correva ansiosa alla porta per vedere rientrare finalmente i genitori dall’ospedale dove la mamma era andata a partorire. A Camilla avevano raccontato che lei era nata nove mesi dopo il loro matrimonio, nella camera nuova della casa di campagna, con l’aiuto di Corilia, l’unica levatrice del paese. Corilia era una donna di mezza età che viveva sola e senza figli in una vecchia casa in mezzo al bosco, sempre pronta ad accorrere in ogni situazione dove doveva nascere un bambino.

    Camilla era una bella bambina con i capelli castani e lisci, aveva un visino dolce e dei bei lineamenti, ma aveva un carattere molto ansioso.

    Cerca di calmarti Camilla ... le ripeteva zia Emma, la sorella di mamma ... ora arrivano, vedrai che bel fratellino ti porteranno ! e finalmente, dopo un tempo che a Camilla era sembrato eterno, mamma e papà erano tornati e avevano delicatamente deposto nella culla un piccolo fagottino avvolto in una soffice coperta, poi sorridendo le avevano detto che era nata una sorellina.

    A questa incredibile rivelazione Camilla si era messa a piangere. Era arrabbiatissima e delusa: lei aspettava un fratellino! Che se ne faceva di una sorellina? In tutti quei mesi le avevano sempre promesso e parlato di un fratellino e ora non voleva che un’altra bambina femminuccia prendesse il suo posto. Durante i primi giorni di quella nuova e sgradita convivenza Camilla, se riusciva per qualche minuto a restare sola nella stanza, prendeva a calci la culla dove la sorellina piangeva in continuazione e per motivi incomprensibili, oltre a tutto! Se avesse potuto l’avrebbe rispedita immediatamente nel luogo da cui era arrivata, ma alla fine aveva dovuto arrendersi e rassegnarsi. Con il passare del tempo scopriva che in fondo, lei e quell’esserino, avevano molte cose in comune e che, data la minima differenza d’età, potevano condividere emozioni e giochi. Isabella aveva i capelli biondi e mossi, un bel faccino furbetto e paffutello, e appena fu in grado di esprimere la sua personalità si dimostrò vivacissima, esuberante, mattacchiona, impulsiva, divertente e tanto affettuosa da riuscire a farsi amare da tutti, proprio tutti, Camilla compresa. Lei Camilla, al contrario, era una bambina molto più quieta, riflessiva e sensibile, specie quando intuiva che in casa c’era tensione perché papà e mamma, dopo un lungo giorno di lavoro, erano troppo stanchi e nervosi per dedicarsi a loro, così era lei stessa a prendersi cura di Isabella coccolandola e raccontandole fiabe prima di addormentarsi. Mamma Ester era una donna giovane e bellissima. Era alta e piuttosto magra ma con un corpo sinuoso e un seno prorompente. Aveva gambe lunghe e affusolate, i capelli castani, con striature ramate, contornavano il suo viso dai lineamenti delicati e le scendevano fin sulle spalle. Aveva un portamento altero e signorile e non passava mai inosservata agli sguardi maliziosi degli uomini che sempre si voltavano ammirati per guardarla. Papà Dino aveva conosciuto Ester alla fine della guerra e se ne era perdutamente innamorato. Dal punto di vista fisico era un uomo del tutto comune e sicuramente non avvenente quanto lo era mamma. Non era molto alto di statura, e certamente più basso di lei, aveva capelli scuri e un viso dai lineamenti regolari. Aveva sette anni più di Ester e aveva fatto la guerra durante la quale, per sua fortuna - come spesso raccontava - era stato prigioniero in un campo inglese. Di particolare aveva un carattere dolce e bonario che a volte lo faceva sembrare persino un po’ingenuo. Era allegro, fiducioso, affettuoso, buono come il pane come si diceva, sempre pronto a dare una mano a tutti quelli che gliela chiedevano. Dino amava la sua giovane e bella sposa considerandola quasi un miracolo che la vita gli aveva incredibilmente concesso, ma spesso accadeva che, intimorito per la particolare avvenenza della moglie, si sentisse insicuro e si lasciasse andare a vere e proprie scene di gelosia. Gelosia che lo faceva star male e mandava Ester su tutte le furie. Isabella e Camilla soffrivano per quei frequenti litigi tra i genitori e ogni volta si spaventavano a morte e si sentivano infelici.

    Ester purtroppo era cagionevole di salute e alcuni dei suoi frequenti malori richiedevano il ricovero in ospedale. In quei periodi di assenza della madre, alcuni brevi per fortuna altri invece piuttosto lunghi, loro venivano affidate a una famiglia che abitava sullo stesso pianerottolo oppure a giovani ragazze del luogo assunte temporaneamente come baby sitter a tempo pieno. Com’era successo con Anna ad esempio, che prima faceva le pulizie nello studio di un medico e poi, in attesa di un lavoro più remunerativo, si era trasferita a casa loro. Anna era molto carina, dolce e intelligente, teneva in ordine il piccolo appartamento e le seguiva sino al rientro di Ester. Dopo Anna avevano ospitato qualche parente che arrivava dalla campagna in cerca di lavoro. In un nebbioso giorno di novembre si era presentata alla porta Geraldina, una ragazzona alta e robusta con un vestitino leggero, quello delle occasioni importanti e l’unico che possedesse sia per l’estate che per l’inverno, senza calze e con ai piedi un paio di zoccoli di legno. La mamma in pochi giorni l’aveva letteralmente trasformata adattando per lei i suoi vestiti e le sue scarpe con il tacco e poi convincendola a cambiare acconciatura. Guardandosi allo specchio Geraldina quasi non si riconosceva. L’immagine riflessa era quella di una donna attraente, quasi raffinata, non più quella di una sciatta ragazzotta di paese. Le era stato facile adattarsi in quei nuovi panni e aveva imparato anche a truccarsi con un po’ di cipria e di rossetto sulle labbra. Con l’arrivo della primavera, Geraldina non era più la ragazza giunta in quell’ormai lontano giorno nebbioso e sembrava come sbocciata a nuova vita. Essendo cresciuta all’aria aperta di campagna aveva mantenuto un suo naturale colorito roseo, aveva ampie spalle, petto pronunciato e fianchi robusti. Anche la sua permanenza comunque fu breve perché, nonostante la sua esuberanza fisica, era molto ingenua e sprovveduta, non conosceva bene la lingua italiana ma soltanto il suo dialetto emiliano. Con Camilla e Isabella parlava poco, l’unico gioco che sapeva fare per intrattenerle si ripeteva di solito a fine pranzo quando, pensando di divertirle, riempiva un piatto con del vino, v’immergeva le dita ed emettendo degli strani versi: fo … fo … fo… se le succhiava invitandole ad imitarla. Le due sorelline, sconcertate, restavano lì a guardarla senza saper decidere se mettersi a ridere o a piangere per la stranezza della situazione. Nelle giornate di sole Geraldina le accompagnava sempre fuori, in un parchetto dove c’era un po’ di verde. Dopo un po’ di tempo però, la signora Pina che abitava nel loro stesso caseggiato, aveva riferito a Ester che quella bella ragazzona lasciava sole le bambine per inoltrasi in un boschetto con alcuni giovanotti. Camilla e Isabella lo sapevano ma non avevano mai fatto la spia, come aveva chiesto loro Geraldina, e senza tanti preamboli, prima di lasciarle sole a giocare proprio ai limiti di quel boschetto. Ester non poteva più fidarsi di lei e così, forse un po’ a malincuore perché si trattava pur sempre di una cugina, si era risolta a rimandarla al suo paese. Dopo tanti via e vai di volti e di persone diverse un giorno, finalmente, si presentò alla porta di casa la nonna, la mamma di Ester. Si chiamava Fenisia ma per tutti era nonna Fè. Arrivava anche lei dalla campagna per rimanere con loro e dare una mano alla figlia fino all’estate. Vestiva di scuro e sembrava più vecchia della sua età; aveva capelli grigi raccolti dietro la nuca che spesso ricopriva con un foulard. Con lei, Camilla e Isabella, cominciarono finalmente a stare bene, anche se, al suo primo apparire era sembrata una donna molto dura e severa. Nonna Fé era rimasta vedova presto, con cinque figli da crescere: quattro femmine e un maschio. Una figlia di soli diciannove anni, zia Isabella, se n’era andata per una grave malattia proprio quando la guerra era finita e non si potevano trovare in giro le medicine che sarebbero servite per curarla. Si chiamava Isabella appunto, e il suo era il nome che avevano dato alla sorellina per ricordarla.

    Trascorsi l’inverno e la primavera arrivò l’estate, la stagione delle vacanze, e la nonna portò le due bambine nella sua casa in campagna, la stessa dove Camilla era nata, anche se ne aveva perso la memoria.

    UN SENTIERO DI ROVI

    Camilla era assorta in quei ricordi quando si era accorta di non essere arrivata che a metà del sentiero.

    Strano, quella stradina che si snodava tra boschi e campi se la ricordava molto più breve.

    Per proseguire ora doveva per forza districarsi dai rami che in quel tratto ostruivano il passaggio e farsi largo tra l’erba alta e i cespugli con il bastone che aveva portato con sé, cercando nel frattempo di liberarsi da alcuni rampicanti spinosi che le si erano impigliati ai capelli. Certo che, per essersi ridotto in quel modo, il sentiero non doveva più essere stato percorso da molto tempo. Forse sarebbe stato meglio se avesse preso la strada comunale, quella nuova e appena asfaltata, più lunga ma sicuramente più comoda e meno ripida. Così però, la passeggiata fino alla Chiesa, non avrebbe avuto lo stesso sapore per lei. A quel punto ormai non poteva tornare indietro e con determinazione aveva continuato a farsi strada in mezzo allo stretto passaggio che a tratti si presentava libero, ma che poi tornava quasi subito a essere ostruito da altri grovigli di sterpi e di rami. Quel tragitto tortuoso e la fatica per proseguire le avevano ora ricordato un altro giorno lontano, il giorno in cui, per la prima volta, aveva intrapreso il viaggio per arrivare alla casa di sassi, alla casa di nonna Fé.

    ANNI CINQUANTA

    Erano gli anni cinquanta ed erano in pochi a possedere un’automobile quindi per raggiungere il paese in cui si trovava la casa della nonna, distante circa duecentocinquanta chilometri da Milano, bisognava partire la mattina molto presto, prendere il tram che portava in stazione Centrale, prendere il treno fino a Reggio Emilia e, all’arrivo, continuare con una corriera fino alla piazza del piccolo paesino. A quel punto si doveva proseguire a piedi o con mezzi di fortuna, come ad esempio un carretto trainato dai buoi che passava di lì per caso, fino a raggiungere la vecchia casa un po’ isolata e immersa tra campi e boschi.

    La strada che si snodava dal paese era sterrata e lungo i suoi bordi era tutto un proliferare di cespugli di more, di siepi verdi, di esili e svettanti olmi o di querce secolari. Oltre la strada si aprivano distese di prati e di campi punteggiati, in estate, da miriadi di fiorellini azzurri che si chiamavano gli occhi della madonna e da altri fiori gialli che si trasformavano in palline piumose, simili a bolle di sapone, soffiando sulle quali tutti i piumini volavano via. Tra giugno e luglio c’erano poi grossi papaveri rossi oppure, a secondo della stagione, violette, primule e fiori di camomilla che si raccoglievano per farne degli infusi.

    Nell’aria si sentiva il profumo del fieno tagliato di fresco ma anche l’odore di concime naturale che, più che un profumo, era una vera e propria puzza. Ma tutto questo per Camilla rappresentava un mondo incantato che le infondeva serenità, pace e tanta curiosità. Oltre ai prati e ai campi s’intravedevano le vette degli Appennini: un profilo più basso e più dolce e un secondo profilo più alto e lontano. I dorsi delle colline, e via via delle montagne sempre più alte, erano ricoperti da faggi e da pioppi, da alberi di noci e nocciole e da boschi di querce, castagni e abeti. Alcuni di questi boschi erano fitti e grandi e abitati da volpi, lepri, tassi, caprioli, fagiani e cinghiali. Durante il giorno nel cielo sfrecciavano indaffarate le rondini e tutt’intorno innumerevoli passerotti e tanti altri uccellini cinguettavano qua e là saltellando da un ramo o da un cespuglio all’altro. A volte, maestosi, si vedevano volteggiare i falchi in concentriche lente spirali, e di notte si sentivano cantare il gufo e la civetta.

    In estate il panorama si colorava di campi verdi d’erba profumata che si sarebbe trasformata in fieno per le mucche, e di biondi campi di grano che regalavano spighe dorate pronte per la mietitura. A questa operazione, che era eseguita dai contadini a mano con piccole falci affilate, vi partecipavano diverse famiglie con i loro figli, ragazzi e ragazze, bambini e adolescenti, ed era sempre un’occasione per allacciare amicizie e anche qualche primo timido approccio amoroso. Nel frattempo le donne più anziane preparavano il pranzo come per una festa, con pane appena sfornato, pasta fatta a mano: i tipici cappelletti, tortelli e tagliatelle. Tiravano il collo a un congruo numero di polli e di galline e dopo averli immersi nell’acqua bollente, li spennavano per farne un buon brodo (fatta eccezione di una volta, che ancora Camilla ricordava sorridendo, quando una povera gallina, al contatto con l’acqua bollente, si era improvvisamente ripresa ed era saltata fuori dalla pentola con uno scatto repentino mettendosi a correre, ormai mezza spennata, nel cortile. Nonna Fe’, in quell’occasione, fu clemente e la risparmiò: As ved ch’lé mia ancora ll’a su ora . si vede che non è ancora la sua ora . aveva detto, e forse fu l’unica gallina che in seguito morì di vecchiaia!) Le donne arrostivano vari tipi di carne condendole con rosmarino, salvia e aglio. Preparavano poi succulente salse di verdure fresche – una eccezionale era quella di prezzemolo - e insalate di radicchio. Per completare il banchetto non mancavano mai frutta fresca appena colta dagli alberi, torte e budini. Alla fine si mettevano a tavola brocche di vino fatto con le uve delle vigne che circondavano le case, perché a quei tempi ogni famiglia ne coltivava almeno una. Quando calava la sera, a lavoro terminato, si festeggiava tutti insieme intorno alla tavola imbandita discutendo del più e del meno, in bene o in male e ironizzando e

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