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Nelle piaghe del Leone
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Nelle piaghe del Leone

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Viaggi - reportage (98 pagine) - Il Kurdistan, tra uomini e donne che vivono, lottano e sognano.

Il leone è considerato dai curdi il simbolo del Kurdistan. Un simbolo pregnante, che ben incarna la fierezza e la combattività dei suoi popoli. Ma anche un simbolo che si presta a visualizzare pure le profonde ferite di una terra discriminata, dilaniata, lacerata da confini politici artificiali, da guerriglie e guerre senza fine, e insieme confusa nella sua stessa essenza da una complessità di forze ideologiche e militari, di identità religiose e nazionali, di necessità e aspirazioni, con tutte le contraddizioni che ciò comporta.
È dunque un leone indomito ma straziato, il Kurdistan. Ed è nelle sue piaghe che ci conduce la giornalista Selene Verri, con questo reportage capace di destreggiarsi tra simpatie e oggettività, tra esperienza personale, narrata in soggettiva, e approccio giornalistico, tra grandi idee e piccoli bisogni, tra la drammaticità dei fatti geopolitici e del quotidiano umano e le vicissitudini (spesso anche divertenti, o quantomeno trattate con ironico sorriso) di chi viaggia tra Turchia, Iraq e Siria, in quello che (non) è il Kurdistan.

Selene Verri è una giornalista per vocazione. Ha lavorato da free lance per Radio Popolare, Avvenire, Avvenimenti, Affari Italiani. Attualmente, collabora, tra gli altri, per il canale televisivo Euronews. È nata a Milano e risiede in Francia, a Lione, ma è spesso in movimento per professione e per passione, in particolare nella aree del cosiddetto Kurdistan, che inizia a scoprire sul campo sin dal 2002. Nel 2010, in Iraq, ha intervistato Murat Karayilan, leader militare del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). In quell’occasione, è stata accompagnata dal fotografo Giovanni Sacchetti, insieme al quale ne ha tratto una mostra allestita a Lyon nel 2014, oltre che un libretto fotografico (Rojbaş – Bienvenue au Kurdistan). Nel 2013, Verri ha ottenuto la menzione “Talenti emergenti” al premio Giornalisti del Mediterraneo per il reportage Proteggere il patrimonio culturale per salvaguardare il futuro trasmesso da Euronews.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateSep 12, 2017
ISBN9788825403237
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    Nelle piaghe del Leone - Selene Verri

    Euronews.

    Introduzione

    Il leone è considerato dai curdi il simbolo della Mesopotamia. Naturalmente è più propaganda – o mitologia, o leggenda, o credenza popolare, chiamatela come volete – che realtà. Una propaganda che si basa su un fondo di verità, sui ritrovamenti di immagini di leoni risalenti all’era assiro-babilonese in vari punti della zona che viene considerata Kurdistan, cioè il territorio a maggioranza curda che si stende fra Turchia, Siria, Iraq e Iran: in particolare i leoni che appaiono nei bassorilievi dei palazzi di Ninive, antica capitale assira che coincide oggi in parte con la città di Mosul, in Iraq. La verità quindi è che il leone è considerato il simbolo del Kurdistan, territorio che non si sovrappone esattamente a quello della Mesopotamia, ma in parte con la Mesopotamia del nord. Quali che ne siano le origini, è un simbolo che mi sembrava molto pregnante, e quindi ho deciso di prenderlo in prestito.

    Avevo bisogno di un simbolo perché avevo bisogno di un’immagine che rappresentasse qualcosa di dilaniato, ferito, spezzato, per rendere l’idea di una terra e di popoli dilaniati, feriti, spezzati. Perché questa zona, parte Mesopotamia e parte Anatolia, è sì oggi popolata in maggioranza da curdi, ma non solo: vi si trovano arabi, armeni, turcomanni, assiri, circassi, ceceni… e credenti delle confessioni più varie: sciiti, sunniti, aleviti e alawiti (che a seconda dell’interlocutore con cui si parla sarebbero la stessa cosa oppure no), cristiani di chiese diverse, yazidi, ebrei… E se non derivasse da una storia tragica, sarebbe quasi buffa la disputa fra curdi e armeni sul sud-est della Turchia, che gli uni chiamano Kurdistan del nord e gli altri Armenia dell’ovest. Quel che è certo è che tutti questi popoli – i curdi naturalmente in testa – da circa un secolo hanno a che fare con frontiere artificiali che sono la prima causa di separazioni di famiglie, discriminazioni, persecuzioni da parte dell’uno o dell’altro Stato, massacri, esodi, esili, e una diffusa povertà. E, di rimbalzo, guerriglia e terrorismo.

    Mi è sembrato allora interessante parlare di queste frontiere dall’interno, mostrare che cosa significa in modo molto concreto doverle attraversare, e mi è sembrato interessante farlo non – o non soltanto – attraverso voci del posto, ma da un punto di vista da straniera, da occidentale. Per due ragioni.

    Innanzi tutto, lasciare la parola a chi ci vive è estremamente interessante, ma dal punto di vista dell’impatto rischia di colorarsi di un’aura di esotismo che annacquerebbe il messaggio, lo renderebbe la storia di qualcosa di lontano, di qualcosa che non ci riguarda. Mentre le mie esperienze da occidentale, rievocate anche con una certa autoironia, intendono appiattire un po’ la prospettiva e conferire concretezza alla narrazione. In fondo le ho avute, queste esperienze, perché non condividerle?

    La seconda ragione è che vorrei che queste frontiere rappresentassero le frontiere di tutto il mondo, e non intendo quelle banalmente amministrative che hanno tutto il diritto di esistere (come esistono comuni, aree metropolitane, province, dipartimenti, regioni e quant’altro, anche gli stati hanno una loro utilità), ma quelle barriere talvolta impenetrabili, quei muri che impediscono la naturale circolazione delle persone, e che oggi separano profughi e migranti da una vita dignitosa. Ho voluto mostrare da un punto di vista occidentale che cosa significhi molto concretamente dover attraversare barriere come queste, che talvolta sono anche barriere interne, come i checkpoint del Kurdistan iracheno o le aree occupate da Daesh in Siria.

    Se poi volete leggerli come semplici racconti d’avventure di una giornalista un po’ imbranata, va bene lo stesso, e spero che li apprezzerete: alcuni sono più divertenti, altri più drammatici, ce n’è per tutti i gusti. Un avvertimento: i racconti sono stati concepiti per essere autonomi l’uno dall’altro, quindi troverete molte ripetizioni rispetto a persone, luoghi, sigle… Insisto sul fatto che si tratta di racconti, non di resoconti precisi: non ho inventato nulla ma la mia memoria è tutt’altro che infallibile, i fatti sono – spero, almeno – quelli che ricordo, ma non necessariamente con i dettagli che ricordo e nell’ordine che ricordo.

    Quel che non bisogna comunque mai dimenticare è che il Leone è tutt’altro che addormentato, ma è un leone ferito, lacerato, e non c’è nulla di più pericoloso di una bestia ferita.

    Io sono stata nelle piaghe del Leone e sono qui a raccontarlo.

    Personaggi ricorrenti

    In ordine di apparizione:

    Io: Selene Verri, giornalista. Parlo già fin troppo di me in questi racconti, direi che non c’è bisogno di aggiungere altro. Tranne forse un paio di elementi biografici: nata a Milano nel 1971, vivo a Lione, in Francia, dal 2004. – Appare in: tutti i racconti.

    Giovanni: Giovanni Sacchetti, fotografo. Conosciuto a Diyarbakır, in Turchia, nel marzo 2010, mi ha seguita nel Kurdistan iracheno fino agli accampamenti del PKK, dove ho intervistato il leader militare Murat Karayılan. Nel 2014 a Lione ho organizzato una mostra di foto sue sul Kurdistan da cui ho ricavato un libretto fotografico con testi miei in francese intitolato Rojbaş – Bienvenue au Kurdistan. Potete ammirare i suoi lavori sul suo sito internet www.giosacchetti.com. – Appare in: Luna di miele; Biji Del Piero!; L’ultimo checkpoint; Major Tom to Ground Control.

    Abdullah: cameraman, ne ometteremo il cognome per ragioni di sicurezza. L’ho conosciuto a Erbil, in Iraq, dove all’epoca lavorava per un’agenzia filocurda la cui sede centrale si trova in Turchia. È lui che ha filmato la mia intervista a Murat Karayılan. – Appare in: Biji Del Piero!; L’ultimo checkpoint; Un tè nel deserto.

    Magali: Magali Magnin, operatrice video, residente a Lione, nel maggio 2015 mi ha seguita nel mio avventuroso periplo fra Turchia, Iraq e Siria, dove abbiamo filmato un reportage per un canale televisivo internazionale e immagini da usare nella realizzazione di un documentario sulla rivoluzione femminista in corso nell’autoproclamata regione autonoma del Rojava, nel nord della Siria. – Appare in: Biji Del Piero!; Sono una giornalista; Un tè nel deserto; Fiore da cannone; Viaggiatori di contrabbando; Bella Ciao; Inadeguati.

    Flavius: Flavius Mihaies, francese, residente a Washington dove lavora per la Banca Mondiale. Ha una passione per il giornalismo e ha scritto, tra l’altro, per l’Huffington Post. Per non farsi mancare nulla, fa anche l’istruttore di yoga. Io e Magali l’abbiamo conosciuto ad Amûdê, in Siria, e da allora siamo diventati inseparabili, facendo insieme anche il complicato e avventuroso viaggio che da Amûdê ci ha portati a Kobanê passando per l’Iraq e la Turchia. – Appare in: Un tè nel deserto; Fiore da cannone; Viaggiatori di contrabbando; Bella Ciao; Inadeguati.

    William: Anche in questo caso ometteremo il cognome. Foreign fighter francese nello YPG, le milizie a maggioranza curda, e poi nelle SDF, Forze Siriane Democratiche. Ha contribuito alla liberazione di roccaforti chiave di Daesh, come Tal Abyad e Manbij. L'ho incontrato nei pressi del fronte in Siria e di nuovo a Parigi, prima che ripartisse a combattere a Raqqa. – Appare in: Fiore da Cannone; Sul fronte per Charlie.

    N.B.: Tutte le persone presenti in questa lista sono state contattate una per una e mi hanno autorizzata a usare il loro vero nome (anche nei casi in cui ho deciso di non usare il cognome). Per chi non è presente in questa lista, laddove possibile i personaggi sono stati contattati ugualmente oppure, quando non è stato possibile, mi sono presa la responsabilità, sulla base di un’esperienza pluriennale, di decidere se la pubblicazione del nome reale potesse mettere in pericolo la sicurezza della persona. Laddove ho pensato che fosse il caso, ho usato nomi fittizi oppure non ho attribuito nomi.

    Parte prima – 2010

    Luna di miele

    Tir a perdita d’occhio. Chilometri di camion, autocarri, autotreni, autoarticolati, di ogni varietà, colore, forma e dimensione. Li vediamo sfilare fuori dal finestrino, immobili, come mostri addormentati, quella mattina, sulla strada che porta da Cizre, in Turchia, alla frontiera irachena. Giovanni, il fotografo che mi accompagna guidando l’auto che abbiamo noleggiato il giorno prima a Diyarbakır, non può esimersi dal fermarsi a fare qualche scatto. Lo spettacolo è impressionante. Per la maggior parte trasportano materiale da costruzione. C’è ancora molto, moltissimo da costruire in Iraq nel 2010, perfino in un Kurdistan cui è stata risparmiata l’ultima guerra, ma che porta ancora i segni di decenni di conflitti precedenti.

    Conosco Giovanni da pochissimo. Dal giorno prima, per la precisione, il 21 marzo: il giorno del Newroz, il capodanno curdo che a Diyarbakır, considerata la capitale del Kurdistan di Turchia, è una grande festa con centinaia di migliaia di persone – ogni anno gli organizzatori esagerano il conteggio sempre di più, credo si sia arrivati a una stima di due o tre milioni di partecipanti. È vero che a Diyarbakır – Amed, per i curdi – in occasione del Newroz arriva gente da ogni angolo del globo terracqueo, che siano originari della regione o stranieri come me. O come Giovanni,

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