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Al cuore... si comanda (Parte I°)
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Al cuore... si comanda (Parte I°)

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About this ebook

Tre amiche fuori dal comune.
Un gatto pigro e tremendamente viziato.
Una mandria di vecchietti agguerriti, sempre in fila dal dottore.
Mi chiamo Natalie Parker e queste sono le costanti della mia vita.
Anzi, mi correggo. Queste erano le costanti della mia vita.
Finché il destino non mi ha servito su un piatto d’argento un sexy tenente dell’esercito americano, facendolo trasferire a pochi passi dal mio portone.
Ma Logan Matthews significa guai.
Enormi, possenti e sensualissimi guai.
Di quelli che una sognatrice come me dovrebbe evitare come la peste.
Eppure, nonostante le mie terribili gaffe, qualche bizzarro incidente di percorso e una timidezza che rischia di essere travolta da un concentrato accattivante di muscoli, prepotenza e testosterone, Logan Matthews mi desidera in un modo che fa sussultare il corpo, infiammare i sensi e palpitare il cuore. 
E quando il cuore palpita… è sempre un gran pasticcio.
LanguageItaliano
Release dateSep 11, 2017
ISBN9788826400501
Al cuore... si comanda (Parte I°)

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    Al cuore... si comanda (Parte I°) - Lexie Nicholls

    633/1941).

    Sinossi

    Tre amiche fuori dal comune.

    Un gatto pigro e tremendamente viziato.

    Una mandria di vecchietti agguerriti, sempre in fila dal dottore.

    Mi chiamo Natalie Parker e queste sono le costanti della mia vita.

    Anzi, mi correggo. Queste erano le costanti della mia vita.

    Finché il destino non mi ha servito su un piatto d’argento un sexy tenente dell’esercito americano, facendolo trasferire a pochi passi dal mio portone.

    Ma Logan Matthews significa guai.

    Enormi, possenti e sensualissimi guai.

    Di quelli che una sognatrice come me dovrebbe evitare come la peste.

    Eppure, nonostante le mie terribili gaffe, qualche bizzarro incidente di percorso e una timidezza che rischia di essere travolta da un concentrato accattivante di muscoli, prepotenza e testosterone, Logan Matthews mi desidera in un modo che fa sussultare il corpo, infiammare i sensi e palpitare il cuore. 

    E quando il cuore palpita… è sempre un gran pasticcio.

    A mio padre,

    che mi ha trasmesso

    quel bizzarro senso dell’umorismo

    che mi aiuta ad affrontare la vita

    con la giusta dose di leggerezza.

    L’umanità si prende troppo sul serio.

    E’ il peccato originale del mondo.

    Se l’uomo delle caverne avesse saputo ridere,

    la storia avrebbe seguito un altro corso.

    ( - Oscar Wilde - )

    Capitolo 1

    Le mie migliori amiche vivono di grandi ambizioni.

    Phoebe punta ogni uomo il cui conto in banca possieda più di otto zeri per poter fare la ricca mantenuta a vita, perché è convinta che fare la commessa in una profumeria sia un mestiere poco gratificante.

    Tara, giornalista di successo presso il Riverfront, pur di scalare in fretta la ripida montagna della sua carriera, sarebbe disposta a passare sopra a chiunque, come un carro armato ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

    Rachel è una veterinaria felicemente fidanzata e in procinto di organizzare il matrimonio più scintillante del secolo, con l’aiuto non richiesto di una futura suocera tremendamente impicciona.

    E poi ci sono io. Natalie Parker.

    Ho venticinque anni e faccio la segretaria nella clinica medica privata del dottor Ferguson, convivo con Tara che a casa non c’è mai perché al giornale non le danno mai tregua, mi abbuffo di dolci insieme al mio gatto persiano e sogno sempre il grande amore.

    Quello con la A maiuscola.

    Quello che ti sconvolge la vita e ti travolge come un uragano.

    Quello che ti mozza il respiro, te lo ruba e non te lo restituisce più.

    Quello che ti ubriaca le farfalle nello stomaco con una sbornia più colossale di quelle che ti prendi a una festa di laurea.

    Insomma, avete capito, no?

    Quel tipo di amore che trovi solo sullo schermo di un televisore o tra le pagine di un libro.

    Talmente lontano dalla realtà di tutti i giorni che, se potessi, mi prenderei in giro da sola dandomi uno scappellotto in testa per svegliarmi come si deve. Perché l’età per credere alle favole è passata da un pezzo, con un treno di sola andata per il mondo dei sogni, sfrecciato a gran velocità sul binario degli illusi.

    Purtroppo, però, i romanzi e i telefilm d’amore che ho divorato senza sosta negli ultimi anni, si sono insidiati in modo subdolo nel mio cervello, facendogli credere che il mio uomo ideale potrebbe essere uno soltanto.

    E anche se trovarlo in mezzo a milioni di americani è una missione piuttosto complicata, io non demordo. Mai e poi mai.

    Perché il mio principe azzurro deve pur esistere da qualche parte e non mi arrenderò finché non l’avrò trovato e tirato giù a forza dal suo cavallo bianco, facendogli sbattere il muso per terra con la grazia di un ippopotamo.

    Al principe, naturalmente, non al cavallo.

    E mentre penso al mio uomo ideale, seduta dietro la scrivania bianca della mia postazione di segretaria, fisso con impazienza le lancette dello strambo orologio appeso alla parete alla mia destra, uno dei gadget dal dubbio gusto estetico che gli informatori farmaceutici regalano da anni al dottor Ferguson e che lui accetta sempre con immensa generosità... o forse per pura e semplice idiozia.

    Perché un orologio gigante tutto rosa a forma di stomaco, con al centro l’immagine di un’ulcera da cui partono due lancette marroni e, poco sotto, la scritta enorme della marca di un farmaco antiacido... beh, a mio parere rappresenta uno degli omaggi più brutti che io abbia mai visto in vita mia. Ma quando c’è di mezzo la parola "gratis"… occhio non vede, cuore non duole. 

    Appena le mie amate lancette segnano le sei, clicco finalmente il tasto di spegnimento del computer ignorando palesemente i diecimila messaggi che mi manda il sistema antivirus e gli altrettanti avvisi di aggiornamento del software, che ogni giorno evito di prendere in considerazione per il semplice fatto che non ho la più pallida idea di cosa vogliano da me.

    Non appena lo schermo si oscura, facendo scomparire lo screensaver su cui troneggia la foto del mio gatto persiano grigio, afferro la borsa, do una sistemata alla sala d’attesa ormai vuota - riallineando le sedie nere di plastica e raggruppando le riviste che regnano in ordine sparso sul tavolino di vetro al centro della stanza - e, dulcis in fundo, mi affaccio nel corridoio per salutare il mio datore di lavoro, ancora rintanato nel suo ambulatorio assieme all’ultimo paziente.

    «Arrivederci dottor Ferguson, ci vediamo lunedì.»

    Dall’ultima stanza in fondo a quello che sembra il tunnel bianco e luminoso delle esperienze pre-morte, la voce del medico risponde squillante: «Ciao Natty, passa un buon weekend!»

    Odio essere chiamata Natty, nessuna persona sana di mente lo farebbe sapendo che rischia di essere sgozzata come un agnello sacrificale. Ma il dottor Ferguson continua imperterrito ogni giorno, perché quest’uomo è la personificazione irritante dell’ottimismo.

    Una creatura sulla quarantina, bassa, un po’ stempiata e con dei baffetti marroni alla Charlie Chaplin.

    Un uomo che non ho mai visto una sola volta arrabbiato, depresso o frustrato in due anni che lavoro per lui.

    Una persona che può permettersi di chiamarmi in quel modo orrendo perché mi dà lo stipendio e sa benissimo che non potrei mai saltargli addosso senza correre il rischio di perdere il lavoro seduta stante.

    Perciò incasso il colpo e me ne vado rassegnata, fantasticando ancora una volta su nuovi e ingegnosi metodi con cui potrei convincerlo a smettere.

    Tipo riempirgli il computer di virus più agguerriti dell’Ebola e capaci di spazzargli via l’intero hard disk in meno di cinque secondi.

    Oppure avvertire accidentalmente sua moglie del fatto che, quando viene a farsi visitare l’aitante Irina Sokolov - russa, biondissima, con due tette grosse come meloni e single al cento per cento - il dottor Ferguson è solito chiudere a chiave la porta dell’ambulatorio. E trattenersi più del dovuto.

    Molto più del dovuto.

    O forse basterebbe semplicemente prendere la rincorsa e sferrargli una ginocchiata nei gioielli di famiglia. Senza nessun dispiacere da parte della signora Ferguson che, da quando ha letto su Vogue che fare troppo sesso può portare a un invecchiamento precoce della pelle, ha abolito quasi completamente ogni tipo di attività ludica sotto le lenzuola.

    E mentre mi avvio al parcheggio, con gli ingranaggi del cervello che girano senza sosta, sento per caso il mio cellulare emettere un bip.

    Senza smettere di camminare lungo il marciapiede, col rischio di centrare in pieno il primo sventurato pedone che passeggia nel senso contrario al mio, tiro fuori il telefonino e leggo il messaggio che la mia coinquilina mi ha appena inviato su WhatsApp:

    Ore 18.00

    Tara: Il pollo è nel microonde, lo devi solo riscaldare. Non aspettarmi per cena perché stasera faccio tardi.

    Ah, Leo ha cagato sulle tue scarpe nuove.

    Baci baci.

    Torno indietro alla penultima riga.

    Leo ha cagato sulle tue scarpe nuove...

    E la rileggo tre volte, con un’ansia sempre crescente.

    No. Non quelle scarpe, Dio ti prego, non quelle scarpe.

    Sono i miei sandali preferiti, quelli neri della Manolo Blahnik col tacco altissimo e così pieni di brillantini da illuminare un intero quartiere di notte. E li ho pagati mezzo stipendio.

    Ma a essere sinceri, avrei dovuto prevedere una simile evenienza. Perché, come ho appena specificato, i miei sandali sono neri e questo già di per sé spiegherebbe molte cose.

    Tipo una delle manie più strampalate che un animale domestico possa avere, cioè quella di evacuare quintali di cacca solamente sopra gli oggetti di quel colore.

    Come ha fatto col telecomando del televisore del soggiorno, col mio prezioso e bellissimo kindle, col telefono cordless all’ingresso, coi pantaloni di pelle che Tara si è comprata un anno fa, col suo nuovo iPhone dalla cover nera, con le sedie della cucina e, per finire, con uno dei dischi in vinile della vecchia collezione di Andrew, il fidanzato di Rachel, che ovviamente non l’ha presa molto bene.

    Insomma, Leo caga solo sopra il nero.

    Prendo in mano le chiavi, corro verso la mia Nissan Micra rosa, parcheggiata in modo un pochino indecente, entro in macchina e metto in moto in tempo record, per poi sfrecciare alla velocità della luce in direzione di North Hampton, il quartiere residenziale in cui abito, situato nella zona sud-ovest della città di Saint Louis.

    Pensando a tutte le possibili punizioni corporali cui sottoporre quel malefico persiano grigio che sfamo ogni giorno.

    Perché Leo non è un semplice gatto.

    No, lui è l’esempio vivente di come una creatura del regno animale possa schiavizzare un essere umano nel modo più snob e smorfioso che esista, ottenendo in cambio più coccole di un nipotino viziato dai nonni che trasgrediscono spudoratamente le regole imposte dalla mamma. Come se dispensare crudeltà e indifferenza fosse il segreto per farsi amare in modo unico e incondizionato.

    Stupida io che gliel’ho permesso fin da quando l’ho tenuto tra le mani la prima volta, quando i miei genitori me l’hanno regalato per Natale cinque anni fa, facendomi perdutamente innamorare di quel frugoletto grigio lungo venti centimetri, talmente peloso che, per riuscire a vedergli gli occhi, dovevo soffiargli l’aria in faccia a labbra socchiuse.

    In ogni modo, dopo aver accolto in casa il piccolo Leo e averci giocato per quasi un’ora intera, dall’alto della mia immensa ingenuità e soprattutto della mia inesperienza con un animale domestico, avevo deciso di mettere in chiaro la mia posizione nei suoi confronti, proclamando con tono solenne: "Io sono la padrona e tu, d’ora in poi, mi ubbidirai."

    Detto fatto.

    Tempo cinque minuti e quello scricciolo peloso si era già attaccato con i denti a un ramo dell’albero di Natale, tirandolo verso di sé con una forza sovrumana e rovesciandosi addosso un intero abete alto quasi due metri, così pieno di fiocchi, pacchetti e palline colorate, da arrivare addirittura a raddoppiare il suo peso.

    È stato in quel momento che mio padre ha bestemmiato per la prima volta in tutta la sua vita e mia madre è quasi svenuta per lo shock, perché aveva dedicato circa sette ore e mezzo all’allestimento del suddetto albero di Natale, con molta più cura e amore di quando preparava i suoi due figli per un qualsiasi evento mondano, compresi il giorno del Ringraziamento e le recite di scuola.

    Ma, soprattutto, è stato in quel momento che ho capito che nel rapporto tra me e il mio animale domestico, soltanto uno di noi avrebbe comandato da lì in avanti, tenendo il potere assoluto tra le mani, come un vero e proprio despota.

    E di certo non sarei stata io.

    Finalmente raggiungo Lindenwood Avenue, la strada in cui si trova il mio complesso residenziale, e scopro con enorme disappunto che il mio posticino abituale è stato ingiustamente rubato da qualcun altro, perché una gigantesca Cadillac Escalade di colore nero, grossa due volte la mia Micra, invade quello che normalmente rappresenta il mio solito parcheggio di fortuna, contribuendo ad aumentare in modo vertiginoso il mio attuale nervosismo.

    Dopo aver lasciato l’auto a più di cinquanta metri da casa, attraverso il vialetto a passo spedito, e mentre sono quasi arrivata al mio appartamento, vedo il portone della mia vicina aprirsi all’improvviso.

    «Natalie!» mi chiama la signora Ester, con quella sua vocina gracchiante.

    La signora Hauffman ha novant’anni suonati e lunghi capelli grigi sempre raccolti in una cipolla perfetta, è secca come uno stuzzicadenti e ha la parlantina di dodici suocere riunite in consiglio, con un gusto per i pettegolezzi di gran lunga superiore a quello di qualunque altro anziano esistente sulla faccia della terra.

    «Mi dica, Ester.»

    Sto letteralmente scalpitando. Perché l’unica cosa a cui riesco a pensare è come salvare le mie amatissime scarpe dall’assalto degli escrementi di gatto.

    «Vieni qui, ho una novità interessante da raccontarti. Una di quelle succulente…» così dicendo, si sfrega le mani magre e nodose, con un’espressione spudoratamente soddisfatta.

    Nonostante sia giugno e fuori faccia già piuttosto caldo, la vecchina indossa, con perfetta nonchalance, uno scialle di lana nero sopra un vestito a fiori gialli.

    Se dipendesse da me, meriterebbe una medaglia al valore perché, solo a guardarla, già sudo come un cammello nel deserto del Sahara.

    Non dovrei per nulla stupirmi, perché la sua termoregolazione corporea è morta e sepolta dieci anni fa assieme ai neuroni della decenza e a quelli della discrezione.

    «Mi spiace Ester, ma oggi non posso proprio.»

    Se non avessi un’emergenza in casa, correrei da lei e mi farei aggiornare su qualsiasi gossip le sia giunto all’orecchio.

    «Fidati, ragazza mia, perché questo è un pettegolezzo che merita.»

    «Lo immagino, ma ho bisogno di rientrare subito nel mio appartamento perché Leo ne ha combinata una delle sue e devo rimediare prima che sia troppo tardi.»

    Per tutta risposta, lei sbuffa. «Quel gatto è peggio di un monello dispettoso. Dovresti educarlo come si deve.»

    «Lo so, ha perfettamente ragione, ma ora la devo proprio salutare. Tenga il gossip per un’altra volta, mi raccomando.»

    Raggiungo il porticato con le chiavi tra le mani e apro il portone con un pizzico di ansia.

    Mentre attraverso il corridoio per raggiungere la mia camera da letto, getto lo sguardo prima in cucina, poi in soggiorno.

    Ed è proprio qui che mi aspetta il piccolo traditore peloso - sempre che un felino, di quasi sette chili, possa essere definito piccolo - sopra il cuscino rosso che ha trascinato con violenza dal divano fino al pavimento, al solo scopo di montarselo come fosse una deliziosa gattina durante un feroce accoppiamento.

    Perché è questo che fa il mio animale domestico nei rari momenti in cui non schiaccia pisolini a destra e manca.

    Fa sesso con i cuscini del divano. E con le ciabatte di Tara, con le coperte di lana, col mio peluche di Hello Kitty e con i cappotti di pelliccia.

    Lui se li monta tutti. Nessuno escluso.

    Perché non è castrato e, in cinque anni che vive con me, ha accumulato una frustrazione sessuale talmente grande da far concorrenza a un detenuto di Alcatraz in astinenza da trent’anni.

    Appena mi affaccio sull’uscio, facendo volutamente rumore, il piccolo traditore si volta verso di me e mi fissa immobile e silenzioso. E nonostante abbia dovuto interrompere per colpa mia il suo bollente incontro erotico col cuscino, non si muove di un solo millimetro e non emette il benché minimo miagolio di disappunto.

    Il che significa che lo sa. Lui lo sa.

    «Questa te la faccio pagare... »

    Dopo averlo fulminato con lo sguardo, attraverso il corridoio a passo di marcia e finalmente raggiungo la mia camera, ma appena spalanco la porta, un odorino nauseabondo mi riempie le narici.

    E loro sono lì, le mie bellissime e amatissime scarpe sono lì. Piene di cacca. Talmente abbondante, da sembrare la diarrea di dodici rinoceronti indiani dopo che si sono beccati la salmonella.

    «Leo!»

    Non so se limitarmi a urlare o sbattere la testa contro lo spigolo del comò.

    Quella di uccidere il mio animale domestico non sarebbe un’opzione umanamente accettabile, ma potrei benissimo punirlo nel modo più atroce che conosco. Niente cibo.

    E per un gatto che è abituato a mangiare sei volte al giorno, con crocchette e bocconcini più costosi di una cena di gala a base di champagne e caviale, saltare il pasto serale è peggio di cento frustate per un gladiatore dell’antica Roma.

    Dopo aver strofinato le mie bellissime scarpe con una spugna imbevuta di detergente, per poi risciacquarle e infine lasciarle asciugare sul davanzale della finestra, mi metto in tenuta comoda, che consiste in culottes rosa e canottiera abbinata con fiorellini, liberandomi finalmente dalla costrizione del reggiseno cui sono stata sottoposta per un’intera giornata.

    Raccolgo i miei capelli biondi in una crocchia improvvisata, entro in cucina e mi richiudo la porta alle spalle.

    Leo resta fuori, il che significa niente cena per lui.

    Apparecchio la tavola, preparo l’insalata, scaldo il pollo al microonde, mi stappo una bottiglia di vino rosso e ne verso un po’ in un calice, per gustarmelo in totale relax.

    Una volta finito di mangiare, apro la porta per assicurarmi che Leo non abbia combinato qualche guaio in soggiorno per ripicca e noto con un pizzico di sorpresa che di lui non c’è traccia.

    Lo chiamo, ma non succede niente.

    Lo cerco in camera mia... niente.

    In bagno… niente.

    Non è nemmeno in camera di Tara.

    Panico. La casa è tutta qui, perciò dove diavolo può essersi cacciato?

    Poi lo sguardo mi cade accidentalmente sulla finestra del soggiorno, quella che Tara si dimentica spesso di chiudere, proprio come ha fatto stasera. Un’azione che di solito compio io, rimediando a un errore che per lei è diventato un’abitudine. Ma non oggi, perché ero tremendamente arrabbiata per via delle scarpe.

    Oddio.

    Leo è un gatto d’appartamento, non ha mai messo una zampa fuori dal portone in vita sua - tranne l’anno scorso quando è sgattaiolato fuori dalla finestra per divorarsi i pesci della signora Hauffman, ma quell’occasione non fa davvero testo -  per cui non oso immaginare cosa possa essergli successo durante la breve durata della mia cena solitaria.

    Ed ecco che il mio lato irrazionale prende il sopravvento e nella mia mente iniziano a farsi strada degli scenari piuttosto apocalittici.

    Primo tra tutti, quello più raccapricciante che potessi mai concepire: Leo che viene fagocitato da Sansone, il boa constrictor di quel delinquente di Mikhail Zykov, il russo dell’ultimo appartamento in fondo al nostro complesso residenziale, un inquilino che attualmente sta marcendo in prigione con l’accusa di furto e riciclaggio d’auto. E mentre quel teppista se ne sta comodamente dietro le sbarre, il suo gigantesco e disgustoso rettile alloggia ancora dentro una teca di vetro, appoggiata su un mobile dentro la camera da letto.

    Esco di casa un pochino sconvolta, senza nemmeno mettermi addosso qualcosa di decente, e inizio a chiamare Leo ad alta voce. Almeno una decina di volte.

    Purtroppo non ottengo nessun risultato, motivo per cui le mie speranze iniziano a crollare come un misero castello di carte alla prima folata di vento.

    Almeno finché il mio naso non sente un odorino di carne davvero delizioso provenire dall’appartamento accanto a quello di Ester Hauffman. Una casa che è disabitata ormai da qualche anno, per cui trovo strano che qualcuno l’abbia presa in affitto di recente e quella pettegola di Tara non l’abbia saputo con largo anticipo.

    Viviamo in un quartiere di appartamenti a schiera, con la facciata bianca e grigia in stile classico, privi di giardino ma dotati di portici indipendenti, che si affacciano al centro su un unico piazzale comune.

    Essendo tutti al piano terra, per Leo non sarebbe un problema saltare dentro la finestra aperta di un vicino. E un profumino del genere non sfugge di sicuro alle narici di un felino, soprattutto quando è così affamato da sbranare il polpaccio del primo essere umano che incontra per strada.

    Senza esitare, mi dirigo verso l’appartamento incriminato e, con una sfacciataggine inaudita, apro il cancelletto di legno che, alla stregua del nostro, è stato creato per scopi tutt’altro che funzionali. Salgo i pochi gradini del portico e suono il campanello, dimenticandomi completamente della mia stramba tenuta da casa.

    E aspetto, abbracciata al mio ultimo briciolo di speranza come se fosse una misera ancora di salvezza.

    Dopo alcuni secondi la porta si apre e sulla soglia appare un uomo gigantesco con l’espressione furiosa di chi spaccherebbe la faccia al primo sventurato gli capiti sotto tiro.

    Jeans neri, T-shirt grigia, capelli scuri molto corti, mascella squadrata su cui si intravede un filo di barba, occhi marroni contornati da rughe appena accennate e, dulcis in fundo, una montagna di muscoli.

    E quando dico montagna, intendo una quantità spropositata di carne soda, tonica e massiccia distribuita nei punti giusti, come se quest’uomo avesse iniziato a fare body building quando aveva solo tre anni e faceva ancora la pipì nel pannolino.

    L’unica imperfezione che questo vichingo possiede è una cicatrice che dalla fronte corre per pochi centimetri fino alla tempia sinistra, e sembra renderlo ancora più rude e maschio di quello che è.

    Nel frattempo, l’energumeno, col braccio muscoloso appoggiato allo stipite, mi fissa dalla testa ai piedi in un modo un po’ insistente.

    E non appena i suoi occhi arrivano all’altezza dei miei pantaloncini rosa, la sua espressione indecifrabile viene lievemente distorta dall’abbozzo di un sensualissimo sorriso. Di quelli che non capisci se ti stanno prendendo per il culo per l’abbigliamento sciatto e improvvisato che ti ritrovi, o se apprezzano anche troppo quello che vedono.

    «C’è Leo?» chiedo speranzosa.

    «No» risponde in modo brusco, mentre torna a fissarmi in faccia con espressione seria. 

    «Non mi chiedi chi è Leo?» ribatto tenace.

    «No, perché vivo da solo. Chiunque tu stia cercando, di sicuro non lo trovi qui.»

    Quando Madre Natura ha donato a quest’uomo una valanga di sex-appeal si è dimenticata di regalargli pure un pizzico di simpatia, questo è poco ma sicuro.

    «E da quando? Quest’appartamento non è di nessuno da un sacco di tempo.»

    «È mio. Da oggi.»

    Detto questo, comincia a fissarmi le tette senza alcuna vergogna e i miei capezzoli traditori s’induriscono. Bastardi.

    Tento di correre ai ripari coprendoli con le braccia, ma lui se ne accorge subito e mi regala una smorfia quasi divertita, con quelle labbra così carnose e perfette che spingerebbero qualunque donna a rubargli un bacio, per poi coprirsi il viso con le mani per l’imbarazzo, come una bambina che ha sottratto di nascosto una caramella dalla borsa della mamma.

    «Ti prego, non trovo più il mio gatto, dimmi almeno se l’hai visto. È grigio, di razza persiana e un pochino sovrappeso. A quest’ora sarà affamato, triste e tremendamente deluso perché l’ho messo in punizione, ma... »

    Con una rapida alzata del palmo della mano, il vichingo interrompe il mio sproloquio. «Ho afferrato il concetto. Se ti riferisci a quel sorcio che si è fottuto la mia bistecca alla brace, è di là in cucina» mi fa cenno con la testa come per invitarmi a entrare. «Perciò vedi di riprendertelo. E alla svelta.»

    «O…ok…»

    Mi avvio lentamente

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